Luglio 1988. Luglio 1989. Agosto 1990. Burdèl, queste sono tra i tre periodi della mia vita che mi hanno reso un po’ quello che sono, un patàca come pochi altri ce ne sono. Me a so’ un fiòl degli anni ’70, anche se per poco. E per me le estati romagnole dei 9, 10 e 11 anni potevano voler dire una cosa, una sola cosa: il Centro Estivo a Rocca delle Caminate.
Rocca delle Caminate è un castello, fondamentalmente, con un parco sterminato cinto da mura. Appartiene al Comune di Meldola, ma è geograficamente una “dependance” di Predappio, tanto che il buon Benito negli anni ’30 ci aveva fatto la sua residenza estiva. Ma a noi ora dell’omino dal mento volitivo non interessa, anche perché se ci fate caso, mentre leggete, siete un po’ più piccini. Siete alti un metro e poco più, non avete ancora i peli, e vi destreggiate tra sandali di plastica colorati e vestitini floreali, i pantaloncini corti hanno lo spacco laterale e la vita ascellare, e le magliette hanno inevitabilmente il colletto a polo. Esatto, siamo negli anni ’80, e voi siete una masnada di bambini al centro estivo, e se venite con me vi faccio divertire.
Donca, ammetto che il momento più difficile della giornata era prendere la Sita. Sì, un romagnolo non prende l’autobus: prende la “corriera”, o addirittura la “Sita”. E così in una fresca mattina di luglio prendi la tua prima sita e fai una ventina di chilometri di curve in mezzo ad una bambinera chiassosa. Tu sei timidino, te ne stai in disparte un po’. E quando arrivi sul piazzale del parco di Rocca, ti fai subito riconoscere perché appena sceso vomiti Pasqua dell’85 e una colonna di fumo verde ti esce dallo stomaco. Così la prima cosa che vedi del posto, è l’infermeria.
Il parco è immenso. Ma non immenso. I M M E N S O. Di fianco ai caseggiati dove ai bimbi verranno somministrati i pasti, e dove si farà la ninna il pomeriggio (ma solo i più piccini!), si stende un enorme prato in discesa. Assolato, profumato di erba e di gioco. Siamo almeno un’ottantina di bambini, e il primo giorno se ne va nel dividerci in squadre. Ricordo che un anno ero nella squadra dei Gufi, l’anno dopo le Querce e il terzo anno chi si ricorda, ma era carino: ogni squadra aveva una simbolo e un colore, che li accompagnava per tutte e tre le settimane di durata del centro estivo.
Gli animatori sapevano il fatto loro. In tre anni consecutivi ho imparato a dipingere sul vetro, a giocare a scacchi, a giocare a baseball (una specie, diciamo). E quando non si facevano queste attività, si faceva quello che veniva chiamato “il Grande Gioco”. Un gioco collettivo in cui le squadre dovevano compiere ora questa ora quell’azione per potere vincere – e alla fine delle tre settimane la classifica premiava la squadra migliore. Poteva essere una caccia al tesoro sparsa sui venti ettari di parco, poteva essere quel gioco in cui si gira con una “coda” di carta colorata appesa al sedere e tu dovevi “sfidare” un avversario e cercare di rubargliela prima che lui la rubasse a te, poteva essere andare in giro con dei cartelli sulla fronte con dei numeri tipo banda bassotti, e dovevi “leggere” quello dell’avversario prima che lui leggesse il tuo (e stavi tipo un quarto d’ora con la fronte contro il muro perché os-cia io non leggerò il tuo ma te i maroni che leggi il mio!).
Al di là dell’aspetto ludico, burdèl, io in quel quadratino di Romagna ho imparato a stare al mondo.
I miei non c’erano. E noi bambini avevamo la libertà più totale di scorrazzare per tutto il parco come più ci piaceva. E non è una cosa da poco, perché eravamo liberi di rotolarci negli spini, di fracassarci il cranio cadendo da un albero, o di fare i fenomeni buttandoci giù dalla mura in strada e ritorno. Che forse sarà anche per quello che dopo i primi anni ’90, il centro estivo non l’han fatto più.
Comunque, il primo anno come già detto io ero il “vomitino”. E c’erano bambini molto più forti e grossi di me. Adesso fan tante pugnette sul bullismo, ma non so quanti siano stati tirati in mezzo all’ortica e presi a calci e sputi. A me successe. Presi su, e non dissi niente. Fu la lezione più dura della mia infanzia: che d’al vòlti te t’an fé un caz, ma ti rompono i maroni solo perché giochi a scacchi invece che dar dietro alle bambine.
Quanti insetti strani che c’erano. Vidi il mio primo cervo volante, in quel parco, e mi sembrava di essere il Dottor Livingstone mentre esploravo il sottobosco nel querceto chiamato “i cerchioni”, perché gli alberi erano messi a cerchio.
Che sole che c’era alle due del pomeriggio, nel sentiero che conduceva da porta del Sole a porta della Luna. E che male le spine del roveto nel quale regolarmente mi infilavo per prendere una scorciatoia. Ho sempre avuto il senso dell’orientamento di una mosca nel barattolo. Ogni strano bozzolo (insetti, bachi, chissà) era inevitabilmente “ho visto un uovo di vipera”. Quanti rospi che vidi. E quanti rospi che ingoiai, zio capretto.
Os-cia, c’era ‘sto bambino che era la mia nemesi. Non ricordo il suo nome, ma ricordo la sua faccia da fotosegnaletica. Uno di quelli che sai che di lì a poco si ammazzeranno di pere, perché questo succedeva negli anni ’90. Mi faceva i maroni talmente grandi che dovevo pagarci l’IMU. Eran sempre botte. Che prendevo, ovviamente.
Senonchè il secondo anno mi irrobustii e mi alzai ulteriormente, e più che altro m’ero stufato di prenderle. Nelle zuffe spesso uscivo dolorante ma vincitore. Ero sempre in qualche modo un sensibilone: una volta un mio pugno nello stomaco ad un altro bambino arrivò a segno e lui rimase senza fiato. Gli misi subito un braccio sulle spalle, preoccupato, e gli chiesi come stava e lui, strabuzzando gli occhi, mi disse “ma sei scemo?”. Diventò ovviamente il mio “miglior amico del centro estivo”, titolo onorifico che nessun altro poi ha mai più avuto.
L’ultimo anno fu tutto da ridere perché iniziavo a scoprire il mio corpo, ma avevo qualche difficoltà a gestirlo. E così conobbi Stefania, che voleva farsi chiamare Jessica (se avete pensato alla battuta sul nome d’arte siete dei patàca, si parla di 11enni!). Mi piaceva, ‘sta bambinetta coi capelli castani e lunghi e il corpo esile che nulla aveva di femminile. Il mio primo bacio con la lingua – perché gliela mise lei, a me faceva ribrezzo. E voleva che le mettessi sempre la mano sul fianco, e che due maroni. Era fastidiosa e appiccicosa, e il romagnolo che cominciava a far capolino in me si stava stufando. Se solo avessi avuto 5 anni in più, probabilmente le avrei detto “scolta, a sét che me adès a vag a e bar che te t’am è avù?”. Ma non c’erano bar, c’era lei che mi voleva e mi cercava e mi faceva gli agguati e mi…
Dopo averle dato un pugno nello stomaco, provai a metterle il braccio attorno al collo come avevo fatto con l’amico. Non so perché, ma non funzionò esattamente allo stesso modo.
11enni romagnoli, che il Cielo ci aiuti. Insomma oltre che figlio di Romagna, ero anche un bel figlio di puttana (scusa mamma). E voialtri, cosa mi raccontate? C’è qualcuno di voi che è stato lassù? C’è tra di voi una Stefania che s’è presa un cartone?
(il Nero)
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