Siamo a Buenos Aires, quartiere del Retiro, nel cuore finanziario della città, “la City”, come la chiamano los porteños. Particolarmente conosciuta in questa zona è la celebre Avenida Santa Fe, rinomata soprattutto per essere la via dello shopping cittadino che sfocia ad estuario nella Plaza de San Martin, contornata da una complessa geometria di giardini e da meravigliosi alberi di eucalipto, araucarie e caucciù. Ha una particolarità, però, el Retiro. A differenza degli insediamenti delle periferie estreme come Villa Fiorito o Fuerte Apache, che distano una ventina di chilometri dal centro della città, la “Villa 31”, una tremenda baraccopoli che conta circa 50 mila abitanti, sorge a poco più di un chilometro dalla sopracitata Plaza de San Martin. Quindici minuti di passeggio tra la Avenida Santa Fe e Plaza Canada e, incastonata tra il disegno che formano i binari ferroviari e l’autostrada, c’è la Villa.
“Villa 31”
La storia de la Villa ha inizio nei primi anni ‘30 del ventesimo secolo, quando, soprattutto a causa della grande crisi del ’29, immigrati in prevalenza europei si stanziarono su parte della darsena del Puerto Nuevo di Buenos Aires, dando vita a quella che gli argentini chiamavano “Villa Desocupacion”, che nel 1935 venne quasi totalmente demolita su ordine del governo di allora. Ma il peggioramento della crisi economica e la scelta, da parte del governo, di favorire l’industria nelle grandi città, incentivò la crescita di un flusso migratorio interno che dalle zone rurali si riversò negli agglomerati urbani maggiori, ai margini dei quali nacquero nuovi insediamenti precari popolati soprattutto da italiani, polacchi, boliviani e argentini provenienti dal nord-ovest del Paese. Alla fine degli anni ’50, in tutta l’area metropolitana di Buenos Aires esistevano ventuno “villas” e quasi 80 mila “villeros”, numeri che spinsero il governo ad una nuova “erradicacion” (sradicamento), con la promessa di rimpiazzare le baraccopoli con complessi di case popolari che mai vennero costruite.
Tra gli anni ’60 e ’70, le “villas miserias” dentro il perimetro della capitale aumentarono vertiginosamente, così come, allo stesso modo, crebbero i sentimenti discriminatori nei confronti dei loro abitanti, chiamati volgarmente “los chorros” dai porteños dei quartieri agiati della città. Sono questi gli anni in cui opera Padre Carlitos Mugica dentro “Villa 31”, sacerdote terzomondista e militante politico assassinato nel 1974 dalla “Triple A”, la cui effige la si trova ancora oggi nei murales villeros, tanto che la Villa viene chiamata comunemente anche “Barrio Mugica”. Con il golpe del 1976 e l’avvento della dittatura militare la “erradicacion” forzata fu ancora più brutale, specie alla vigilia dei Mondiali di Calcio del 1978, con successive deportazioni massicce verso le periferie estreme della città. Conclusasi la terribile parentesi della dittatura di Jorge Videla, la “Villa 31”, così come altre villas della città, tornarono col tempo a ripopolarsi finché a metà degli anni ’90, col progetto di costruzione dell’Autopista Illia, molte abitazioni furono demolite per fare spazio ad una lama in cemento che da quel momento in poi avrebbe trafitto la Villa. Ancora oggi “Villa 31” è oggetto di un dibattito politico che si alimenta a suon di promesse da parte della classe politica dominante: se da una parte i fondi per l’urbanizzazione e il miglioramento dei servizi all’interno de la villa rimangono nelle tasche dei governatori, dall’altra, gli stessi continuano a fare campagna elettorale promettendo alla borghesia cittadina che le “villas miserias” verranno nuovamente smantellate.
Quando il calcio è questione di genere
Se c’è un linguaggio comune in tutto il mondo – specialmente se siamo in Argentina – quello è il linguaggio del calcio. Qui non è una “passione”, ma nemmeno una religione: è molto di più. Il calcio è l’unico collante che unisce tutte le persone, senza distinzioni alcune. Se poi vieni da una villa, significa che hai imparato molto presto a dialogare col pallone, e quel legame, oramai, è parte integrante di te stesso e si prolunga in un linguaggio corporeo che solo in un villero è riconoscibile.
Alla “Villa 31” il calcio si respira ad ogni angolo del barrio e scorre nelle arterie delle vie che odorano di marcio e allegria di colorati grovigli di bambini che giocano a dribblarsi e a rubarsi il pallone. A la villa al posto della piazza c’è la canchita, uno spiazzo di terra dove a volte si fa il mercato, mentre sempre si gioca a pallone, tutto il giorno, a qualsiasi ora del giorno. Attorno ci sono le abitazioni in lamiera o in laterizio di una precarietà quasi pittoresca, suggestiva. La Vergine di Copacabana affianca quella di Caacupé e di Lujàn dipinte sul muro, mentre un murales di Carlitos Mugica dà il benvenuto a la villa. E infine, al centro, c’è un rettangolo di polvere argentina sollevata dai venti che soffiano dall’Atlantico.
In questo scenario, nel 2007 iniziò l’avventura de “Las Aliadas de la 31”, la prima squadra di calcio femminile de la villa. È bene precisare che quando si parla di calcio femminile la cosa non è così scontata. Anche in Italia, nonostante esistano da tempo squadre di calcio al femminile, vige una cultura ipermaschilista che, ovviamente, esercita un forte pregiudizio anche nello sport, soprattutto nel calcio. In Argentina, paese futbolero per eccellenza, il calcio rimane appannaggio dei soli uomini, a tal punto che un’espressione femminile di questo sport può essere vista come qualcosa di stravagante. Ecco perché la creazione di una squadra di calcio composta da sole donne in questo quartiere è da considerare, in qualche modo, un gesto rivoluzionario ma anche un esempio di dignità.
Racconta Monica Santino – ct de “Las Aliadas” – che fino a poco tempo fa non era nemmeno pensabile di potersi avvicinare al campo per poter giocare liberamente, ora invece la tolleranza da parte degli uomini nei loro confronti si è sviluppata partendo dal rispetto verso il progetto che stanno costruendo. Si allenano due volte a settimana, mentre una sera è dedicata ai temi della salute, dell’educazione e della politica. Per molte di loro giocare è motivo di svago e di condivisione, per tutte uno strumento di emancipazione e di crescita all’interno di un contesto collettivo. Afferma la Santino: “Il calcio è una meravigliosa officina dove si può costruire cittadinanza, prevenire la violenza di genere e la criminalità […] Questo modo di lavorare ci sta dando risultati meravigliosi”. I soldi, come si può immaginare, sono molto pochi e amministrati in maniera autogestita dal gruppo, dove non tutte hanno ancora un paio di scarpe adatte o una divisa con cui giocare. Ma ciò che emerge da questo progetto è un’esperienza collettiva e di autocoscienza notevole che utilizza il minimo comune denominatore del calcio popolare come strumento di emancipazione. E ancora una volta, il linguaggio comune del popolo costruisce laddove il capitalismo mette ai margini e tenta di distruggere.