Il 30 aprile e il 1° maggio sono da secoli due date molto significative nella storia di Forlì: il 30 aprile si celebrava San Mercuriale e il 1° maggio, nell’anniversario della morte (1345), si festeggia tuttora San Pellegrino Laziosi, due dei compatroni della città insieme a San Valeriano e alla Madonna del Fuoco.
Durante il dominio dei Riario Sforza, il 30 aprile 1488, fu un giorno molto importante, poiché in quella data Caterina Sforza riuscì a riprendere il potere della signoria, dopo il colpo di mano dei fratelli Orsi che, il 14 aprile, aveva portato all’uccisione di Girolamo Riario.
Certamente però l’evento più rilevante, legato a queste due date, risale al 1282, quando, tra il 30 aprile e il 1° maggio, avvenne la prima delle due carneficine della storia della città (la seconda fu quella che si consumò la sera del 12 gennaio 1500 a opera dei soldati di Cesare Borgia, in seguito alla caduta della Rocca di Ravaldino).
L’evento di sangue, noto anche come la “Battaglia di Forlì”, si svolse tra un esercito reclutato in Francia, inviato da papa Martino IV nel tentativo di sottomettere i ghibellini forlivesi. Le truppe pontificie furono sconfitte grazie all’abilità strategica di Guido da Montefeltro e del suo consigliere, l’astrologo Guido Bonatti. L’episodio è ricordato nella “Divina Commedia” da Dante Alighieri, il quale, una ventina d’anni dopo quell’evento, fu a Forlì, ospite di Scarpetta degli Ordelaffi, signore della città, per cui svolse mansioni di segretario.
Nel Canto XXVII dell’Inferno, dopo aver incontrato Ulisse, Virgilio e il Sommo Poeta s’imbattono in Guido da Montefeltro. Questi domanda all’esule fiorentino in che stato si trovi la Romagna. Com’è noto dal canto di Farinata degli Uberti, i dannati sono in grado di vedere il futuro ma non il presente. Il montefeltrano porta nel cuore la Romagna, la dolce terra in cui a lungo visse e che ricorda con affetto e malinconia. La risposta di Dante sta in tre endecasillabi (vv 37-39): “Romagna tua non è, e non fu mai / Senza guerra nè cuor de’ suoi tiranni, / Ma palese nessuna or ven lasciai”. Il senso di queste parole va ricercato nei fatti storici. All’inizio del XIII secolo i signori di Romagna continuavano ad avere sempre la guerra al primo posto nei loro desideri, anche se, nel momento in cui Dante scrive, non vi erano conflitti in atto, giacché nell’aprile del 1300, a Castel San Pietro, si era sancita la completa pacificazione di queste terre.
In tre rapidi endecasillabi (“La terra che fé già la lunga prova / e di Franceschi sanguinoso mucchio, / sotto le branche verdi si ritrova”, vv 43-45) Dante parla anche di Forlì, definendola “La terra che fé già la lunga prova”, ove per “lunga prova” il poeta intende la professione di fede ghibellina che portò alla prolungata resistenza al papa.
Nel verso seguente (“e di Franceschi sanguinoso mucchio”) l’Alighieri tratteggia l’episodio della Battaglia di Forlì, il trionfo militare di cui si resero protagonisti Guido da Montefeltro e Guido Bonatti.
Per narrare i cruenti fatti che avvennero nei giorni a cavallo tra l’aprile e il maggio del 1282, ci spostiamo nell’attuale piazza Saffi dove, su un lato del campanile di San Mercuriale, è posta una piccola iscrizione su cui sono riportati i tre celeberrimi e già citati endecasillabi danteschi (“La terra che fé già…”). Pare che il punto d’osservazione dell’astrologo Bonatti fosse proprio in cima al campanile, nella cella campanaria dell’Abbazia di San Mercuriale, il punto più alto della città da cui poter ammirare il firmamento.
Alla fine del 1281 l’esercito francese aveva cinto d’assedio la città, rimasta forse l’ultima roccaforte ghibellina in Italia.
Per sottomettere alla sua giurisdizione la ribelle Forlì, il pontefice Martino IV aveva inviato in Romagna il fior fiore del suo esercito, composto da francesi e guelfi italiani, guidato dal generale Giovanni d’Appia, anch’esso transalpino.
Le truppe papaline si erano accampate nei borghi appena fuori le mura di Forlì e li avevano rasi al suolo. Dopo alcuni mesi d’assedio, la città era stremata dalla fame e dalle privazioni ed era sul punto di arrendersi. Fu allora che il condottiero dei forlivesi, Guido da Montefeltro, consigliato dal saggio e anziano Guido Bonatti, giocò l’ultima carta per tendere una trappola all’esercito guelfo. Un escamotage che si rivelò un vero e proprio “cavallo di Troia” vincente. L’idea del montefeltrano era di lasciare campo libero ai francesi, mentre dall’alto del campanile l’astrologo Bonatti, con un segnale convenuto, avrebbe guidato la resistenza forlivese.
Il capitano del Popolo aveva consultato l’astrologo, il quale si era dichiarato certo riguardo al buon esito della battaglia. Bonatti aveva osservato che Marte stava entrando in Capricorno, la costellazione alla quale è legata la città. Spinse perciò allo scontro, profetizzando la vittoria. Secondo alcune fonti pare anche che Bonatti avesse predetto il proprio ferimento durante l’assedio, cosa che poi in effetti si avverò.
Nella notte tra il 30 aprile e il 1º maggio 1282, dal piano si passò all’azione: Guido da Montefeltro e i suoi uomini, col favore delle tenebre, uscirono di nascosto dalle mura e si appostarono nei dintorni della città mentre un altro gruppo di armati si nascondeva nel centro cittadino.
La mattina seguente i forlivesi finsero la resa, aprendo le porte della città e tributando grandi onori ai soldati francesi, i quali, ben felici di non aver rischiato la vita in uno scontro corpo a corpo con i ghibellini, passarono la giornata tra feste e bagordi, gozzovigliando a più non posso, depredando le dispense delle case, facendo incetta di vino e libagioni. Di certo non si salvarono le donne che furono, loro malgrado, vittime delle attenzioni particolari dei soldatacci del Papa.
Sta di fatto che gli uomini di d’Appia, tra una bevuta e l’altra, tra una mangiata e una violenza, ubriachi e fiaccati nel fisico, al calare della sera si stesero a riposare ovunque capitasse.
Fu allora che Bonatti salì sul campanile di San Mercuriale e, secondo alcune fonti suonò le campane, secondo altre accese un fuoco. Era il segnale convenuto. Dalle case in cui si erano nascosti e dalle porte riaperte della città, i soldati forlivesi irruppero sui francesi, travolgendoli e sterminandoli a colpi di lancia e di spada.
La vittoria di Guido da Montefeltro provocò molte centinaia di morti (c’è chi parla di 700, chi di 2.000) e spezzò la fama d’invincibilità di cui le truppe francesi godevano da lungo tempo.
Grazie all’intervento dei Battuti Neri, i caduti vennero onorevolmente sepolti in una grande fossa comune, scavata sul lato est della piazza, a ridosso del cimitero dell’abbazia. Come pietoso ricordo delle tante vittime fu eretta una cappella, la Crocetta, che era posta in posizione quasi frontale rispetto all’attuale via Allegretti. Senza il consenso della civica magistratura e tra il malcontento della popolazione, la Crocetta fu demolita nel 1616 per ordine del legato pontificio, il quale voleva probabilmente eliminare un monumento ormai vecchio e ingombrante e comunque scomodo alla Chiesa per ciò che ricordava.
La Rubrica Fatti e Misfatti di Forlì e della Romagna è a cura di Marco Viroli e Gabriele Zelli