In un mercatino dell’usato la mia attenzione è stata attratta da un libro di cui avevo perso memoria. Si tratta di un volume scritto da don Lorenzo Bedeschi nel 1952 dal titolo “Malefatte della rossa Emilia”. Nel libro sono pubblicati testi scritti dall’autore nei due anni precedenti dove, con toni ironici, scanzonati, ma nello stesso tempo di denuncia, si mettono in evidenza situazioni in cui è protagonista la dabbenaggine di chi praticava dalle nostre parti l’ideologia comunista in “salsa emiliano-romagnola”. Il libro porta la prefazione di monsignor Giacomo Lercaro (1891-1976), allora arcivescovo metropolita di Ravenna (resse la sede vescovile di Ravenna dal 1947 al 1952), successivamente lo diventerà di Bologna fino al 1968 e sarà ordinato cardinale.
Lercaro nella prefazione mette in evidenza come a scorrere le pagine di Bedeschi “agili e fresche” prima di tutto “viene da sorridere… Sono così spassose certe situazioni: così gustosi certi aneddoti!”. Poi continua sostenendo che gli emiliano-romagnoli che professano una fede comunista: “Non sanno più godere con gioia; non sanno più soffrire con pazienza; credono, ma con una fede cieca, irragionevolmente testarda fino ad essere beata, alle panzane più evidenti; sperano l’impossibile e, peggio, l’orribile, e attendono con una certezza che sconcerta… Ma non amano, non sanno più amare!”. Si rallegrava, quindi, che un esponente della chiesa, come Bedeschi fosse stato in grado di mettere in evidenza le contraddizioni del “popolo comunista”.
Va ricordato che perlomeno su alcune questioni, una in particolare, una quindicina di anni dopo si trovò in totale sintonia con quei comunisti. Infatti, il cardinale Giovanni Lercaro il primo gennaio 1968, prima giornata della pace che si svolse in tutte le città italiane, pronunciò nella sua Bologna un’omelia, predisposta dal suo collaboratore ed ex parlamentare Giuseppe Dossetti, nella quale condannò i bombardamenti degli aerei americani sul Vietnam in nome di Dio facendo scalpore e diventando un caso internazionale, tanto da spingere papa Paolo VI alla drammatica decisione di rimuovere Lercaro, che in quel periodo era una delle figure più significative ed emblematiche della Chiesa, dalla sua carica. Pur essendo stato un alto prelato che aveva promosso nei primi anni dell’episcopato bolognese una barriera contro le dilaganti correnti ideologiche del materialismo e dell’ateismo che in Emilia-Romagna egemonizzavano la vita pubblica fu oggetto di un provvedimento senza precedenti.
Quando Bedeschi mandò alle stampe il libro in questione aveva 37 anni, essendo nato a Prati di Bagnacavallo il 18 agosto 1915 da una famiglia contadina di tradizioni repubblicane (morirà a Bologna nel 2006). Intraprese giovanissimo gli studi religiosi, sviluppando sentimenti antifascisti che si manifestarono già nella sua prima predica pubblica, nell’estate del 1935 a Rossetta (località a 5 km da casa sua), che gli procurò una denuncia al federale di Ravenna. Completò gli studi a Roma all’Università Gregoriana dove si laureò l’11 giugno 1940, giorno di entrata in guerra dell’Italia. Inviato nei Balcani come cappellano militare, scontò l’arresto per alcuni commenti politici fatti ai soldati prima della Messa al campo.
Sempre come cappellano militare, partecipò alla campagna di Grecia e di Jugoslavia, fino all’8 settembre 1943, quando partì dal Montenegro per tornare in Romagna, dove si unì al movimento antifascista locale, partecipando alla Resistenza nel Corpo Italiano di Liberazione, alla fine della guerra sarà insignito di medaglia d’argento al valore militare. Dopo il Secondo conflitto mondiale continuò l’attività di parroco e intraprese la carriera dell’insegnamento diventando docente di storia contemporanea all’Università di Urbino. Per anni, d’estate, ad Urbino confluirono centinaia di insegnanti delle scuole secondarie superiori e giovani ricercatori per seguire i corsi di aggiornamento sulla storia e la cultura da lui promossi e diretti.
Fu tra le voci più autorevoli del giornalismo cattolico italiano, scrivendo per quotidiani come “L’Avvenire d’Italia” di Bologna e collaborando anche a “Il Resto del Carlino”. Fondò e diresse “Fonti e documenti”, rivista di prestigio internazionale che pubblicò l’edizione critica dei carteggi fra i principali esponenti del movimento modernista cristiano. A fatti e vicende di tale movimento furono dedicati decine di volumi suoi e dei suoi allievi e collaboratori. Nel 1968 fu tra i protagonisti dell’iniziativa che, in risposta all’appello del senatore indipendente di sinistra Ferruccio Parri (1890-1981), portò – per la prima volta – alla presentazione di personalità di rilievo della cultura italiana (tra le quali alcuni cattolici) a candidarsi nelle liste unitarie del Partito Comunista Italiano e del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria al Senato della Repubblica.
Considerata la sua provenienza, la sua partecipazione alla guerra partigiana e l’impegno che stava profondendo in campo sociale desta sorpresa leggere i capitoli del libro “Malefatte della rossa Emilia”. Prendiamo il testo dal titolo “I comunisti di Cusercoli fabbricano corone“, scritto nel giugno 1950, che inizia cosi: “Gravi danni hanno recato ai comunisti di Cusercoli le repubbliche popolari ungherese e cecoslovacca. Forse sono quelli i soli comunisti a rendersene conto in Italia, perchè solo essi hanno potuto constatare che la loro merce non serve più oltre cortina.
Le repubbliche popolari ungherese e cecoslovacca, infatti, non fanno più richiesta di Corone del Rosario e l’industria comunista di Cusercoli ne patisce. Le sono venuti meno due mercati internazionali. Produzione ridotta. L’unica produzione di Cusercoli consiste nella fabbricazione delle Corone del Rosario. Partono di qui, dalla stazione di Forlì, le casse sigillate destinate alle agenzie religiose d’Italia, d’Europa e d’America. Migliaia di Corone di Rosario al giorno, di vario tipo, di varia forma. A incatenare col filo e le pinze i dieci grani dell’Ave Maria o di legno o di madreperla o di cristallo, sono proprio questi tremila abitanti di Cusercoli nella maggioranza comunisti.
Perchè il paesetto di Cusercoli, prosegue don Bedeschi, disseminato lungo una strada di collina, è abitato da gente povera, in maggior parte braccianti. Accanto passa il fiume Rabbi; a un tiro di schioppo sta Predappio. Pochi vanno a pescare nel fiume Rabbi. Forse l’unico è l’attivista comunista di Cusercoli. Mentre aspetta il muoversi della canna fabbrica Rosari. E’ un tecnico dell’arte. Le sue mani sono rapidissime. Sa scegliere con gusto l’adattamento dei grani che dovranno essere le Ave Maria e quelli che richiameranno la recita del Pater Noster. Passano attraverso le sue mani migliaia di grani al giorno e le sue mani non sanno e il suo cuore rimane barricato.
È l’unico uomo di Cusercoli che si faccia vedere in pubblico a fabbricar Rosari. Gli altri se ne stanno in casa e li fanno di sera accanto alle loro donne. Perchè sono sopratutto le donne le principali artefici dei Rosari. Senza distinzione di età, bimbe e vecchie, ragazze e spose. Siedono sull’uscio con nel grembo una varietà chiassosa di grani, il filo attorcigliato e le pinze in mano. Ne hanno fatto un’arte. I movimenti sono rapidissimi, quasi meccanici. Le pinze vibrano e si muovono ritmicamente dentro la mano chiusa di queste donne. Vanno la mattina a far provvigione dall’impresario. Ricevono una quantità stabilita di materie prime e la sera riportano il corrispettivo in Corone di Rosario.
E sono quasi tutte comuniste. Con immensa tristezza si sente in loro la preoccupazione di smentire una collaborazione a quel coro di preghiere che scivolerà sui grani di quelle corone fabbricate dalle loro mani. «Anche se facciamo Rosari continuiamo ad essere comuniste e in chiesa non entriamo». E il giovane parroco di questo gregge disperso sa bene che il Rosario purtroppo lo fabbricano soltanto. Intercalandolo magari con giaculatorie che non debbono far piacere agli Angeli.
Vanno per il mondo queste corone del Rosario fabbricate da mani ostili alla religione, conclude don Bedeschi, ed io m’illudo che la salvezza che si accompagna a questo simbolo della preghiera alla Madonna ritorni su quelle mani collaboratrici inconsapevoli di una preghiera eterna. La insegnò quell’arte manuale alla gente di Cusercoli un vecchio parroco cinquant’anni fa. Forse era nel suo cuore sacerdotale quella intenzione di salvezza. Mi dicono ch’egli sull’altare solitario della sua chiesa deserta offrisse alla Madonna quell’omaggio in riparazione delle mancate lodi. “La mia gente non vuol pregare e tu, Maria, tramuta in lode le corone del tuo Rosario che qui si fabbricano». E’ il testamento del vecchio parroco di Cusercoli”.
La Rubrica Fatti e Misfatti di Forlì e della Romagna è a cura di Marco Viroli e Gabriele Zelli