L’acquedotto che all’epoca dei romani dissetava Ravenna era alimentato dalle acque captate sulle colline di Meldola e attraversava il territorio forlivese col compito di risolvere i grandi problemi idrici dell’antica e affollata città portuale da sempre afflitta dall’assenza di acqua sana. Sidonio Apollinare, alto funzionario di Roma, nel V secolo scrisse in merito una frase arguta ed eloquente sostenendo che a Ravenna “i vivi patiscono la sete e i sepolti nuotano nell’acqua”. Così pure il poeta romano Marco Aurelio Marziale, vissuto ai tempi dell’imperatore Nerone e del grande incendio di Roma, ebbe modo di annotare: “A Ravenna preferisco avere una cisterna piuttosto che una vigna dato che l’acqua potrei venderla ad un prezzo superiore”.
Costruito da Traiano (53-117), ripristinato da Teodorico (454 – 526) ed in seguito ristrutturato dall’esarca Smaragdo (VI secolo), il grande condotto fu realizzato su pilastri in mattoni e con archi a tutto sesto secondo il disegno classico. Nella zona a monte l’incanalamento avveniva tramite cunicoli di cui si hanno interessanti testimonianze. Il probabile tracciato dell’opera toccava Meldola, Farazzano, Ronco, Pieveacquedotto, Durazzano, per poi entrare in territorio ravennate presso Coccolia. Alla fine dell’Ottocento erano visibili alcuni dubbi ruderi nel letto in magra del fiume Ronco presso Bagnolo, e altri a Coccolia. Nella frazione ravennate di Longana l’affioramento delle basi dei piloni è documentato fotograficamente, così come si può vedere nel saggio di Antonio Veggiani “Considerazioni geologiche sulla captazione e sul tracciato dell’acquedotto romano di Ravenna” pubblicato sul volume “Studi Romagnoli XXXI”, La Fotocromo emiliana, Bologna 1980.
L’importanza del grande manufatto fu chiaramente sottolineata dallo stesso Teodorico che, tramite una lettera destinata ai proprietari dei terreni su cui correva il tracciato, ribadiva la necessità di tenere pulito l’acquedotto che conduceva acqua buona a Ravenna. Nella comunicazione ufficiale ordinava di sradicare ogni pianta che cresceva attorno, o sulle colonne dell’opera pubblica per evitare che l’acqua potesse sporcarsi e che le radici delle alberature infiltrandosi tra le pietre creassero crepe, o rotture, con il rischio di dispersioni del prezioso bene trasportato.
Nell’area forlivese le tracce più importanti dell’antico condotto, annota su Forlipedia Marino Mambelli, grande esperto di odonomastica, in particolare quella forlivese, sono i toponimi: “Pieve Acquedotto, naturalmente, ma anche quel Flumen Acquaeductus che troviamo citato in documenti e atti medievali. Il Flumen Acquaeductus è il fiume Ronco che, per volere dell’uomo – forse anche “aiutato” dall’impeto della natura – a valle della via Emilia assunse, confluendovi, il tracciato artificiale e rettilineo dell’antico acquedotto. “Il fatto che dalla fine del XII secolo non si menzioni più l’acquedotto se non come titolo di pieve o denominazione del Bidente/Ronco – scrive Luciana Prati sul volume “Flumen Acquaeductus” (catalogo dell’omonima mostra tenutasi a Forlì nel 1988 edito da Nuova Alfa. Editoriale, Bologna), parrebbe connettersi all’ipotesi di Antonio Veggiani, che l’incanalamento del Ronco sul tracciato dell’acquedotto ormai in rovina sia avvenuto nel periodo del dissesto geologico di questo e del secolo seguente (1150-1250/1200-1300)”.
Sempre a proposito di toponimi anche la frazione di Bagnolo che si trova dalla parte opposta di Pieve Acquedotto, trae la propria denominazione dalla presenza del corso d’acqua e dell’opera idraulica che serviva Ravenna. Ma da quale dei due? “Sulla Derscriptio Romandiole, realizzata dal cardinale Anglic nel 1371, il luogo viene denominato Villa Bagnoli Acqueductus”, scrive Marino Mambelli, ed ecco che abbiamo due soluzioni. Il fiume Ronco, il cui alveo fu incanalato nel percorso rettilineo dell’antico acquedotto, prese proprio, come sopraindicato, il nome di Flumen Acquaeductus e la presenza di un corso d’acqua determina la formazione di acquitrini. Ma se il termine Acquaeductus faceva riferimento alla maestosa opera su archi e pilastri allora stiamo parlando di acqua limpida. Non a caso molti centri termali portano il nome di Bagnoli, come il famoso quartiere di Napoli Bagnoli, che si chiama così proprio perché anticamente ospitava luoghi termali. Acqua, comunque, e abbondante. In entrambe le ipotesi siamo in presenza di un idronimo”.
La disgrazia dell’acquedotto di Traiano e di Teodorico, la cui presenza è oggi ricordata oltre che dai toponimi sopracitati anche da una via: la via Antico Acquedotto, proprio nella frazione di Pieve Acquedotto ndr) significò una piccola fortuna per i forlivesi che sicuramente utilizzarono, come prassi nelle opere pubbliche in rovina, i materiali di risulta per le proprie esigenze costruttive. Ma il problema della scarsità di acqua rimase in tutta la sua drammaticità tanto da spingere le amministrazioni locali a rispolverare l’idea di realizzare un grande invaso sulle colline romagnole dal quale far partire un acquedotto capace di dissetare la Romagna mutuando quanto pressapoco avevano realizzato i romani.
Anche di recente a Rimini, durante una serata del Rotary Club di quella città in cui veniva presentato il libro di Antonio Malfitano che ripercorre le vicende della costruzione della diga di Ridracoli, sono state ricordate le tappe della vicenda. Riprendiamo quanto è stato detto in quella occasione perché viene riportato come viveva una grande città turistica il problema della scarsa qualità o della mancanza di acqua, che durante qualche stagione balneare fu addirittura razionata con tutte le conseguenze del caso.
Nel sito del Rotary Club di Rimini si legge che il tutto parte nel 1962, anno in cui il progetto diga di Ridracoli viene presentato: “Siamo in pieno boom economico. C’è molto ottimismo e fiducia nel futuro. Sono gli anni dell’esodo dalle campagne, del boom turistico a Rimini, dello sviluppo dell’industria ortofrutticola a Cesena. La società cambia velocemente, sale a bordo della 500 e si modernizza. Le città crescono e nascono nuovi quartieri. Sono i sindaci che si pongono il problema di come soddisfare il fabbisogno idrico delle proprie città. A Forlì il primo cittadino è Icilio Missiroli. A Ravenna la situazione è particolarmente grave. Manca l’acqua e l’unica soluzione pare l’emungimento delle falde sotterranee, con tutti i rischi connessi alle malattie da inquinamento delle stesse. Queste problematiche per Ravenna Forlì e Cesena sono poste in evidenza già dalla fine dell’800. Al contrario Rimini ha la falda del fiume Marecchia che garantisce buona acqua e di buona qualità. A Rimini il problema nasce dunque successivamente, si legge sempre nello stesso sito, con l’espansione urbana e specialmente nella zona Sud. A fine 800 si pensa addirittura di ripristinare l’acquedotto di Traiano che trasportava l’acqua da Meldola a Ravenna. Si inizia ad investire, con scarso successo, sul Senatello. Il Ventennio porta l’acqua da Torre Pedrera di Rimini a Ravenna. Insufficiente portata e, con lo stile dell’epoca, grande propaganda in occasione dell’inaugurazione del 1931.
Il fascismo costruisce anche l’acquedotto di Cesena che però viene presto abbandonato a causa delle importanti infiltrazioni di liquami e contaminazioni dai terreni agricoli. La guerra completa l’opera devastando con pesanti bombardamenti l’intera linea e praticamente tutti i serbatoi, considerati obiettivi strategici. Ai sindaci dopo la guerra, non resta che trivellare il territorio per cercare nuove falde, che però si abbassano costantemente creando i presupposti per il fenomeno della subsidenza. Nasce l’idea della grande diga dell’Appennino e il luogo viene scelto in una piccola valle dell’alto Bidente sopra Santa Sofia. Il Consorzio di Bonifica di Predappio è incaricato di redigere il progetto. Ma la Romagna ed il forlivese non hanno una grande città per giustificare un colossale investimento come quello in progetto. E’ necessario dunque stringere alleanze con le altre città romagnole ed andare verso un progressivo superamento dei campanilismi. Serve la forza per bussare a Roma e chiedere i finanziamenti necessari. Sussistono enormi diffidenze. Cesena all’inizio è contraria perché non intende avvallare una sorta di egemonia di Forlì, visto che il progetto è forlivese. Cesena presenta addirittura un contro-progetto. Devono trascorrere alcuni anni per il superamento delle divergenze tra Forlì, Cesena e Ravenna. Si aggrega anche Rimini col sindaco Walter Ceccaroni, ispirato da una lungimirante prospettiva“.
Com’è noto lo Stato restò a guardare senza partecipare al dibattito, ma valutò i progetti e chiese continue integrazioni attraverso il servizio dighe del ministero. Il disastro del Vajont era un fatto recente e quindi ci fu la massima attenzione agli aspetti tecnici. Nel 1974 arrivavano 9 miliardi di lire dalla regione Emilia Romagna. Fondamentali per partire coi lavori, che vennero appaltati nel 1975 alla Cmc di Ravenna, a Cogefar S.p.A. ed a Lodigiani S.p.A.. Fin dall’iniziò si dovettero affrontare grosse difficoltà costruttive perché si trattava di edificare una diga enorme, alta 100 metri. Poi c’erano le difficoltà finanziarie dovute alle continue varianti richieste in seguito a nuovi studi che imponevano modifiche al progetto e a causa della grande inflazione determinata in quegli anni dalla crisi petrolifera il costo dell’opera saliva continuamente. Successivamente si iniziarono a registrare le prime proteste del mondo ambientalista. Da proteste isolate di singole personalità locali degli anni ‘70 si passò a proteste organizzate e a vere manifestazioni. Il Wwf sbandierò la sismicità della zona e paventò la pericolosità dell’opera. Nel 1979 a lavori già iniziati il progetto fu sull’orlo del naufragio col rischio di penali enormi nei confronti delle imprese. Giorgio Zanniboni, sindaco di Forlì, in quell’anno divenne anche presidente di Romagna Acque.
Assieme al Partito Comunista, che aveva nella Regione Emilia Romagna la propria vetrina in ambito di amministrazione del territorio, furono i principali fautori dello sblocco della situazione. Altri partiti, Democrazia Cristiana in primis, avevano tra l’altro già iniziato a pensare a soluzioni alternative. Altri fattori fondamentali per la ripresa delle opere furono l’archiviazione da parte della Magistratura dell’esposto del Wwf e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’aggravarsi del problema della subsidenza per il continuo emungimento delle falde. Lo stesso geologo che anni prima aveva previsto la possibilità di crollo del monte Toc nell’invaso del Vajont, si schierò a favore di Ridracoli sostenendo che si trattava di un’opera sicura e questo ebbe un impatto estremamente positivo nell’opinione pubblica.
Determinante anche il ritorno da protagonista di Rimini, che negli anni 70 si era un po’ defilata. La presenza di Rimini, negli anni ’80, tra i fautori dell’intervento fu fondamentale in quanto rese il progetto, i cui costi erano cresciuti vertiginosamente in corso d’opera, nuovamente economicamente vantaggioso. Con l’ingresso di Rimini, lo Stato firmò il decreto Nicolazzi e le opere ripartirono. Quasi contemporaneamente, nel 1977, anche il progetto alternativo a Ridracoli, ovvero il Canale Emiliano Romagnolo venne finanziato dal Ministero dell’Agricoltura nell’ambito degli interventi per sostenere l’agricoltura.
La diga di Ridracoli venne inaugurata dal senatore Giovanni Spadolini, allora presidente del Senato. E’ costata circa 570 miliardi di Lire. L’investimento più grande per una infrastruttura in Romagna. Oggi grazie anche al Canale Emiliano Romagnolo (CER), che da acqua per le coltivazioni agricole, e ad altri investimenti portati a termine da Romagna Acque, come il potabilizzatore della Standiana, alle porte di Ravenna, alimentato con acqua del fiume Po proveniente da una derivazione del CER, tutti i romagnoli e le migliaia e migliaia di turisti che d’estate affollano la Riviera possono godere di buona acqua, anche nei periodi più siccitosi.
La Rubrica Fatti e Misfatti di Forlì e della Romagna è a cura di Marco Viroli e Gabriele Zelli