La manifestazione “Pesche in festa“, attualmente in corso a San Martino in Villafranca, consente di ricordare attività agricole da tempo desueta come la spannocchiatura del granturco. La coltivazione del granoturco in Romagna oggi è praticata, al pari di altre coltivazioni, con le più moderne tecnologie e con grandi macchine governate dall’elettronica che hanno sollevato l’uomo da tante fatiche e tante ore di lavoro, quasi sempre manuale. Fino agli anni ’60 del secolo scorso la coltura del mais era prevalentemente rivolta al consumo domestico: per preparare la polenta, ma in prevalenza per alimentare gli animali da cortile, come polli, anatre e faraone presenti in quantità che fruttavano modesti introiti nelle povere economie rurali di un tempo, e poi per i maiali e il bestiame della stalla, in forme diverse. Anche se in quantità ridotte il granoturco richiedeva diverse fasi di lavorazione e la dedica di molte ore di manodopera. Quando raggiungeva la maturazione veniva raccolto, poi le pannocchie dovevano essere liberate dalle foglie che molto spesso erano utilizzate per riempiere i materassi dei letti dei contadini.
La spannocchiatura del granoturco era uno straordinario momento di socializzazione, sostiene Radames Garoia nel libro “Le fatiche del contadino”, era l’occasione per corteggiare le ragazze, per fare scherzi, battute ardite e prese in giro, scambi di informazioni (non c’era mica Facebook!). Non mancavano i pettegolezzi femminili. Oggi diremmo gossip, allora si diceva: “Agl’ha una lèngua ch’la tàja e la cus” (“Hanno una lingua che taglia e cuce”). Era una delle poche occasioni “mondane” del mondo campagnolo di un tempo. C’era chi partecipava per incontrare “quella morettina conosciuta in chiesa, alla Messa” e chi, approfittando della poca luce e della confusione (la spannocchiatura in genere veniva programmata in orari serali, dopo il calare del solleone), riusciva a scambiare un bacio furtivo con la sua innamorata, bacio corredato da “carezze” piene di malizia. E intanto, facendo finta di non vedere, l’arzdóra e le donne di casa passavano con generose “amzéti da bé” (caraffe di vino). Al termine, molto spesso era offerto uno spuntino con l’immancabile piadina, “salam e furmaj”, o “brazadéll e zambëla cun la cagnina” (bracciatelli e ciambella, fatta in casa e cotta nel forno che di solito era posto all’esterno, con il vino dolce cagnina).
Il tempo necessario per lo spuntino era sufficiente per sgomberare e spazzare l’aia per dare il via alle danze che quasi sempre allietavano la parte finale della serata, al suono, come ho già ricordato in un’altra occasione, di un organetto e un violino o di una chitarra e una fisarmonica. Erano quasi sempre suonatori che non conoscevano la musica, suonavano ad orecchio ed erano invitati per l’occasione. Il divertimento era comunque assicurato, anche se non si facevano le ore piccole perché la mole di lavoro che il giorno dopo, dall’alba al tramonto, aspettava tutti consigliava di andare a letto per riposare.
Gabriele Zelli