Epidemie e rischi a Forlì. Uno sguardo retrospettivo

118 coronavirus

Quanto siamo in pericolo? È la domanda che si legge sul volto preoccupato dei forlivesi, anche se non ne parlano. Naturalmente, non so dare una risposta precisa, ma posso dire che, negli ultimi 170 anni, vi sono state epidemie assai più micidiali dell’attuale, alle quali – nonostante i modesti presidi sanitari dell’epoca – la città ha comunque saputo reagire, riprendendosi abbastanza velocemente.

Il più terribile è stato il grande colera del 1855, che imperversò nel Comune fra l’aprile e l’ottobre. Allora eravamo 36.500; si ammalarono in 2.149 e ben 1.058 morirono: più che nella Grande Guerra. Vi sono lapidi, nel cimitero monumentale, che raccontano ancora la distruzione d’intere famiglie e lo strazio dei sopravvissuti.

Trent’anni più tardi, il colera faceva già meno paura: riapparve nell’estate del 1886 – il Comune allora aveva 40.000 abitanti – ed i casi (in tutto una quarantina) si concentrarono soprattutto a Schiavonia, il quartiere più degradato. I morti furono 28 in tutto. Andò peggio a Ravenna, dove i decessi furono oltre 500, e a Rimini (165 morti). Il colera era davvero impressionante: il tasso di letalità viaggiava fra il 40 e il 70%. Ciò significa che chi si ammalava aveva altissime probabilità di morire.

E la “spagnola”? Interessò Forlì in forma attenuata, fra la fine del 1918 e i primi mesi del 1919. Allora gli abitanti erano saliti a 50.000 circa. Non abbiamo dati sulla morbilità, perché, come oggi, il virus si diffondeva mimetizzandosi con altre patologie e non era facilmente distinguibile. Del resto non era stato neppure isolato, non essendo stato ancora inventato il microscopio elettronico. Tantissime persone avrebbero ricordato a distanza di tempo la “brutta influenza” del 1918-19, che li aveva costretti a lungo a letto da bambini: fra questi anche mio padre. I casi letali, alla fine, furono in tutto 378. Nel solo mese di dicembre del 1918, su 140 morti registrati nel territorio comunale, i decessi causati dall’influenza furono 47, ovvero, il 33,5%. Fu, quello l’apice del contagio.

Conclusioni? Ovviamente è difficile trarne. Rispetto alla situazione odierna direi che i forlivesi, nella loro storia recente, hanno visto di peggio. E poi, come tutti gli esseri umani, sono ripartiti, spesso dimenticandosi rapidamente dei terribili eventi a distanza di pochissime generazioni: al punto che solo da trenta o quarant’anni circa gli storici sociali della medicina hanno recuperato queste notizie, riportando alla luce “crisi urbane” (per lo più concentrate in alcuni mesi) che erano state cancellate dalla memoria collettiva. Forse faremo così anche noi.

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