I numeri della pandemia

coronavirus

Finalmente, da qualche giorno, appaiono sui giornali numeri non suscettibili di manipolazione: i decessi per fasce d’età, ad esempio, e la comparazione della mortalità generale per Comune fra periodi identici di anni diversi: febbraio-marzo 2019 e 2020. Sappiamo, infatti, che ci può essere un margine di discrezionalità nel diagnosticare la causa di un decesso, ma che l’alternativa vivo/morto non è opinabile.

Che cosa se ne desume? Che dei 18.641 morti al 13 aprile, il 95% aveva più di 60 anni e l’83,5% più di 70. Nel caso dei giovani sotto i 30 anni, il numero dei decessi era di 8; sotto i 40, di 47. Quanto all’incremento della mortalità in termini assoluti fra 2019 e 2020, a Codogno essa è risultata poco meno del 400%, a Nembro e ad Alzano fra il 900% e il 1.000% circa. In questi ultimi due Comuni non vi è stata, com’è noto, la chiusura ermetica dopo l’inizio dell’epidemia.

Le politiche di isolamento sociale sono quindi servite e servono ancora, sicuramente per alcune categorie di persone e per alcune classi di età. Bisogna anche aggiungere che la geografia della mortalità è molto varia, anche nelle regioni più colpite, e che i percorsi del virus, così come i comportamenti di talune persone, sfuggono ad una lettura razionale.

Che cosa serva ora per scendere dal famoso plateau sul quale ci troviamo da giorni, ovviamente non lo so. Però, visti i brillanti risultati della Corea del Sud (un paese di oltre 50 mln di abitanti, con un Pil pro capite inferiore al nostro e una spesa sanitaria anch’essa inferiore), in termini di contenimento del contagio e di morti, mi verrebbe da dire: perché non chiedere anche a loro?

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