Ho buttato l’occhio casualmente, durante una rapida uscita di casa per fare la spesa, sui manifesti affissi al muro di via Episcopio Vecchio. Raccontano un mondo terminato nei primi giorni di marzo: incontri, concerti, mercatini, spettacoli. Stanno lì a ricordarci che il ritmo della nostra vita sociale si è allentato, che siamo entrati in uno “stato vegetativo”, di sopravvivenza. Mi è tornato in mente un sentimento analogo, che provai nell’estate del 2011. Ero all’Aquila per un’iniziativa di solidarietà.
Anche allora, accompagnato dentro la zona rossa, mi capitò di guardare i manifesti, ancora intonsi, dell’ultimo giorno del “vecchio mondo”, quella sera di aprile del 2009 in cui tutto sembrava ancora normale: cinema, teatri, appuntamenti. Non sono cose paragonabili, beninteso. Ma la sensazione di uno spaesamento, come quella di essere entrati in un mondo parallelo, distopico, uguale al nostro abituale salvo che per alcuni dettagli apparentemente trascurabili (o per eventi incommensurabili), rimane la stessa. Ti fa crescere dentro la nostalgia di cose stupide, effimere, banali. Perché è ben vero che ritrovare l’essenziale è un esercizio commendevole, di questi tempi: ma non è sufficiente ad anestetizzare il male di vivere.