La ricorrenza della Festa della Repubblica 2020 ha assunto una decisa valenza nazionale durante il settennato di Carlo Azeglio Ciampi. Dal 1999 al 2006, sotto il determinate impulso del presidente della Repubblica, in occasione del 2 giugno tutte le principali città hanno iniziato ad organizzare manifestazioni per ricordare il significato di questo appuntamento. Da allora questa tradizione si è consolidata. Anche quest’anno, seppure con le limitazioni dettate dall’emergenza coronavirus ancora in atto, si celebrerà la ricorrenza. Soprattutto lo si deve fare dal punto di vista culturale e storico. È per questo che da una decina di giorni a questa parte ho cercato di raccontare episodi storici avvenuti in città e nel nostro territorio, durante il Secondo conflitto mondiale, tracciando una sorta di itinerario dei luoghi più significativi per ricordare una stagione terribile. Questo per sottolineare che la nostra Repubblica nasce dalle distruzioni, dalle morti e dalla volontà di riscatto di quel periodo e a costruirla furono coloro che, nella maggioranza dei casi privati di tutto, si rimboccarono le maniche per ricostruire. Così siamo chiamati a fare oggi.
Per ricordare le difficoltà di allora vale la pena dare la parola ad Antonio Mambelli (1890 – 1976), bibliotecario, saggista, autore del “Diario degli avvenimenti in Forlì e in Romagna dal 1939 al 1945”; un libro fondamentale per conoscere gli avvenimenti che caratterizzano quegli anni segnati dall’entrata in guerra, dalla conduzione disastrosa del conflitto, dalla caduta del regime fascista, dall’armistizio dell’8 settembre 1943, dal passaggio del fronte e dalla liberazione. Alla data del 30 giugno 1944 Mambelli scrive: “Da cinque giorni non arrivano i giornali e siamo privi di notizie anche se manipolate per nostro uso; si sa però che i tedeschi requisiscono, asportano, consumano violenza d’ogni genere, specie in campagna. L’apprensione è generale per il trascorso e per l’atteso: non si sa dove nascondere i cibi, il vino, la biancheria, le cose care e indispensabili. Alcuni fanno ritorno in città con le masserizie, ritenendole più sicure; altri praticano buchi nei campi, sotto le capanne, ovunque per riporle, con la speranza di sottrarle alle truppe di prima linea che si proporrebbero la spogliazione totale del paese, sospinte dal bisogno e dagli istinti rapaci. Passano, infatti, convogli di bestie bovine aggiogate ai plaustri dipinti che si usano in Romagna e veicoli carichi d’ogni genere, su cui viaggiano soldati in pessimo arnese“.
Mambelli prosegue descrivendo le difficoltà che incontravano i cittadini forlivesi per poter acquisire il necessario per vivere: “Scene da Rivoluzione francese si svolgono presso gli uffici annonari: la gente si accalca agli sportelli, spinge, urla, impreca, offende, preme per afferrare i buoni e altrettanto per farsi largo per uscire. Gli addetti, poveri diavoli, restano sovente ai loro posti di fronte alle facce sconvolte dei miseri cittadini, e mentre questi perdono il controllo di sé, li servono quelli con pazienza mirabile nonostante gli allarmi continui e benché gli uffici si trovino nella piazzetta della Misura, in pieno centro“. Scene apocalittiche, quindi, per tentare di prendere un buono che dava la possibilità di ottenere qualche genere di prima necessità in una situazione di carenza di qualsiasi prodotto alimentare.
È anche per questo che dopo la Liberazione dall’oppressione nazifascista Forlì si identificò in alcune figure che, pur da ambiti e ruoli diversi, avevano dedicato la propria vita al bene comune. Ne cito solo due: Agosto Franco, primo sindaco della città dopo il 9 novembre 1944 quando i soldati tedeschi in ritirata si attestarono oltre il ponte di Schiavonia, e don Giuseppe Prati (don Pippo), abate di San Mercuriale. Di entrambi si possono trovare le schede nel libro “Personaggi di Forlì. Uomini e donne tra Otto e Novecento” di Marco Viroli e Gabriele Zelli, Società Editrice Il Ponte Vecchio, 2015.
Di don Pippo occorre ricordare che divenne parroco dell’abbazia il 19 marzo 1944, negli ultimi durissimi mesi della guerra e, come sempre, era stato presente tra la sua gente aiutando, incoraggiando e dando speranza. Ad esempio, dopo il bombardamento del 25 agosto 1944, che colpì piazza Saffi e le zone limitrofe, fu tra i primi a soccorrere i feriti e passò lunghe ore, anche nei giorni seguenti, raccogliendo sui muri e sul selciato i brandelli di carne umana dei morti e li portò in una cassettina al cimitero monumentale.
Mons. Giuseppe Mangelli, che è stato collaboratore di don Pippo a San Mercuriale, ha raccontato: “La liberazione giunse improvvisa. Sentimmo di primo mattino come un prolungato crepitio di mortaretti e poi, sempre più forte e vicino, il rumore confuso di voci che chiamavano don Pippo. Alcuni di noi uscirono subito fuori con lui. E allora avvenne una di quelle scene, non nuove certo (don Pippo ci aveva abituati a tutto), ma sempre commoventi e indimenticabili. Fu portato quasi in trionfo, abbracciato e baciato da numerosi cittadini, a capo dei quali era sindaco Franco Agosto, appartenenti ai più diversi partiti politici”.
Nella piazza della città, come hanno annotato gli storici, i partigiani e il popolo avevano acclamato don Pippo, all’inizio dell’opera di ricostruzione, come un padre e un salvatore, anche perché si deve a lui, con il concorso di altri, il salvataggio del campanile di San Mercuriale. Nella prima riunione pubblica del Comitato di Liberazione, composto da esponenti di ogni partito si gridò ‘Viva don Pippo’ e il primo cittadino di Forlì, appartenente al Partito Comunista Italiano, abbracciò “l’umile sacerdote che in quel momento impersonava i dolori e le gioie di tutti i cittadini ed era la persona più amata e ben voluta da tutti”. E i due andarono d’accordo anche nei mesi e negli anni successivi quando le difficoltà da affrontare furono sicuramente numerosissime perché si ripartiva praticamente da zero.
In base a questa concorde collaborazione che si instaurò, che sarebbe necessaria anche oggi dovendo affrontare un periodo parimenti drammatico, si capisce perché i cittadini forlivesi in occasione del referendum istituzionale del 2 e 3 giugno 1946, indetto per determinare la forma di stato da dare all’Italia, in 39.234 scelsero la Repubblica e solo 5.203 la Monarchia.
La parola Repubblica deriva dal latino “res publica”, la cosa pubblica, il bene collettivo. Nei vocabolari si legge che è “una forma di governo in cui la più alta carica dello Stato è elettiva e il potere è esercitato dal popolo, o direttamente o per mezzo di delegati. Una condizione di democrazia a cui si è arrivati attraverso una profonda evoluzione. Una storia lunga, di idee e sofferenze, di sacrifici ed esaltazione. Di guerra e di pace. Di volontà, coscienza e consapevolezza”. Una storia che ha trovato la maturità popolare il 2 giugno 1946. Una maturità popolare che portò nel 1948 all’approvazione della Costituzione.
Nonostante tutto vale proprio la pena proseguire nel cammino della costruzione della “res publica” e per l’applicazione della Costituzione italiana, diventandone protagonisti attivi.
Buona Festa della Repubblica a tutti.
Gabriele Zelli