Sempre in collaborazione con Radames Garoia e Nivalda Raffoni continua la rievocazione dei lavori che un tempo venivano svolti in campagna senza l’ausilio, al contrario di quello che succede oggi, di mezzi meccanici. Questa volta si cercherà di analizzare come avveniva la mietitura del grano (frumento) a partire dal momento, a fine maggio quando questo cereale aveva iniziato a cambiare colore ed in poche settimane le spighe erano diventate gonfie, dorate e si piegavano sotto il peso dei chicchi.
“Non c’era una data ben precisa – esordiscono i due studiosi – per iniziare a mietere il grano: si dice il 21 giugno, solstizio d’estate, oppure il 24 giugno, ”par San Zvan” (San Giovanni), specie nel Cesenate e Riminese oppure, periodo ultimo, “par Pan Pir” (San Pietro e Paolo, 29 giugno). Era comunque sempre il contadino, a volte consigliato dal fattore, a decidere l’avvio dei lavori, dall’alto della sua esperienza, valutato il grado di maturazione delle spighe, che poteva subire variazioni di periodo da un anno all’altro a causa di particolari condizioni atmosferiche: primavera più o meno fredda o piovosa oppure siccità ed estate precoce. Oggi, invece, si può sgranare un pugno di semi, provare il grado di umidità con apposita strumentazione e deciderne il raccolto“.
“Nella famiglia contadina – continuano Radames Garoia e Nivalda Raffoni – in questo periodo, regnava una tensione particolare (oggi lo chiamiamo “stress”), dovuta alla preoccupazione, non solo di affrontare il lavoro più importante dell’annata agraria, ma per l’eventualità di una grandinata che avrebbe distrutto parte della produzione dei campi, frutto di mesi di fatica e sacrificio. Si diceva che “la timpesta la fa i purett” (la grandine genera dei poveri) e nell’approssimarsi di un temporale si formavano delle croci nelle testate dei campi da mietere, con zappe, vanghe, o altri attrezzi con manico, stesi in terra ed incrociati tra loro. Oppure si spargevano nei campi le ceneri di un rametto di olivo benedetto la domenica delle Palme, bruciato per l’occasione. Quando le nuvole nere si incrociavano in cielo e presagivano lo scoppio di un violento temporale estivo e relativa grandinata, si faceva ricorso a ogni tipo di scongiuri e invocazioni a tutti i Santi del Creato, a protezione “dl’arcold” (del raccolto). Allo scopo di “rompere le nuvole” ed evitare la grandinata, le campane di tutte le chiese del circondario suonavano a distesa“.
Prima della Prima Guerra mondiale e fino agli anni ‘40 del secolo scorso la mietitura avveniva manualmente. “Nel giorno prestabilito ci si alzava prima dell’alba – ricordano Radames Garoia e Nivalda Raffoni – e già “al fêlzi da medar” (le falci messorie) erano state affilate la sera prima. Tutta la famiglia contribuiva all’opera del taglio del grano, che di solito durava una settimana. Lavoravano dieci – dodici ore al giorno, con una breve pausa per la colazione ed il pranzo, cercando di sfruttare al massimo il lavoro familiare e quello della parentela disponibile; a volte si aggiungeva qualche bracciante locale, in cambio del consenso alla “spigolatura” (la raccolta delle spighe di grano rimaste nei campi dopo la costruzione del barco). Spesso era necessario ricorrere alla manodopera bracciantile che si poteva “acquistare” nelle piazze cittadine: a Forlì nella zona della “Porta ‘d S-ciavanì” (Porta Schiavonia) e a Forlimpopoli nei pressi della Rocca.
Salvo accordi diversi, “agl’óvar” (letteralmente: le opere, per significare gli operai, i braccianti), oltre la paga pattuita, avevano diritto al vitto della giornata, per cui al ritorno, il capofamiglia si fermava “da e pchér” (dal macellaio) per acquistare carne da integrare ciò che era disponibile nella dispensa. Durante la mietitura, specie se si ricorreva a braccianti esterni, non si poteva fare troppa economia, ne poteva risentire il buon nome della famiglia. Magari si sarebbe “tirata la cighia” in altri periodi dell’anno“.
Nei campi il lavoro procedeva utilizzando la falce la cui lama ricurva della falce veniva utilizzata per tagliare un manipolo di steli: il mietitore, chinato in avanti, li afferrava con la mano sinistra per poi reciderli con la destra che impugnava la falce alla base; poi ogni manciata veniva distribuita ordinatamente sul terreno a formare un piccolo fascio o mannello (manòz).
“L’insieme di parecchi mannelli era chiamato covone – precisano Radames Garoia e Nivalda Raffoni – e si provvedeva alla sua legatura utilizzando una manciata di steli le cui spighe venivano incrociate; si formava così un legaccio più lungo (e’ bêlz), in grado di circondare tutto il covone, serrarlo e fissarlo all’estremità con un resistente nodo. Mietere con la falce messoria all’inizio sembrava un gioco, poi diventava un tortura; la schiena si faceva a pezzi a furia di mantenerla piegata; le braccia e le gambe, se non adeguatamente protette si ferivano con lo strame (la parte dello stelo del grano rimasto attaccato al terreno), tutto questo mentre il sole continuava a bruciare nei campi. Poi i covoni venivano ammassati in piccole biche con pianta a forma di croce (barchétt), con la spiga rivolta verso l’interno, perché quest’ultima non si bagnasse in caso di pioggia“.
Solo verso la fine degli anni ’30 si incominciò ad usare “la machina da sghé” (la falciatrice meccanica, la stessa che veniva utilizzata per falciare i foraggi), opportunamente modificata per lo scopo. “Per tutta la barra falciante venne incernierata una rastrelliera in legno – concludono Radames Garoia e Nivalda Raffoni – che rimaneva inclinata di circa 45° rispetto al terreno, trattenendo così gli steli del grano tagliato, senza che questi si depositassero continuamente nel terreno. Quando l’operatore, che era seduto sulla falciatrice, riteneva che la quantità trattenuta dalla rastrelliera fosse sufficiente per confezionare un covone, con un comando manuale (a pedale), faceva ribaltare indietro la rastrelliera ed il covone ancora da legare, si depositava a terra. Dietro alla macchina vi erano quattro o cinque addetti per preparare i legacci, legare i covoni e spostarli velocemente per evitare che fossero calpestati nella passata successiva.
Una ulteriore evoluzione lavorativa della mietitura fu l’avvento della “mediliga” (macchina che miete e lega i covoni). Quanta manodopera fece risparmiare questa macchina! Tagliava i gambi del grano, legava i covoni scaraventandoli ad una distanza tale da non essere calpestati nella tornata successiva. Sopra la lama di taglio vi era un meccanismo rotante che coricava verso la lama le piante da recidere; queste, una volta tagliate, erano portate da un nastro trasportatore al meccanismo di legatura e poi espulse dopo la loro legatura. Due persone erano sufficienti: una alla mietilegatrice e l’altra al trattore“.
Questa macchina fu salutata con grande soddisfazione dai nostri contadini, poiché veniva totalmente eliminato il lavoro manuale della mietitura. Negli anni ‘60 anche questi mezzi sono andate in pensione e sono apparse le prime mietitrebbiatrici.
Gabriele Zelli