Il toponimo Rovere e la chiesa di San Pietro in Arco

Località Rovere

Le ragioni della denominazione “Rovere” alla frazione che confina con il territorio di Terra del Sole, che tutti i forlivesi chiamano con l’appellativo di “villa” davanti, ce le fornisce Marino Mambelli su Forlipedia. Scrive Mambelli: “Rovere è un fitotoponimo, cioè un toponimo che trae origine da un fitonimo: il nome di una pianta. Rovere, varietà di quercia alta sino a 50 metri. La “nostra”doveva essere una pianta importante, imponente, maestosa. Un vero punto di riferimento. Rappresentava un confine, un limite. O semplicemente era grande ed evidente. Uno degli ultimi esemplari sopravvissuti ai disboscamenti?
Dove abiti? Vicino alla Rovere. Alla Rovere sono radunati i soldati. Ci incontriamo alla Rovere. Il confine è alla Rovere. E Rovere fu. Per i nostri nonni ‘La Rovra’. Detta quercia, racconta il Casadei nella Guida di Forlì del 1928, è ricordata nelle famose guerre ghibelline forlivesi (XIII secolo).
Una riflessione è d’obbligo: quella che diede il nome alla località, era la stessa quercia su cui fu ritrovata la figura sacra della Madonna della Rovere? L’immagine è della prima metà del ‘600: stiamo verosimilmente parlando di piante diverse“.

La Chiesa di San Pietro in Arco o di Santa Maria della Rovere

Lo storico Pietro Reggiani sul numero XVII, settembre-ottobre 1948, della rivista “La Piè” pubblica un articolo dove cerca di ricostruire l’aspetto e la storia dell’originaria chiesa di San Pietro in Arco di Villa Rovere in base ai pochi e incerti elementi in suo possesso. In base alle articolate supposizioni formula l’ipotesi che nel complesso il luogo sacro, che sorgeva al posto di quello attuale, doveva presentare un interno “dall’aspetto severo, semplice, ben proporzionato, scarsamente illuminato e decorato di affreschi“. “Su questi ultimi – scrive Reggiani – mi preme richiamare l’attenzione del lettore. Nel muro sinistro della chiesa attuale, internamente, prima dell’abside (ora corridoio) è ancora visibile una vecchia parete, ricoperta di intonaco sul quale nei secoli passati sono stati dati vari strati di calce e bianco. Nonostante questo, affiorano evidenti tracce d’affresco. La presenza di tale genere di decorazione non può destare meraviglia, perché sappiamo che era comune nel medioevo: affreschi infatti esistono tuttora (tanto per limitarmi alla vallata del Montone) nella chiesa di San Marco in Varano, verso Forlì, e in Castrocaro verso Firenze, lungo cioè la strada che conduce in Toscana“(…).

Certo, che questo edificio sacro non doveva però essere una comune cappella od oratorio, lo dice la sua grandezza, la centralità della ubicazione. Non a torto quindi è stato scritto che in antico forse apparteneva ad un ordine religioso monastico; ed infatti in proseguimento della facciata, a destra, esistono ancora alcuni grossi ed antichissimi muri, simili nella struttura a quelli perimetrali della chiesa, che fanno pensare vi potesse essere annesso un convento: ma di quale ordine? Vallombrosano? Benedettino? I vallombrosani furono introdotti a San Mercuriale certo dopo il 1115 perché in una bolla di Pasquale II in data 5 febbraio di quello stesso anno a favore di questo Ordine, non sono menzionati né San Mercuriale né Fiumana“.

I pochi avanzi rimasti – continua Pietro Reggiani – richiamano alla mente l’architettura dei secoli XI e XII. È logico quindi pensare che ai benedettini si debba piuttosto attribuire la fondazione di questo cenobio, forse col materiale di qualche rudere romano esistente lì presso; i figli di San Benedetto vivevano in conventi isolati in mezzo alla campagna, tra i boschi ed il loro motto era “ora et labora” e la località si prestava a tale scopo“.

Nel medesimo articolo, che mi è stato segnalato da Mario Soprani, un vero cultore della storia locale, Pietro Reggiani fornisce anche le sue ipotesi sul perché della denominazione San Pietro in Arco di cui non si hanno notizie, come premette lui stesso. Per un’antica tradizione si presuppone che il nome della chiesa provenga da un arco che sarebbe stato in un passato remoto sul confine tosco-romagnolo, sul ponte del fiume cioè fra Rovere e Terra del Sole. “A parte il fatto”, scrive Reggiani, “che è da provare che in detta località vi fosse a quei tempi un ponte, questo sarebbe stato lontano dalla chiesa a cui certo non poteva dare il nome. Forse ad un arco romano? Ma di questo non si ha ricordo alcuno; in tal caso del resto il toponimo dovrebbe essere “San Pietro dell’Arco” come è chiamato fin dai tempi più remoti. Esaminando l’attuale topografia della zona si osserva che l’antico letto del Montone, non si trovava in linea retta, come ora, ma descriveva come un ampio arco, tanto da avvicinarsi al luogo ove ora è la villa Giulianini; a questo Arco del fiume credo si possa attribuire il nome dato alla chiesa dedicata a San Pietro; così come vi è San Pietro in Silvis presso Bagnacavallo perché costruito in mezzo a una selva; San Cassiano in Decimo, perché eretto al decimo miglio, e così via”.

Ettore Casadei nella guida “La città di Forlì e i suoi dintorni”, edita nel 1928, scrive a proposito dell’attuale chiesa di San Pietro in Arco o di Santa Maria della Rovere, dopo aver asserito che quella originale fu ceduta al Vescovo di Forlì”.
“Al posto dell’antica pieve, ceduta al Vescovo di Forlì nel 1237, di cui rimangono dei lacerti di affreschi nelle pareti e resti murari all’esterno della canonica, sorse ai primi del ‘600 la chiesa di Santa Maria della Rovere su disegno dell’architetto Francesco Brunelli”.

Chiara Mazza sul volume “Fuori le mura. Vita sociale, tradizioni, memorie delle frazioni rurali di Forlì, dall’Unità d’Italia alla Repubblica”, edito nel 2003 da S.P.I – C.G.I.L., scrive che il luogo di culto “prese il nome di una quercia in cui era stata appesa una immagine della Madonna”. Al posto della pianta fu eretta una celletta che è stata ricostruita nel 2009.
A questo proposito in un articolo del 9 ottobre 2009 pubblicato sul quotidiano “Il Resto del Carlino”, sotto il titolo “Madonna del fuoco, la celletta torna a vivere”, si legge: < In origine si sarebbero dovute sborsare alcune migliaia di euro in più, ma, a conti fatti, si sono contenuti i costi. Merito dell’architetto e dell’ingegnere che hanno prestato, gratuitamente, la loro professionalità. E anche in questo comportamento si può scorgere il forte attaccamento della comunità alla celletta di via Firenze, la cui storia è costernata da un rosario di miracoli, almeno stando ai racconti tramandati nei secoli.

Nuova la celletta e ’fresca’ anche l’immagine della Madonna del fuoco, custodita nel tempietto. La copia dell’effigie che un fedele affisse a una quercia nel 1629 dopo un miracolo – la storia della celletta di Villa Rovere costruita nello stesso anno trae origine da questo episodio – era troppo rovinata. Si è, così, dato vita ad un concorso per la creazione di una nuova immagine della Vergine, più legata all’attualità, ma sempre con il soggetto originario in primo piano: la Madonna con il bambino in braccio, tra il sole e la luna. Dei dieci artisti che hanno partecipato all’iniziativa l’ha spuntata il pittore Alberto Sughi che, accanto alla Madonna del fuoco e al piccolo Gesù, ha dipinto San Pio di Pietralcina e la beata Teresa di Calcutta”. La chiesa seicentesca, a croce latina, aveva una bella cupola distrutta dal terremoto del 1870.

Nell’ottobre del 1919, durante il periodo in cui era parroco don Domenico Calderoni, il luogo di culto venne restaurato integralmente. Nell’occasione la famiglia Albicini donò l’altare, i marmi e le statue che erano nella cappella gentilizia della soppressa chiesa di San Giacomo di Forlì, mentre il Capitolo del Duomo offrì un grandioso tabernacolo di marmo. La tela che orna l’altare maggiore raffigurante i Santi Pietro e Paolo, titolari della chiesa, è stata dipinta da Gianfranco Modigliani (Forlì, attivo dal 1590 – fino al 1609), noto anche come Francesco da Forlì, figlio di Livio (1540 – 1610 circa), un altro pittore di scuola forlivese. Sulla vita di Gianfrancesco non si hanno molti dati certi. Tuttavia, il suo lavoro è sicuramente documentato negli ultimi anni del XVI secolo e nei primi del XVII.

La Pinacoteca civica di Forlì conserva: “Natività della Vergine al Tempio”, “Presentazione della Vergine al Tempio”, “Morte della Vergine”, “Madonna con Bambino e i Santi Mercuriale e Valeriano”, “Sposalizio di Santa Caterina e suora novizia” e quattro opere dedicate alle Storie eucaristiche: “L’incontro di Adamo con Melchiorre”, “Cristo che comunica agli Apostoli”, “L’Agnello pasquale” e “La profanazione dell’ostia”.

Opere di Gianfrancesco Modigliani sono presenti nelle chiese di San Domenico di Cesena, dei Cappuccini, ossia Chiesa dei Santi Nicola di Mira e Francesco d’Assisi, di Cesenatico, nella Chiesa di Sant’Agata di Montiano, nel Museo d’Arte della Città di Ravenna e a Palazzo Tozzoni di Imola, con tele raffiguranti rispettivamente: “La Madonna del Carmine, i Santi Girolamo, Francesco d’Assisi, Giovanni Battista e santa Martire”, “La Vergine, San Francesco e San Michele Arcangelo che trafigge il demonio”, “Madonna con Bambino fra Sant’Agata e Santa Lucia”, “Caccia alla lepre” e “L’incredulità di San Tommaso”.
Nel prossimo articolo ricorderò Pietro Reggiani, illustre forlivese, a cui si devono testi importanti sulla storia e l’arte di Forlì e del suo territorio. Evidenzierò inoltre altri aspetti della frazione Rovere.

Gabriele Zelli

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