Si deve allo storico Gilberto Giorgetti (1941-2012) un ampio resoconto sull’attività antifascista e antitedesca che si sviluppò dopo l’8 settembre 1943 nella zona di Vecchiazzano, Ladino e Massa. Il documento è pubblicato sul sito www.vecchiazzano.it nella quinta parte di una più ampia ricerca sulla storia del territorio denominata “Vecchiazzano fra Ottocento e Novecento”.
Il lavoro di Giorgetti parte proprio dall’annuncio dell’entrata in vigore dell’armistizio di
Cassibile firmato dal governo Badoglio del Regno d’Italia con gli Alleati della seconda guerra mondiale. Il messaggio, letto proprio dal maresciallo Pietro Badoglio (capo del overno e
maresciallo d’Italia) alle 19,42 al microfono dell’EIAR, fece pensare agli italiani che la guerra fosse finita, ma con lo sfascio dell’esercito italiano, lo sbarco degli eserciti alleati nel Sud Italia e l’avvio della Resistenza ebbe inizio il periodo peggiore della seconda guerra mondiale.
La paura, l’incertezza e la stanchezza del conflitto avevano logorato i nervi ai soldati e ai civili, sottoposti a continui bombardamenti. Moltissimi giovani soldati abbandonarono le proprie formazioni militari e cercarono di raggiungere con ogni mezzo la propria casa. Anche a Vecchiazzano per diversi giorni fu un continuo susseguirsi di ragazzi in fuga. Alcuni nell’impossibilità di arrivare a destinazione si diedero alla “macchia” in attesa di tempi migliori, oppure giunti a casa si nascosero o iniziarono a raggiungere le prime formazioni partigiane che si stavano organizzando in collina. È il periodo in cui anche a Vecchiazzano e dintorni si cominciarono a formare alcuni gruppi di partigiani, in questo caso aderenti al PCI.
Racconta Gilberto Giorgetti che ha avuto la possibilità di raccogliere le dirette testimonianze da persone che conosceva molto bene essendo anche lui nato in loco: “Da un po’ di tempo nel boschetto di acacie di casa Bróna, sulla strada della Punta, si radunavano alcuni antifascisti per discutere come poter organizzare un’eventuale resistenza. Vi partecipavano Vincenzo Fiumi, detto Bróna, Achille Ricciardi, detto Pacanin ad Ciarôn, Ferdinando Strocchi, detto Nandin ad Stróc e Armando Mercuriali, detto Lurinzêt. Intanto, dopo l’8 settembre, a Vecchiazzano si organizzano le “staffette” per i collegamenti coi partigiani che operano sulle colline nella valle del Bidente. Il loro compito era quello di far pervenire rifornimenti alimentari ed informazioni. Sembra che per consegnare le notizie ai partigiani, alcune “staffette”, calzassero delle scarpe il cui tacco cavo poteva nascondere dei messaggi in codice.
Fra le “staffette” di Vecchiazzano si ricordano Elvira Fiumi, Ettore Leoni e Domenico Giacchini. La merce veniva consegnata in casa Leoni e in casa Giacchini e da li era distribuita, per mezzo delle “staffette”, presso l’ospedale di Dovadola, per poi farla pervenire agli interessati. Un altro punto di riferimento per i partigiani era la parrocchia, dove don Biagio Fabbri consegnava ad Elvira o ad Ettore il materiale alimentare e vestiario che riusciva a racimolare (Elvira Fiumi testimoniò verbalmente la propria esperienza ndr)”.
“Nei pressi di Santa Sofia, nelle località Biserno, Poggio alla Lastra, Monte Marino, Strabatenza e Casa Nova dell’Alpe”, continua il racconto di Giorgetti, “erano raggruppati circa 850 uomini in 19 compagnie, scarsamente armati, che facevano parte delle “Brigate Romagna”, poi Ottava brigata Garibaldi. In questa “brigata” ricordiamo: Carlo (Sergio) Fantini, detto Tribulin, di Ladino, Elvano Morgagni, detto Timocenko, Tonino Ravaioli, detto ‘E mör ad Sintël e Ulderico Gatta, detto Bibo ad Gata, di Vecchiazzano. Elvano Morgagni è la stessa persona che, nell’ottobre del 1943, ebbe l’incarico di far pervenire le armi, le munizioni e i medicinali ai partigiani di Santa Sofia.
Guido Miserocchi diede disposizioni a Secondo Tartagni, detto Dino, affinché si recasse a Vecchiazzano per incontrare Elvano. Il giovane partigiano l’avrebbe atteso seduto sul parapetto del ponte sul fiume Rabbi e poi lo avrebbe accompagnato in una casa, in via Ca’ Rossa a Caiossi, per caricare sul camion di Nino Ruffilli, detto Zivilén, del materiale bellico. Il riconoscimento doveva avvenire congiungendo una moneta da cinque lire, già divisa in precedenza da Miserocchi e consegnata ai due convenuti, come viene riportato anche dallo stesso Secondo Tartagni nel libro “La lotta partigiana nella vallata del Bidente”, Forlì 1976″.
Sergio Fantini
Il 12 aprile 1944, lunedì di Pasqua, circa 10.000 tedeschi e 5.000 fascisti attaccano le brigate partigiane della Romagna e della Toscana, queste, contano circa 1.500 uomini, di cui 400 sono disarmati. Nella notte fra il 7/8 aprile, benché avessero ricevuto un lancio di armi da parte degli Alleati, i partigiani furono costretti alla fuga. <<Così, un piccolo gruppo di loro ripararono a Vecchiazzano in casa Tribulin (l’abitazione della famiglia Fantini)”, scrive Giorgetti, “dove decisero di nascondere le armi sotto una siepe. Poi ognuno ripartì per la propria destinazione. Lungo il tragitto Morgagni decise di andare a casa Sbaràia, da suo zio Bruno, mentre Gatta preferì far visita ad una famiglia di Vecchiazzano che conosceva molto bene. Fra i partigiani che lasciarono la casa Tribulin, c’era anche un infiltrato, un tale di Cervia del quale nessuno sospettava. Giunto a Forlì, la spia andò al comando fascista, che aveva sede in palazzo Albertini nell’attuale piazza Saffi, dove denunciò la famiglia Fantini.
L’uomo si vestì con la divisa della milizia e subito dopo ripartì sul camion della spedizione punitiva, per ritornare in casa Tribulin. Sergio venne subito catturato assieme ai due fratelli. Con gesto eroico, il partigiano scagionò da ogni responsabilità i familiari, che furono subito liberati. Sergio, invece, nel pomeriggio del 4 maggio 1944 venne accompagnato lungo la “callaia” della sua casa e venne ucciso, sparandogli tre colpi di rivoltella a distanza ravvicinata. Una pallottola lo raggiunse a metà della fronte, un’altra gli lacerò la guancia sinistra e un ultimo proiettile gli trapassò la gola.
Intanto, la milizia fascista percorreva le strade di Vecchiazzano alla ricerca di altri partigiani. Morgagni, da casa Sbaràia, si caricò sulle spalle una fascina e fingendosi un bracciante si nascose vicino alle mura del cimitero fra l’erba di un campo. Durante la notte lo raggiunse Ulderico Gatta e insieme attesero l’alba avvolti nelle coperte.
Il giorno seguente, la salma di Sergio Fantini venne portata nella camera mortuaria del cimitero di Vecchiazzano, per essere riordinata prima della sepoltura. Bruno Sbaraglia, in questa occasione, andò ad aiutare Romeo Regitori, il becchino del cimitero. Bruno incaricò poi sua moglie Ida di far bollire dell’acqua per poter lavare la salma.
I due uomini erano intenti al lavoro, quando Romeo si rivolse a Bruno: “Sai, penso che questa notte ci siano stati dei partigiani anche qui vicino al cimitero, perché questa mattina presto ho sentito dei rumori…”. “Cosa dite!” lo interruppe Bruno “Era gente che mi ha rubato l’erba, non avete visto che disastro hanno combinato?”. Romeo Regitori lo guardò in silenzio. Aveva capito che era meglio tacere (anche in questo caso Giorgetti ricostruì gli avvenimenti grazie a una testimonianza verbale di Bruno Sbaraglia ndr).
In seguito all’uccisione di Sergio Fantini, una decina di giovani partigiani di Vecchiazzano s’intimorirono e si presentarono spontaneamente al comando fascista per non essere perseguitati. Molti si appellarono ad un bando di Mussolini, che garantiva clemenza nei confronti di coloro che avevano dimostrato avversione al regime, purché si fossero costituiti entro il 25 maggio del 1944.
In Romagna, in quei giorni, ci furono ovunque momenti di grande tensione che portarono all’uccisione di ostaggi, all’incarcerazione di persone sospette, all’uccisione di innocenti nelle case, nei campi, lungo i fiumi e per le strade. Ci furono, inoltre, perquisizioni e furti, soprattutto di biciclette, requisizioni di bestiame e affissioni di bandi, che “parlavano” di morte, di prigione e di fucilazione. C’erano ovunque delle spie e delle impiccagioni nelle pubbliche piazze. Una specie di bolgia infernale dominata dalla paura e dall’arroganza nazifascista.
Lungo la breve strada privata che conduce al podere Cimatti, una laterale sulla sinistra della provinciale Vecchiazzano-Ladino, qualche centinaio di metri prima del bosco, è presente un cippo con lapide sul luogo dell’uccisione di Fantini che reca l’iscrizione: “QUI CADDE EROICAMENTE / FUCILATO DAI SICARI / FASCISTI / IL GAPPISTA / FANTINI SERGIO / DI ANNI 26 / COMBATTENTE DELLA LIBERTÀ. / I COMPAGNI DI LOTTA POSERO”.
L’uccisione venne denunciata in un volantino diffuso clandestinamente il 5 giugno 1944 dal Partito Comunista. Nello stesso foglio si accumunava la sorte di Fantini a quella di due altri partigiani: Rino Laghi e Armando Asioli.
Rino Laghi
Rino Laghi è stato riconosciuto partigiano dell’8° brigata con ciclo operativo dal 15 settembre 1943 al 15 aprile 1944. Nome di battaglia Gorki. Fu tra gli iniziatori della lotta partigiana in pianura, partecipò alle prime azioni gappiste. Il 10 febbraio 1944 fece parte del gruppo che uccise in pieno giorno, il federale fascista di Forlì, Arturo Capanni lungo la via Firenze, a poche centinaia di metri dalla sua abitazione di San Varano. Dopo questa azione fu impossibile per lui rimanere in città e si trasferì nell’8° brigata. Durante il rastrellamento del mese di aprile, venne catturato al Muraglione e tradotto a Firenze dove venne fucilato il 3 maggio 1944.
Armando Asioli
Il 7 maggio 1944 un milite della Guardia nazionale repubblicana di Forlì uccise Armando Asioli a colpi di mitra nei pressi del cimitero di Villanova. Asioli aveva 38 anni e lavorava come meccanico, era soprannominato “Macaron”. Antonio Mambelli nel “Diario degli avvenimenti in Forlì e in Romagna” così descrive la tragica vicenda: “A seguito dello scoppio di un ordigno il 19 febbraio 1944 vicino al portone d’ingresso della Caserma Caterina Sforza, furono tratti in arresto i congiunti della vittima: il padre Cesare facchino di anni 64, la sorella Maria, di anni 32, il figlio Roberto d’anni 10 e la moglie Rosalia Nozzoli di 34 anni, il primo e l’ultima detenuti per 72 giorni nelle nostre carceri, 9 giorni la sorella, 2 il figlio. Armando Asioli era sfuggito alla cattura scavalcando il muretto del cortile di casa sua in via Andrelini e da allora era vissuto a contatto dei partigiani, tuttavia in seguito, per l’interessamento del questore Larice (Secondo Larice, nato a Forlì nel 1897 morirà a Roma nel 1952, dopo Forlì fu questore a Milano avendo aderito alla RSI ndr), ora degente in ospedale, aveva ottenuto di poter rientrare liberamente in famiglia, ciò che appunto faceva. Si dice che l’uccisore si sia vantato del “bel colpo” che ha soppresso un operaio abile, tenero coi suoi, amatissimo al lavoro, come lo scrivente può testimoniare per dimestichezza di rapporti; egli militava certo nel movimento clandestino ed era di idee comuniste, ma si era sottratto all’arresto poiché temeva la vendetta di un fascista con cui pare fosse venuto a diverbio per opinione politica: l’Asioli lavorava presso le Officine di Forlì”.
Don Angelo (Gino) Savelli
A Ladino nacque Angelo Savelli, da tutti chiamato Gino, che diventò parroco e fu un esponente di primo della Resistenza nella zona di Modigliana. Finora ho raccolto pochi elementi per poter parlare in modo esauriente di lui in questo contesto. Mi riservo di farlo a parte e chiedo collaborazione per ottenere informazioni su don Savelli (chi ne ha può inviare una mail a gabriele.zelli@gmail.com).
La caserma Caterina Sforza
Siccome poco sopra viene citata la caserma Caterina Sforza di via Romanello occorre ricordare che diventò luogo adibito ad uso militare in seguito alle soppressioni napoleoniche. Fu dapprima denominata caserma “Santa Caterina”, perché occupava gli spazi dell’omonimo monastero.
Nel 1903 Giuseppe Ottolenghi (1838 – 1904), Ministro della guerra del Regno d’Italia, stabilì il cambio di denominazione, come riportato ne “Il Giornale Militare Ufficiale” del 7 novembre. Fu sede dell’11° Reggimento Fanteria della Brigata Casale che conquistò Gorizia durante la Grande Guerra (i soldati furono denominati “i Gialli del Calvario” dal colore delle mostrine e dal numero elevatissimo di morti che si registrarono per conquistare la modesta altura ma solidamente presidiata dall’esercito austro-ungarico ndr). Dopo l’8 settembre 1943, diventò sede di una caserma della GNR e poi delle Brigate nere. Vi vennero concentrati per la visita medica i prigionieri e i rastrellati destinati alla deportazione per il lavoro obbligatorio in Germania.
Nelle celle di questa caserma la polizia politica fascista praticò la violenza e la tortura.
Dopo la liberazione fu occupata da numerose famiglie che avevano perso la casa in seguito ai numerosi bombardamenti sulla città e negli anni successivi da famiglie disagiate della città, per l’esattezza 101, i cui componenti vivevano in una situazione di promiscuità e di degrado, tanto che diventò per tutti il “Casermone”. L’edificio fu liberato nel 1973, durante il mandato del sindaco Angelo Satanassi (1925 – 2011) con lo spostamento delle famiglie, seguito dall’assessore Maria Belli (1934), in altrettanti appartamenti popolari costruiti in via Torquato Nanni. Solo nel 1988 fu possibile restaurare il Casermone dopo che fu acquistato dal Comune di Forlì.
Ricordo molto bene questi ultimi fatti perché seguii i lavori in qualità di assessore all’Edilizia pubblica. Le esigenze dell’ adiacente Istituto scolastico (ora Istituto Superiore “Roberto Ruffilli” n.d.r.) costruito negli anni ’60 demolendo gran parte del monastero fecero prendere in considerazione la possibilità di utilizzare la chiesa e diversi altri ambienti attigui. La sfida fu particolarmente stimolante per l’equipe di professionisti che ha progettato il restauro ed ebbe anche un risvolto pioneristico: si doveva recuperare un edificio storico, da destinare a un uso prevalentemente scolastico, applicando per la prima volta in un immobile di tali dimensioni la legge antisismica. Le soluzioni che oggi si possono ammirare, con il recupero della chiesa ad aula magna e sala conferenze più gli altri ambienti a uso scolastico, sono state possibili grazie alla stretta collaborazione fra l’Arch. Antonio Quadretti, progettista e direttore dei lavori dell’intervento, l’Ingegnere Paolo Zarlenga, direttore dei lavori strutturali, il Comune, la Soprintendenza di Ravenna e le ditte impegnate nei lavori (prima fra tutte la Cooperativa A.C.M.A.R. di Ravenna).
Dal prossimo articolo si inizierà a camminare verso Rovere.
Gabriele Zelli