Il passaggio del fronte a Rovere

Attraversamento fiume Ronco nella Seconda Guerra Mondiale a Rovere

Nell’illustrazione dell’itinerario che, come più volte ribadito, ha un carattere storico, culturale e naturalistico, non può mancare un capitolo dedicato al Secondo conflitto mondiale. Il passaggio del fronte colpì tutto il territorio italiano anche le piccole realtà come Rovere. In base a quanto viene riportato ne la “Cronistoria della parrocchia di Rovere di Forlì” tenuta dall’allora parroco don Felice Giuliani e nei libri: “La guerra nelle mie valli” di Luigi Cesare Bonfante (2006), “Usfadè” di Salvatore Gioiello e Lieto Zambelli (1992), “Fuori dalle mura” di Chiara Mazza (2003), “Diario degli avvenimenti in Forlì e in Romagna dal 1939 al 1945” di Antonio Mambelli (2003), si possono elencare gli avvenimenti più salienti avvenuti a Rovere a partire dai primi mesi del 1944.

Niente processione in occasione di Santa Eurosia

Per sabato 29 aprile, mentre sull’Appennino si stava concludendo il drammatico rastrellamento contro le formazioni partigiane da parte dei nazifascisti, a Rovere era in programma la festa di Santa Eurosia, vergine e martire cristiana decapitata dai Mori nei pressi di un villaggio dei Pirenei spagnoli, Yebra (Alta Aragona), venerata come santa dalla Chiesa cattolica e invocata contro le tempeste, la grandine, i fulmini e per la protezione e fertilità dei raccolti. In tutta la nostra campagna in situazioni normali questi appuntamenti registravano molta partecipazione ma in quella giornata a Rovere la tradizionale processione non si svolse per timore di bombardamenti. Uno dei primi avvenne il successivo 30 giugno quando fu colpita una zona nelle vicinanze del centro abitato di Rovere. Mentre il 28 luglio si registrarono mitragliamenti a Vecchiazzano, San Varano, Rovere e nei dintorni di Castrocaro.

Le fucilazioni di Castrocaro

Lunedì 14 agosto ebbe vasta risonanza in tutta la zona la notizia che nei pressi del cimitero di Castrocaro, alle 9.00, un plotone di esecuzione del 1° Battaglione “M 9 Settembre”, di stanza nella località termale, passò per le armi gli antifascisti Gian Raniero Paulucci de’ Calboli Ginnasi e Antonio Benzoni, entrambi di Forlì. Nei rapporti della Guardia Nazionale Repubblicana il primo venne definito “sovventore dei ribelli” e l’altro “detentore di armi ed esplosivo”. Insieme a loro furono fucilati l’allievo ufficiale GNR Fiorenzo Grassi della Compagnia ausiliaria del vice comando provinciale di Forlì (definito “cospiratore, sovvenzionatore comunista”), il milite scelto Antonio Buranti di Bertinoro ed il milite Livio Ceccarelli, ex piantone della Federazione fascista di Forlì; il primo fu accusato di aver venduto armi ai “ribelli”, il secondo di collaborazione con gli stessi, tutti per “tradimento della Patria”.
Il Marchese Paulucci di Calboli quando seppe che sarebbe stato fucilato chiese la presenza di un parroco per confessarsi. Don Luigi Superga, di Tredozio, allora giovane sacerdote, cappellano a Castrocaro, che ho conosciuto personalmente negli anni ’80 quando esercitava il suo ministero a Dovadola, fu avvisato di questo nel pomeriggio del 13 agosto 1944. Nella sua testimonianza, raccolta da Salvatore Gioiello e Lieto Zambelli, ricorda che arrivò presso la canonica una camicia nera della “IX Settembre” ad avvertirlo che Paulucci aveva chiesto il sacramento della confessione per sé e per gli altri quattro condannati a morte. “Entrai in caserma”, raccontò don Superga, “assieme al mio arciprete, don Enrico Cicognani, e ci disponemmo in attesa. Uscì un giovane in divisa fascista, accusato di tradimento (Buranti ndr). Aveva il viso tumefatto dalle percosse subite. Suo padre combatteva a fianco dei partigiani in Jugoslavia e lui aveva capito l’errore commesso: “Muio per la libertà” ci disse. Era il primo che avremmo dovuto confessare; l’aveva mandato il marchese Gian Raniero. Improvvisamente scattò un allarme: un gruppo di partigiani stava tentando un’irruzione. Si scatenò un movimento frenetico, grida ed ordini si sovrapponevano alimentando confusione e panico. In breve, tutti uscirono ed il colloquio appena avviato fu interrotto bruscamente. Dovemmo andarcene e tornare a casa”.

Il bombardamento del 1° settembre 1944

In questa giornata attacchi aerei si verificarono su Rovere e San Varano, ove una casa fu danneggiata, morì una bambina e ci furono tre feriti, anche se il vero obiettivo era la vicina Terra del Sole. Infatti alle 7.50 circa sei cacciabombardieri apparsi da sud, dopo alcune raffiche di mitra, si gettarono in picchiata sulla cittadella medicea e sganciarono ciascuno due bombe e spezzoni che avvolsero l’abitato in una coltre di fumo nero. Una striscia del paese, quella di nord-est, venne gravemente colpita: una decina di case distrutte ed altrettante danneggiate. Diversi abitanti furono messi in salvo, tredici i feriti estratti dalle macerie mentre per una signora sfollata da San Godenzo non ci fu nulla da fare. Dopo l’incursione aerea si contarono anche tre morti fra i tedeschi, erano addetti alla riparazione di autoambulanze. Considerata l’azione improvvisa e la potenza degli esplosivi i danni potevano essere ben maggiori nonostante fossero stati colpiti anche la casa di riposo, l’asilo d’infanzia, il cui oratorio andò distrutto, e leggermente la chiesa di Santa Reparata, dove si trovavano numerose persone.

Il bombardamento del 25 ottobre 1944

A Rovere i momenti più drammatici si ebbero con l’avvicinarsi del fronte e dei conseguenti combattimenti. Infatti mercoledì 25 ottobre 1944 sei cacciabombardieri alleati bombardano la casa della dogana e mitragliarono “perché avevano saputo di una radio emittente tedesca nella casa di Mazzavillani”. Nell’occasione persero la vita Arturo Guardigli, di 31 anni, meccanico, il colono Ermenegildo Mazzavillani e Venerando Fanti, di 57 anni per un colpo di mitraglia mentre abbeverava le mucche. Dal diario di don Giuliani si apprende che i morti furono portati in chiesa per le esequie il mattino seguente prima del levar del sole.
Due giorni dopo la località fu posta sotto il tiro dei cannoni inglesi e questa situazione continuò per diversi giorni. Mercoledì 8 novembre le artiglierie alleate, che sparavano dal Sanatorio di Vecchiazzano, da Ladino e da Fiumana tennero costantemente sotto tiro la zona della chiesa di Rovere, della dogana e di villa Giulianini. Tre giorni dopo, sabato 11 novembre, sempre sotto il tiro continuato delle artiglierie, la chiesa venne centrata da proiettili nella ancona dell’altare di San Pietro e nella sacrestia. Poiché era già stato colpito l’appartamento del 2° piano il parroco don Giuliani e gli sfollati si rifugiarono nella vicina capanna.

L’arrivo dei soldati alleati

Nelle ore successive furono colpite nuovamente la chiesa e la canonica. Inoltre sei caccia dell’aviazione alleata bombardarono le ville Giulianini e Talentoni e dalla dogana verso il canale fino a 30 metri dalla chiesa. Contemporaneamente mitragliarono da est ad ovest verso la chiesa e la canonica. Poco prima che arrivassero i primi inglesi, uno spezzone cadde vicino all’ingresso del rifugio ove si trovavano il parroco e gli sfollati.
L’arrivo della 46° Divisione britannica che liberò San Varano dai soldati tedeschi avvenne lunedì 13 novembre, quattro giorni dopo Forlì. Alle 8 i primi militari inglesi raggiunsero la canonica di Rovere. Si trattennero fino a sera, poi ripartirono in direzione di Petrignone e di Villagrappa.
Giuseppe Mengozzi scrive che Villa Rovere venne occupata dagli alleati dopo scontri avvenuti nelle case coloniche e nei campi, nei quali trovarono la morte un inglese, due polacchi e otto tedeschi.

I rifugi scavati sotto la strada che costeggia il canale

Don Giuliani scrive nel suo diario che gli alleati spiegarono l’accanimento delle loro artiglierie contro la zona della chiesa di Rovere facendo presente che da lontano notavano un considerevole movimento di persone, anche durante i cannoneggiamenti. Si trattava di diversi sfollati che avevano scavato i rifugi sotto la strada del canale, vicino alla chiesa e che andavano a prendere l’acqua da bere nel pozzo ed a cuocere il pane nel forno della casa contadina della chiesa; forno che un tempo era nella disponibilità della quasi totalità delle abitazioni di campagna.
Questo il resoconto di don Giuliani assume un’ulteriore importanza perché fa capire dove le persone cercarono rifugio. In questo caso sfruttando il considerevole dislivello fra la sede stradale, che dalla chiesa della Rovere costeggia il canale e sbuca sulla via Firenze, e il campo limitrofo si scavarono dei rifugi che potevano consentire di ripararsi in caso di pericolo e dove si visse anche per giorni e notti intere. Perché in quei mesi, soprattutto nelle città del centro e del nord, molta della vita si svolse sottoterra. In quel periodo i protagonisti della vita di tutti i giorni furono il freddo dell’inverno del 1944, la fame e le angherie dei tedeschi, ma anche il fatto che gli alleati presero a martellare con serrati bombardamenti aerei, nell’intento di respingere gli occupanti. In città, per proteggersi, le famiglie e gli sfollati trovarono riparo nelle cantine di edifici pubblici o privati, o in trincee scavate nei giardini e nelle piazze, originando una nuova e articolata geografia cittadina che si sviluppava alcuni metri in profondità. Ricoveri-dormitori, ben presto caratterizzati dall’affollamento e dalla scarsa igiene, sorsero un po’ ovunque.
Nel 2014 Fabio Blaco ed Elisa Gianardi hanno dedicato una pubblicazione a questo argomento dal titolo “I rifugi antiaerei della città di Forlì. Quando la morte venne dal cielo”, ben presto andata esaurita.
Nelle campagne si scavarono rifugi in mezzo ai campi, sotto ai fienili, nelle rive dei canali e dei fossi (ovviamente non si poterono utilizzare nell’ottobre-novembre 1944 a causa delle piogge che riempiono questi corsi di acqua). A Castiglione, poco distante da Rovere, si scavarono vere e proprie grotte a fianco di due esistenti potendo contare sulla solidità di un’altura composta di sabbia gialla di origine pleistocenica.

La permanenza dei soldati

La presenza dei militari alleati si prolungò fino al mese di aprile del 1945.
Dal mercoledì 15 novembre in canonica si insediò per 10 giorni il comando di una batteria d’artiglieria, mentre in chiesa dal 17 novembre al 10 dicembre un cappellano irlandese celebrerà, a giorni alterni, la messa per oltre 70 soldati.
Verso la fine di novembre il comando della batteria lasciò il posto ad un gruppetto composto da un ufficiale inglese e due soldati che mantennero il posto di blocco sulla Strada Statale.
Siccome il fronte si stava progressivamente allontanando anche le batterie d’artiglieria alleata attorno al Montone furono trasferite verso Faenza. Rimase solamente una batteria di grosso calibro, piazzata nella zona del Mercato di Sopra a Castrocaro, che faceva un fracasso infernale quando sparava.
Poi fu la volta dei soldati polacchi a raggiungere Rovere. Un comando di una batteria di artiglieria pesante si insediò al posto dei tre militari del posto di blocco. Una presenza destinata a ravvivare anche la chiesa perché domenica 17 dicembre Il parroco celebrò la messa per i nuovi “inquilini”. I militari, compresi gli ufficiali, servirono la messa, suonarono l’harmonium e cantarono durante la funzione religiosa.

Il Natale del 1944: pochi bambini a “dire i sermoncini”

La vicina Castrocaro rimase a lungo un grande centro di smistamento di truppe e molte case furono occupate dai soldati. Nella notte di sabato 24 dicembre una ventina di aerei tedeschi sganciano bombe e spezzoni in quel di Sadurano. Nonostante ciò, il giorno dopo, da parte dei soldati alleati vennero ovunque organizzate manifestazioni natalizie in favore dei bambini. In tali occasioni la maggior familiarità con gli abitanti del luogo fu espressa dalle truppe polacche.
Però il parroco di Rovere scrive nel suo diario a proposito delle celebrazioni di quel Natale: “Pochissimi sermoncini detti dinanzi al Presepio fatto sull’altare di Sant’Isidoro”.
In molte famiglie, una volta, per Natale, si insegnava ai bambini a recitare dei sermoni o, come vengono chiamate in alcune parti della Romagna, “al pasturèli”, per avere in cambio premi o regali dai familiari stessi. Sicuramente in quel 1944 non c’era ancora lo spirito giusto per festeggiare.
A metà gennaio del 1945 si combatteva ancora sul fronte del Senio. Erich Linklater nel libro “The compaign in Italy” scrive che in quel periodo la strategia degli alleati consisteva nel tenere la linea con la minor truppa possibile, confidando che il nemico desse segni di movimento nel caso di suo contrattacco e di tenere sempre in dubbio il nemico sulla possibilità di una improvvisa offensiva. Sta di fatto che sul fiume Senio la guerra si fermò a lungo con tutte le conseguenze drammatiche del caso.
Nel frattempo a Rovere s’acquartierano, sempre presso la canonica, tre soldati greci con 24 muli e vi resteranno fino ai primi di marzo. Dalla fine di marzo a tutto aprile restò un presidio militare che sorvegliava le munizioni depositate nelle vicinanze.

L’utilizzo dei muli durante la Seconda guerra mondiale

Se qualcuno si chiede il perché della presenza di muli al seguito di reparti militari occorre specificare che anche durante il Secondo conflitto mondiale questo animale trovò un ampio impiego. Un esempio per tutti è dato dalla storia dell’attacco al Passo del Giogo, tra il Comune di Fiorenzuola e quello di Scarperia, quando il generale inglese Sidney Kirkman (1895 – 1982) decise di concentrare gli sforzi del XIII Corpo britannico lungo la Strada Faentina per sostenere l’avanzamento del II Corpo statunitense. Un compito particolarmente arduo fu quello affidato all”VIII Divisione indiana, incaricata di attaccare sulle montagne a nord di Vicchio, nel tentativo di aggirare le robuste difese tedesche sulla Faentina. Per portare rifornimenti e armi all’VIII Divisione, su un terreno montano particolarmente impervio, venne organizzata una brigata con colonne di muli, recuperati da altri reparti e dai civili.
Animali molto apprezzati per la resistenza alla fatica, i muli vennero ampiamente impiegati nella seconda guerra mondiale. Solo gli alpini italiani ne utilizzarono oltre 500 mila.
Anche le divisioni alleate, benché attrezzate di mezzi meccanici moderni, furono costrette dalle cattive condizioni atmosferiche e dal difficile terreno appenninico, ad utilizzarne migliaia, requisiti in tutta l’Italia liberata. Guidati da ausiliari italiani del Regio esercito, i convogli di muli (mule-train) permetteranno, spesso in condizioni di estremo pericolo, i collegamenti tra il fronte e le retrovie.

Gabriele Zelli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *