La trebbiatura manuale del grano

trebbiatura a mano

Con la preziosa collaborazione di Radames Garoia e Nivalda Raffoni ricostruisco le fasi successive alla mietitura e all’edificazione del barco di cui ho parlato in testi precedenti (clicca qui), quando il grano subiva una lavorazione (battitura o trebbiatura) che consentiva la separazione del chicco dalla paglia e dalla pula. Nei tempi antichi il disfacimento della spiga avveniva manualmente e successivamente i chicchi si selezionavano sbattendo violentemente i mazzi del grano in terra o contro una parete, oppure per battitura degli stessi con lunghe pertiche.

“Molto più tardi si introdusse l’uso della “zercia” (il correggiato) – raccontano i due esperti – sistema che dava propriamente il nome alla battitura (da cui “batdura”, trebbiatura). Si batteva, si percuoteva con forza il grano steso sull’aia con questo strumento, il più antico ed anche il più semplice. Era composto da un lungo manico, “e mang”, e da un legno più corto, una specie di clava, legati insieme da una striscia di cuoio o da una corda, detta “coreggia”; impugnato dal manico l’operatore batteva ritmicamente sulle spighe con uno slancio circolare. Lo stesso attrezzo era usato anche per “battere” i fagioli ed i ceci. Anticamente si usava anche impiegare il calpestio animale, per sgranare le spighe; in Romagna si usavano vacche o buoi. I bovini venivano fatti camminare in circolo sopra il grano disteso nell’aia, mentre i contadini e i loro familiari con i forcali lo rivoltavano. Successivamente si usò far passare sui covoni stesi in terra un rullo di legno, oppure un pesante strumento di pietra schiacciata, tozza, sagomata a forma di triangolo o trapezio isoscele, con un foro a pochi centimetri dalla base minore che serviva per legarci la fune per trascinarla con la forza animale. Oppure un pesante strumento di legno a forma triangolare, “e targion”, trainato da due animali tramite un timone rigido, che presentava delle scanalature sul lato inferiore per favorire l’uscita dei chicchi di grano dalle spighe. Una persona seguiva continuamente le bestie da tergo con un capiente bidone, per raccogliere le loro feci e urina, in modo che tali escrementi non cadessero in terra a sporcare il grano“.

Va rammentato che tutte queste operazioni di battitura del grano (il correggiato, il calpestio animale, il trascinamento di attrezzo pesante) – sono sempre parole di Radames Garoia e Nivalda Raffoni – venivano realizzate su una superfice precedentemente “imbovinata”, cioè trattata con la “buazza” (una miscela di acqua, urina e sterco bovino), perché assumesse, con l’esposizione al sole, una consistenza dura e compatta, esente da screpolature (una rudimentale cementificazione). Questi sistemi, decisamente antiigienici, creavano non pochi problemi di salute fino ad arrivare a gravi malattie anche mortali (infezioni da tifo, tetano, ecc.), come conseguenza del deposito di elementi escrementizi sulla superficie del chicco del grano. Nonostante ciò, fino a tutto l’800, erano molto diffusi nelle campagne (in pratica si faceva solo così, fino all’avvento delle prime trebbiatrici) e non si facevano quelle piazzole pavimentate in pietra o addirittura in cemento, come consigliavano gli agronomi del tempo, per mancanza di disponibilità economica“.

A battitura ultimata si recuperava la paglia, che veniva utilizzata per fare letto al bestiame: rimaneva solo il miscuglio pula e chicchi di grano e si procedeva alla loro separazione. Si effettuava mediante un’operazione detta “spuladura” (eliminazione della pula) contro vento: in una giornata ventosa, dopo aver steso sul terreno un grande telo, il contadino, tenendo un contenitore pieno di miscuglio pula/grano sulla spalla, ne faceva cadere un pò alla volta; il vento faceva volare via la pula, perché più leggera e sul telo rimanevano solo i chicchi del grano.

Una variante di tale operazione era quella del “telo verticale” – specificano Radames Garoia e Nivalda Raffoni – quando, sempre approfittando di un soffio di vento, si stendeva un telo in un angolo dell’aia, ancorato ad una scala o una pertica, in modo che il telo rimanesse sollevato da una parte. Verso di essa si dovevano “tirare” piccole palate del miscuglio pula/grano, in modo che il grano finisse ai piedi del telo e la pula volasse via sotto l’effetto del vento. Comunque la si eseguisse, la “spuladura” non dava un risultato ottimale: il grano non aveva una purezza assoluta ed era sempre presente, seppur in minima quantità, una percentuale di frammenti di paglia, di spiga, semi guasti, frammenti di terra, sassolini e polvere. Per tale motivo veniva ulteriormente selezionato e vagliato con l’aiuto di attrezzi appropriati. Tale operazione richiedeva molto tempo e manodopera: si usavano dei grossi “sdëz” (setacci) e “vël” (vagli o crivelli), di diametro anche superiore al metro, che venivano sospesi mediante funi appese a qualche trave del porticato, o anche più semplicemente appesi a due scale incrociate tra loro. Il vaglio era un largo recipiente di forma rotonda a sponde basse e dal fondo di lamiera forata in cui veniva versato il grano e mosso ritmicamente in senso circolare. Ne esistevano di diverse “misure”, dove per misura si intendeva il diametro, e dai fori uscivano le impurità presenti. Verso la metà dell’800 fu introdotto “e buratt” (ventilatore) a manovella che ripuliva e selezionava i chicchi dalle impurità“.

Gabriele Zelli

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