Dopo aver raccontato come avveniva la trebbiatura, meglio dire battitura, del grano quando in campagna i contadini non potevano usufruire di mezzi meccanici, questo ulteriore testo vuole mettere in luce l’uso delle prime trebbiatrici. Ricostruisco questa parte di storia dei lavori agricoli di un tempo con la collaborazione di Radames Garoia e Nivalda Raffoni, cultori delle tradizioni popolari romagnole.
La trebbiatrice meccanica apparve nella seconda metà dell‘800 e per funzionare, necessitava di una forza motrice ad essa collegata. Rispetto alle tecniche tradizionali ed arcaiche (battitura manuale) che abbiamo visto nel precedente articolo, la trebbiatura meccanica riduceva notevolmente i tempi di lavorazione e garantiva alla classe padronale la facoltà di esercitare un controllo più efficace sulla spartizione del prodotto.
«Mentre si edificavano i geometrici barchi nelle aie di Romagna – raccontano Radames Garoia e Nivalda Raffoni – si cominciava a vedere nelle nostre campagne un personaggio, a dir poco singolare: “e ziratêri” (commissionario, come lo definisce Libero Ercolani nel suo “Vocabolario romagnolo-italiano”, ovvero, persona che gira per incarico di altri a ricevere prenotazioni per lavoro bracciantile o di macchine agricole). Era il rappresentante, con compito di persuasore, che magnificava i pregi della trebbiatrice e della squadra di operai di cui era il portavoce. Più contadini riusciva a convincere, maggior lavoro si assicurava alla sua trebbia e alla sua squadra, con evidente maggior guadagno per tutti.
La concorrenza era agguerrita: nell’immediato dopoguerra c’erano le trebbiatrici “politiche”, cioè quelle di ispirazione ideologica, quella verde “di republichén” (dei repubblicani), quella rossa “di comunesta” (dei comunisti), quella bianca (dei democristiani, che molti chiamavano “la machina di pritt”, la trebbiatrice dei preti, individuando in ciò che era di ispirazione cattolica, proprietà del clero e della Chiesa), nonchè quelle di facoltosi privati”.
“C’erano squadre d’aia con lavoratori più rissosi o più inclini a lavorare poco – specificano Radames Garoia e Nivalda Raffoni – oppure con elementi “ch’ i aveva al men longhi” (che avevano le mani lunghe, cioè perpetravano piccoli furtarelli a casa dei contadini). Un bravo “ziratêri” doveva essere un buon parlatore, “vendere” il suo prodotto, fare opera di persuasione nei confronti del mezzadro e del fattore, magnificando solo i pregi del “suo team” (come si direbbe oggi) e sottolineando solo i difetti delle altre squadre.
La trebbiatura iniziava solitamente il 1° luglio (e comunque non prima di San Pietro e Paolo, 29 giugno) e terminava intorno al 15-20 luglio. Gli Uffici di Collocamento delle varie città distribuivano la manodopera bracciantile destinando alle Cooperative Agricole delle varie frazioni un certo numero di lavoratori (uomini e donne), in ragione delle domande pervenute».
«Questa era una complessa operazione lavorativa in cui tante persone (la squadra d’aia) divise in gruppi di lavoro operavano in simbiosi tra di loro, con dei meccanismi e delle regole ben precise – evidenziano i due studiosi -. La trebbia veniva installata di fianco al barco e doveva essere perfettamente in piano; si procedeva poi a piazzare il trattore, il quale produceva forza motrice che azionava la macchina tramite una lunga e resistente cinghia (e zingiōn), che collegava il suo cardano alla puleggia della macchina trebbiatrice e conseguentemente metteva in azione tutti gli ingranaggi del suo complesso meccanismo interno. Prima dell’utilizzo del trattore si usava la caldaia a vapore (utilizzata fino a metà degli anni Trenta), che, da una casa all’altra veniva trainata, alternativamente alla trebbiatrice, da un paio di buoi. All’interno della squadra si formavano i gruppi di lavoro che si avvicendavano alle varie mansioni:
Il gruppo della “misura” stava agli sportelli da cui usciva il grano che veniva insaccato in sacchi di juta (sëc d’urtiga). Quando il sacco era pieno si metteva sulla bascula e si otteneva il peso esatto di kg 101,50 (un quintale di grano + kg 1,50 di tara). Poi si legava la bocca del sacco con uno spago e si andava a depositare nel luogo indicato. Se questo era al piano terra si usava un piccolo carrello, ma il trasporto sulla schiena era inevitabile se il deposito era al primo piano (il camerone, e camarōn), come spesso accadeva nelle grandi case coloniche.
Il gruppo del “barco” era costituito da tre o quattro persone che, utilizzando lunghi “tridenti” (forcali a tre rebbi), trasferiva nella trebbiatrice i covoni accatastati nel barco. Altri lavoratori erano preposti agli “imboccatoi”, sopra la trebbiatrice, avevano la mansione di prendere i covoni che arrivavano dal barco, di recidere la legatura che teneva unito il fascio di grano e di immetterlo negli imboccatoi, per farlo entrare “nella pancia” della trebbiatrice e compiere la selezione necessaria (grano, paglia, pula). Gli addetti alla “paglia” provvedevano a togliere gli scarti del grano, in questo caso i gambi, che uscivano dalla parte anteriore della trebbiatrice. La sollevavano con lunghe forche di legno e la portavano nel punto dove si innalzava il pagliaio della paglia (la cavalèta dla paja). Molti contadini utilizzavano la paglia per fare da copertura ad un capanno (il cui telaio era di bastoni di legno incrociati ed inchiodati tra loro a forma di parallelepipedo), di circa tre metri per due, che serviva per il deposito di piccoli attrezzi, per conservare il foraggio per il bestiame e a volte anche per qualche stia di conigli».
«Infine c’erano coloro che svolgevano la mansione più faticosa – concludono Radames Garoia e Nivalda Raffoni – in condizioni di lavoro decisamente difficili e cioè chi doveva occuparsi della sistemazione della “pula” che veniva espulsa da una fessura nella parte bassa della trebbiatrice. La “pula” è l’insieme di quelle piccole foglie, sottili come pellicine, che, nella spiga, tenevano avvolto il chicco del grano e che, dopo la separazione di questo con l’opera della “battitura”, venivano separate dal resto. Si usava una tavola di legno (l’ësa dla pula) di circa due metri di lunghezza per cinquanta centimetri di altezza, tenuta orizzontale al terreno, per trascinare la pula nel luogo prestabilito. Anche se non troppo faticosa, tant’è che veniva svolta prevalentemente dalle donne della squadra d’aia, questa era un’operazione davvero antipatica, per la polvere che, unita al sudore e al caldo, creava immaginabili disagi.
Verso la metà degli anni ‘50 arrivò l’imballatrice: si trattava di una macchina collegata alla parte anteriore della trebbiatrice che era azionata con la stessa forza motrice del trattore, tramite una ulteriore cinghia. Essa raccoglieva la paglia e la pula espulse tramite un sistema di pressori e rulli e le raggruppava in balle a forma di parallelepipedo (dal peso di circa quaranta-cinquanta chilogrammi cadauna)».
Negli articoli precedenti sono stati descritti, in maniera molto sintetica, il ciclo del grano maturo: mietitura, edificazione del barco e trebbiatura; tutte operazioni che avvenivano nel periodo da fine giugno a metà luglio circa. Spero che il lettore abbia percepito la fatica ed il sudore prodotti dagli operatori che si occupavano di questi lavori. Grazie all’industria dell’agricoltura ed all’evoluzione tecnologica, oggi tutto ciò che riguarda la raccolta e trebbiatura del grano si svolge in un tempo infinitesimale rispetto al passato. In poche ore, una moderna mietitrebbiatrice ed un unico operatore svolgono il lavoro di cinquanta persone per due settimane! Ecco perché è completamente sparita anche un’altra attività connessa al ciclo del grano, quella della spigolatura, di cui parlerò prossimamente.
Gabriele Zelli