Prima di rientrare a Ladino merita di essere segnalato, per chi volesse prolungare il tragitto oppure dedicare una visita a parte, il parco fluviale di Castrocaro Terme che si trova a poca distanza da Terra del Sole. Si tratta di una rigogliosa area verde attrezzata che si sviluppa lungo il fiume Montone ed è caratterizzata dalla tipica vegetazione delle golene, costituita da salici, pioppi, acacie, betulle e canne palustri. Costituisce un polmone verde a due passi dall’abitato, regno incontrastato di scoiattoli e ghiri. Il parco, ubicata vicino a quello delle Terme, è percorso da un sinuoso sentiero ciclabile, che si prolunga fino a rasentare le mura della cittadella medicea, attraversando campi e vigneti per circa sette chilometri, si congiunge infine al Parco Urbano “Franco Agosto” di Forlì.
Particolarmente interessanti sono le formazioni vegetali presenti dominate dal pioppo-saliceto arricchite con numerosi elementi floristici alloctoni, i cui semi trasportati dal fiume hanno trovato in queste aree poco disturbate, con terreni freschi e profondi, condizioni ideali per vegetare seppure completamente fuori contesto dal punto di vista vegetazionale. Particolarmente interessante un piccolo faggio, che cresce spontaneamente in territori alto collinari e montani oltre i 700-900 metri sul livello del mare, trovato all’interno del pioppeto a fianco di una palma nana che vive nelle aree più termofile delle zone mediterranee. Gli elementi caratterizzanti del parco sono: i boschi igrofili (oltre 70.000 metri quadrati) e i prati con le aree da pic-nic (10.000 mq).
La progettazione del parco risale al 2005 e fu orientata alla valorizzazione delle dotazioni naturali presenti, evitando interventi invasivi anche nelle aree a maggiore vocazione ricreativa. Le strutture di vegetazione di nuovo impianto, dove previste per motivi paesaggistici e funzionali, riprendono quelle spontanee e presenti nel territorio circostante, come le siepi di sanguinella, biancospino, ligustro e acero campestre o il filare di pioppo bianco. La vegetazione è lasciata ad evoluzione naturale, tranne interventi per ridurre il rischio di incidenti nelle aree più fruite. Particolare attenzione è stata posta nella ricerca di una accessibilità da diversi punti del percorso in modo da rendere il parco facilmente raggiungibile anche da disabili.
Il rientro a Ladino
Oltrepassata la chiusa di Ladino, si arriva dopo un chilometro circa sulla comunale che porta alla cittadella medicea. Per il ritorno a Ladino giunti a questo punto si può voltare a sinistra, attraversare con cautela via Mengozzi (nota come circonvallazione di Castrocaro o S.S. 67), scavalcare lo sbarramento di new jersey e riprendere a sinistra via Ladino che, dopo due chilometri circa, riporta al punto di partenza. Questo ultimo tratto di strada corre parallela a via del Partigiano verso la chiesa di Ladino ed è caratterizzato dalla presenza di 43 maestosi pini marittimi (in origine erano 44, uno è stato abbattuto da un fortunale qualche anno fa).
Ladino negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso
Sono state diverse le segnalazioni che ho ricevuto per integrare questo itinerario. Sono stato anche esortato a riportare alcuni passi del libro “Storia del mio villaggio. Vecchiazzano, Massa e Ladino” di Italo Caprini, Società Editrice Il Ponte Vecchio, Cesena 1999, riferiti proprio a Ladino.
Scrive Camprini, facendo riferimento alla situazione della frazione negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso: “Pressoché tutto è in mano dei Paulucci, che dominano economicamente la frazione, con i contadini legati al padrone dai debiti contratti, resi più pesanti dalla svalutazione della lira nel periodo della cosiddetta “quota novanta” (Quota 90 fu un’espressione – creata da Benito Mussolini – per indicare il progetto di rivalutazione della lira italiana volta a raggiungere il cambio di 90 lire per una sterlina inglese. La proposta fu lanciata durante il Discorso di Pesaro nel 1926 ndr), che impediva loro di aspirare ad altri più redditizi poderi“.
“Ladino non ha un locale pubblico – continua Camprini – tranne la parrocchia, dove due stanzette sono frequentate da qualche anziano e da pochi giovani fedeli al parroco. Non esistono negozi: gli abitanti si servivano di Terra del Sole e molti facevano acquisti a Vecchiazzano da Casadei al ritorno dal mercato di Forlì. (…) Privi di un locale pubblico i giovani andavano a veglia nelle case dove vi erano ragazze da marito. In estate, attraversavano il Montone per raggiungere Villa Rovere o ai recavano a Terra del Sole; specie in inverno frequentavano Massa e Vecchiazzano. Gli anziani andavano di casa in casa a fare quattro chiacchiere o a giocare a carte“.
Poi Camprini parla delle ragazze di Ladino che “erano celebri per la loro bellezza e perciò erano oggetto di una corte numerosa sotto i cipressi del “Calarone” che porta alla chiesa, dove ronzavano non solo i giovani di Vecchiazzano. A quelli di Ladino una così spietata corte alle loro giovinette era ragione di indispettito fastidio, sicché la vigilanza era serrata, né mancava l’invito ai ronzanti calabroni, spesso minaccioso, di andarsene in altro terreno di caccia”. Veramente altri tempi. Oggi è rimasto il “Calarone”, la strada che da via del Partigiano porta alla chiesa di Ladino e sull’incrocio c’è ancora uno degli antichi cipressi, che ha visto tempi migliori, sotto al quale avvenivano i corteggiamenti, e che varrebbe la pena fare di tutto per salvarlo.
Il roverone e la “Siba”
Sempre dal libro di Italo Camprini mi è stato suggerito di riportare quanto scrive a proposito della grande pianta centenaria di rovere, il roverone (“ruvrô), che sorgeva all’inizio della via Braga e pareva posta di guardia alla “Siba” (la selva – il bosco) di Ladino. “L’immensa pianta – sono parole di Camprini – aveva una chioma del diametro di 15-20 metri e nel 1940, alla sua caduta – quando fu abbattuta perché ammalata e aggredita dalle formiche – era ormai prossima ai 150 anni di età. Sotto questa pianta sono passate e si sono fermate migliaia di persone, dal mendicante che si fermava per fare un pisolino al venditore ambulante che si riparava dal sole e dalla pioggia. Era il centro della frazione, unica indicazione certa per darsi convegno. I giovani sceglievano il roverone per muovere insieme di lì per andare a veglia nelle case o nei locali pubblici; lì era il luogo degli incontri d’amore, cui giungevano anche eleganti signore in bicicletta, profumate e ben vestite, per incontrare il loro spasimante e avventurarsi con lui, magari dopo aver raccolto un mazzolino di viole, nelle ombre fresche, protettive e segrete, della Siba“.
Sempre sotto al roverone racconta l’autore “si davano convegno le donne, che muovendo dalle case sparse, si recavano a messa o gli operai che vi convenivano per raggiungere insieme i luoghi di lavoro, o i cacciatori, spavento del popolo degli alberi“.
Per quanto riguarda il bosco di Ladino Camprini ricorda che: “Dava legna da ardere e da lavoro ai contadini della tenuta Paulucci ed era permesso raccogliere la fascina di legna secca rotta dalle intemperie e vento. Nell’ottobre del 1944 l’intera “Siba” fu in grandissima parte abbattuta e la ricchezza del suo legname e delle sue piante asportato. Il terreno fu venduto e bonificato, cancellando per sempre quel vasto nido d’ombra e di incontri. Quanto al roverone, nel luogo in cui signoreggiò sorge oggi una casa di un coltivatore diretto“.
Oggi la selva di Ladino, quella rimasta, quella ricrescita e altri sette ettari con nuovi piantamenti è di proprietà comunale ed è una straordinaria presenza naturalistica del nostro territorio che merita di essere conosciuta e valorizzata.
A conclusione di questo itinerario storico, culturale e naturalistico intendo ringraziare tutti coloro che hanno collaborato: Manuela Asioli, Alessandra Artusi, Gabriele Brunelli, Guido Campoli, Fabio Casadei, Tommaso Di Lauro, Alessandro Donati, Claudio Guidi, Marco Viroli e i tanti che mi hanno fornito consigli.
Il prossimo itinerario che intendo mappare sarà il percorso pedonale e ciclabile “Decio Anzani”, che corre lungo il fiume Montone e un breve tratto del fiume Rabbi dal ponte di Schiavonia a Vecchiazzano.
Gabriele Zelli