Questo articolo ha origine quando, durante la scorsa estate, ho visto due straordinarie piante di fico in via Antonio Masetti. Una, ai lati della rotonda con via Enrico Mattei, probabilmente piantata nell’immediato dopoguerra, è attaccata a una modesta casa non più abitata da decenni e si erge su un fusto di tutto rispetto, con una bella chioma formata da molti rami ricchi di frutti, recentemente potata per far vedere meglio l’edificio che è stato messo in vendita. L’altra si trova dalla parte opposta della strada, ai margini della zona industriale di Coriano, poco distante dalla Tangenziale Est e da una casa colonica della cui corte sicuramente faceva parte; è caratterizzata da un unico ceppo dal quale dipartono numerosi tronchi e decine di rami, anche in questo caso con un’abbondante presenza di fichi, che formano una sola straordinaria chioma.
In questo secondo caso è più difficile stabilire a quando risale la pianta perché in passato potrebbe essere stata tagliata a pari del terreno e quello che vediamo oggi potrebbe essere frutto di una ricrescita spontanea. Sono comunque piante che hanno un valore produttivo, testimoniale e naturalistico.
Da allora mi sono sempre più interessato alla presenza di questa specie di alberature ed ho potuto constatare che proliferano in tutto il territorio comunale e non solo. Non esiste una vera e propria coltivazione di fico, così come avviene per altri frutti, però gli alberi di questa specie sono diffusi un po’ ovunque, tanto che si può sostenere che gran parte delle case della periferia forlivese ne abbia uno, o più, nel proprio recinto, oppure in prossimità. Così come sono molti quelli presenti in aree non coltivate i cui frutti non vengono neppure raccolti.
Le trasformazioni del territorio agricolo nel forlivese
Nel corso degli ultimi anni il territorio agricolo del Comune di Forlì è stato ulteriormente caratterizzato dall’insediamento di due coltivazione intensive di albicocche nella zona attorno a Carpinello e di noci a San Martino in Strada (ultimamente anche nelle zone di San Tomè, San Martino in Villafranca e Villafranca). Un altro mutamento è dovuto alla realizzazione di numerose grandi serre per la coltivazione di piante da orto o per la produzione di sementi a Roncadello, fra Pieveacquedotto e Durazzanino, mentre diverse decine sono in costruzione a Villa Rotta.
Da segnalare inoltre, fra le novità degli ultimi anni, la costituzione di una rete di agricoltori, denominata “Rete Pawlonia”, che ha lo scopo di promuovere la coltivazione della Paulownia, pianta monumentale molto diffusa in Oriente e importata in Europa in un’epoca relativamente vicina. Nell’Ottocento a farla conoscere anche in Italia fu la Compagnia Olandese delle Indie Orientali. La sua diffusione in passato non è mai stata massiccia, nonostante le qualità del suo legno e della sua foglia, mentre da qualche anno a questa parte cominciano ad essere decine gli ettari di terreno che ospitano tali piantagioni anche nel forlivese.
Oltre al mantenimento delle precedenti colture, seppure con minor terreno dedicato ad altre produzioni di frutta, in particolare pesche, il panorama ambientale delle località citate ha assunto una visione completamente diversa e anche le lavorazioni agricole hanno subito modifiche sostanziali. Non è in questo contesto valutare la positività o la negatività di quanto è successo, anche se sarebbe utile su questo tema una valutazione di esperti che possano esprimere un giudizio neutro, non di parte. Quello che interessa in questa sede è richiamare l’attenzione dei forlivesi su questi aspetti di carattere agricolo-naturalistico e nel contempo far presente che altri alberi da frutto sono da conservare, nonché da ammirare, avendo un’età “avanzata” ed essendo dei veri e propri patriarchi.
È il caso dei numerosi fichi che sono disseminati un po’ ovunque, sia in campagna, sia nelle aree artigianali e industriali, in questo secondo caso a testimoniare che in quei luoghi diverse decine di anni fa c’erano famiglie contadine che per soddisfare le loro esigenze alimentari avevano dato spazio anche a questa piantumazione. Alcune di queste piante di fico con i loro fusti hanno raggiunto una dimensione davvero ragguardevole. Ne segnalo alcune essendo impossibile fare un elenco preciso: alcune, piantate negli anni Cinquanta, si trovano in un terreno della famiglia Ciani in via Firenze, fra San Varano e Rovere, una vecchia di oltre cinquant’anni con un tronco della circonferenza di 90 centimetri vegeta ottimamente sul retro dell’abitazione di Giuseppina Fabbri, autrice del libro su San Varano, frazione dove risiede, altre sono in via Pauluzza, in via Monda, sulla Cervese, fra Bagnolo e Carpinello, in via del Santuario, in via Braga, a Grisignano, al Foro Boario, alla Baia del Re, a Barisano, ecc. Spesso hanno chiome imponenti, che in molti casi toccano terra, perché alcune piante non sono state potate da anni essendo site a fianco di case abbandonate, anche se i terreni circostanti sono coltivati.
Le caratteristiche del fico
Dai libri di botanica si possono desumere le caratteristiche del fico, una pianta che “cresce anche in un ambiente arido e vegeta ottimamente alla diretta e forte luce del sole, è longevo e può diventare secolare, anche se è di legno debole e può essere soggetto ad infezioni fatali. Solitamente l’albero ha un fusto corto e ramoso con la corteccia rugosa e di colore grigio-cenerino. Le foglie sono grandi di colore verde scuro e ruvide sulla parte superiore, più chiare sulla parte inferiore.
Dalla consultazione degli stessi volumi si apprende che “quello che comunemente viene ritenuto il frutto è in realtà una grossa infruttescenza carnosa, piriforme, ricca di zuccheri a maturità, detta siconio, di colore variabile dal verde al rossiccio fino al bluastro-violaceo, cava, all’interno della quale sono racchiusi i fiori unisessuali, piccolissimi; una piccola apertura apicale, detta ostiolo, consente l’entrata degli imenotteri pronubi; i veri frutti, che si sviluppano all’interno dell’infiorescenza (che diventa perciò un’infruttescenza), sono numerosissimi piccoli acheni. La polpa che circonda i piccoli acheni è succulenta e dolce, e costituisce la parte edibile”.
Le Regioni italiane maggiormente vocate alla produzione sono la Puglia, che fornisce anche la maggior quantità di fichi secchi, la Campania, la Calabria e in forma minore anche l’Abruzzo, la Sicilia e il Lazio.
Le statistiche indicano un aumento di questa coltivazione in orti domestici, dove anche con scarse cure da applicare all’albero si ha comunque disponibilità di frutti eccellenti per l’immediato consumo.
Il fico nei secoli
La pianta del fico, originaria dell’Asia, fu introdotta nell’area mediterranea in tempi remotissimi e fin da subito i suoi frutti furono destinati al consumo fresco, sia per il prodotto essiccato. I fichi essiccati erano apprezzati da chi, dovendo affrontare lunghi viaggi per mare e per zone non abitate, aveva bisogno di vitamine e di zuccheri che non andassero a male e che si conservassero; pertanto non mancavano mai nelle stive delle navi fenicie, come più tardi in quelle romane. In Israele era piantato in prossimità di vitigni e oliveti, con i quali costituiva il classico panorama agreste.
Nell’antichità il fico era conosciuto anche come rimedio farmacologico contro vari malanni: la cosiddetta ficina è una sostanza estratta dalle sue foglie ed è usata ancora oggi per scopi farmaceutici; ad esempio effettuando impiastri con tale sostanza, come rimedio lenitivo contro le infiammazioni.
Nell’antica Roma, invece, il fico era considerato l’albero sacro a Saturno e si riteneva che fosse portatore di fertilità e di benessere. La leggenda racconta che fu proprio un fico a bloccare la cesta che conteneva Romolo e Remo quando furono gettati nel Tevere ed è per questo motivo che quest’albero rappresenta la fondazione di Roma e i due fratelli vengono raffigurati mentre sono allattati da una lupa sotto tale albero.
Di fatto le popolazioni antiche, dai babilonesi attraverso gli egiziani fino ai romani, non ne hanno solo consumato i frutti ma gli hanno conferito sacralità e potere mistico. Il legno era utilizzato per creare sarcofagi poiché Osiride rinasceva con il fiorire della pianta in primavera.
Nell’Antico Testamento il fico, insieme con la vite, è indicato come simbolo di fertilità e vita gioiosa. Albero e frutto sacro, il fico è l’emblema della vita, della luce, della forza e della conoscenza.
Secondo gli studiosi dei testi sacri l’albero di fico fa parte proprio dei doni della terra promessa, la quale, al contrario del deserto arido e senza frutti, produce fichi e melograni. Insieme all’olivo e alla vite/vigna, è simbolo di abbondanza e di benessere.
Nel primo libro dei Re si narra della prosperità del popolo d’Israele al tempo del re Salomone con l’immagine del fico: “Giuda e Israele erano al sicuro; ognuno stava sotto la propria vite e sotto il proprio fico – da Dan fino a Bersabea – per tutta la vita di Salomone” e nel giorno della salvezza “ogni uomo inviterà il suo vicino sotto la sua vigna e sotto il suo fico”.
Il fico è citato anche nel racconto biblico sulle origini del peccato dell’umanità. Da sempre si tramanda la tradizione sul fatto che Eva nell’Eden, cedendo alla tentazione del serpente, raccolse e offrì ad Adamo il frutto proibito e che fosse una mela. Nella Genesi, però, non è specificato quale sia il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male però sono ben indicate le foglie di fico, in particolare quando si trova scritto: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”.
Nella tradizione rabbinica si paragona la “Legge” a un fico, perché vi si riesce sempre a trovare un frutto pur di cercare fra le foglie ed inoltre “stare sotto il fico”, oltre a essere segno di pace e benessere, indica lo studio sincero della Torah, favorito dall’ombra prodotta dai rami e dalle foglie sotto i quali i rabbini sedevano.
Nella Grecia antica era considerato un albero sacro ad Athena, dea della saggezza, e a Dioniso, dio del vino, e il frutto, al quale sono legati molti miti, veniva considerato altamente erotico. Platone, soprannominato “mangiatore di fichi”, raccomandava agli amici di mangiarne in quantità perché, a suo dire, rinvigoriva l’intelligenza.
Così pure i Romani ritenevano che mangiare fichi “aumentasse la forza dei giovani, migliorasse la salute dei vecchi e che addirittura avesse l’effetto di ridurre le rughe”. Anche la Scuola Medica Salernitana ribadì il convincimento che il fico avesse delle proprietà erotiche. Mentre la medicina popolare considerava i numerosi semini, circa seicento per frutto, un segno della sua attitudine a favorire la fecondità. Alle coppie sterili si consigliava di staccare due foglie da un albero durante la fase di luna crescente e di metterle sotto ai rispettivi cuscini perché si pensava avessero il potere di far arrivare dei figli.
Il fico nell’arte
La studiosa Cristina Mocci, prendendo proprio spunto dal Vecchio testamento, Genesi, capitolo terzo, verso sette, sopracitato dove racconta di Adamo ed Eva sostiene che da quell’episodio “ha inizio la carriera della foglia di fico come emblema della censura nell’arte. La cultura cristiana associa a questa pianta istinti di tentazione, di peccato, imposizione di idee politiche e religiose. L’accanimento della Chiesa non ha risparmiato nessuno dei più grandi artisti ed è iniziato giusto dopo il Concilio di Trento quando si sono delineate delle linee guida per veicolare anche l’arte nel giusto binario delle coscienze cristiane”.
“Nella Cappella Brancacci a Firenze”, sono sempre parole di Cristina Mocci, “i restauri hanno restituito l’originale dipinto della Cacciata del Paradiso di Masaccio. Verso la fine del ‘600 vengono coperte le parti incriminate, più importanti dell’effetto drammatico dell’umiliazione di Adamo ed Eva, scacciati nudi e consapevoli dal Paradiso. Daniele da Volterra poco dopo la morte di Michelangelo ottiene l’incarico di coprire ben 38 figure della Cappella Sistina. Questa particolare operazione di mettere le mutande a dei capolavori gli vale il soprannome di Braghettone e così ce l’ha consegnato la storia. Bernini, che nell’estasi di Santa Teresa a Santa Maria della Vittoria a Roma non si preoccupa di rappresentare la santa in un momento più simile al godimento sessuale che ultraterreno, è vittima della censura nella figura della Carità realizzata per la tomba di Alessandro VII. Esempi ce ne sono altri. Questa è la breve storia della pianta di fico che da simbolo della fertilità, della vita e del passaggio tra quest’ultima e la morte diventa emblema di dittatura morale e ideale, strumento di chi si erge a rappresentante di sapere e moralità”.
Il fico nella cucina romagnola e in quella emiliana
In Romagna sono una vera bontà i fichi caramellati, una “conserva” deliziosa e facile da preparare, un modo per gustare questi squisiti frutti estivi anche nel periodo invernale. Dalle nostre parti in genere si preparano utilizzando i frutti raccolti quando sono ancora ben sodi, che vanno sistemati in una padella con zucchero e scorza di limone e messi a riposare per una notte. Il giorno dopo saranno bolliti in pentola per alcune ore per poi essere sistemati nei vasetti di vetro e conservati in dispensa. Diventano una golosità che conquista! Si possono gustare come merenda, dessert oppure accompagnati dal formaggio: il sapore dolce dei fichi si sposa infatti alla perfezione sia con formaggi morbidi, tipo lo squacquerone, sia con quelli dal sapore più intenso, come il pecorino e accompagnati dalla piadina.
In Emilia è famosa la Torta di Fichi di Albarola, la frazione del Comune di Vigolzone in provincia di Piacenza conosciuta per l’omonimo vitigno, che viene preparata dagli inizi del XVII secolo. Iniziarono dei frati Gesuiti nel loro convento. I monaci avevano trapiantato nel loro erbario alcune piante del frutto importato da uno dei loro viaggi missionari, che si acclimatarono bene producendo frutti in quantità. La produzione era così copiosa che cominciarono a far seccare o a cuocere nel forno i frutti per conservarli anche dopo la raccolta, usandoli anche per fare questa torta la cui ricetta fu messa a punto da una delle cuoche del convento alla fine del Seicento. Da allora sono nate due versioni della torta di fichi di Albarola: la prima consiste in una crostata di fichi adagiati su un letto di pasta al limone, la seconda in un guscio ripieno di fichi che fanno da farcitura. Il dolce ha ottenuto la Denominazione Comunale nel 2006.
Proverbi e modi di dire con soggetto il fico
Maurizio Matteini Palmerini nel saggio “Botanica popolare romagnola (3a parte). Erbe, fiori, frutti e piante nelle credenze, nei modi di dire e nei proverbi della tradizione popolare”, pubblicato sul Quaderno di Studi e Notizie di Storia Naturale della Romagna del giugno 2017, riporta molte informazioni sulla Romagna e la coltivazione dei fichi, compreso detti e proverbi in vernacolo. Lo studioso scrive com’è noto “i veri frutti del fico si sviluppano all’interno dei ricettacoli dove vi sono numerosissimi piccoli acheni (i cosiddetti semini) incastonati nella polpa dolcissima e, direi, deliziosa che costituisce la parte commestibile. I contadini probabilmente non lo sapevano, ma ci erano andati vicino, come racconta il proverbio”:
E’ fig di fiur un in vo fê,
da e’ bachet e vo cariê;
e’ fig di fiur un in fa,
da e’ bachet e cariarà.
Il fico non vuole fare i fiori,
vuole creare dal ramo;
il fico dei fiori non ne fa,
creerà dal ramo nudo.
“Esistono più di 150 varietà di fichi (bianchi, marroni, viola, verdi e neri)”, si legge nel saggio di Matteini Palmerini; “in Romagna si ricordano: i figh bianchèl, bruşùr, dla codasèca, da la gäzla, ‘d San Pir, lazri, mataloun o mataloun ‘d S. Pietre, parmadezz, ravgnèn e i figh varden.
Il fico, in modo particolare quando lo si stacca acerbo, emette dal peduncolo un lattice bianco che viene utilizzato dalla medicina popolare: per mandare via i porri, ad esempio, occorre bagnarli con “e’ lat de fig” per tre mattine di seguito, a digiuno, in modo che diventeranno molli e si staccheranno da soli. Invece i bugni ciechi devono essere sfregati ripetutamente preferendo, quando possibile, il lattice di quello rosso. Anche il dolore provocato dalla puntura di un’ape o di una vespa sembra si attenui bagnando la parte colpita con il lattice che fuoriesce dal peduncolo… in questo caso però pare sia meglio il lattice che sgorga dal penduncolo delle foglie.
A proposito di dolore, una malattia, la “pedaìna”, era detta “e’ mêl de fig” (il male del fico); colpisce gli ovini e i bovini fra gli unghielli che per il dolore non riescono a camminare e spesso non riescono perfino a raggiungere la mangiatoia”.
“Il fico è un albero dal tronco corto, robusto e ramoso, spesso contorto”, sono sempre parole di Matteini Palmerini, “non è ritenuto pregiato neppure come legna da ardere, infatti se fresca brucia malissimo e fa un gran fumo, se stagionata invece brucia velocemente, ha un potere calorico basso perché non è molto compatta. L’unico motivo per bruciarla è quello di liberarsene. Alcuni proverbi consigliano di bruciarlo quando viene a trovarci un “amico”, molto probabilmente per il fatto che, solitamente, finita la legna sistemata nel camino la compagnia si scioglie e si va a letto e in campagna era meglio presto che tardi. Eccone alcuni: “fugh ‘d figh, tènal pr’ un amigh” (fuoco di fico, tienilo per un amico); “a scalder un amighu i vo de mel, de per e de figh” (per scaldare un amico occorre del melo, del pero e del fico – tutta legna che brucia velocemente); “s’ t’ vu grighê l’amìgh, cherna ad vaca e legna ‘d fig” (se vuoi invitare l’amico, dagli carne di mucca, essendo quella di maiale ritenuta più pregiata, e legno di fico; “s’ t’ vu inganê’ un amig, dàj de môr e de fig” (se vuoi ingannare un amico, dagli del moro – gelso – e del fico”.
Nel testo di Matteini Palmerini sono riportati altri proverbi e modi di dire che riporto di seguito. Se in aprile però non piove si crede che i fichi non potranno nascere e maturare:
se d’abril u ‘n piovrà
puch figh us magnarà
e’ figh us vo bagnè
parchè us possa criê.
Se d’aprile non pioverà
pochi fichi si mangeranno
il fico si vuole bagnare
perché possa nascere.
Par san Pir i fig int e’ panir.
Per San Pietro (29 giugno) i fichi nel paniere.
D’ setembar i figh i cmenza a pèndar.
A settembre i fichi cominciano a pendere (cioè sono maturi).
Quând che e’ sgond fig us è maturè, nench l’uva l’an po’ sbagliè.
Quando il secondo fico è maturato, anche l’uva non può sbagliare.
Per i contadini il rapporto con gli amici, ma anche con i parenti sembra difficile… quando poi i fichi sono maturi:
quând ch’ l’è e’ mamént di fig,
e’ cuntadén u n’ cnós né parént, né amig.
Quando è la stagione dei fichi,
il contadino non conosce né parenti, né amici.
Modi di dire:
– un se selva gnenca un fig per è patron (non si salva neppure un fico per il padrone) rubano tutto;
– in fig instéc (come i fichi secchi in collana) dicesi di cose senza spazio, addossate l’una sull’altra;
– e’ i sta giost in fig instéc (come i fichi secchi in collana) ci sta a malapena, a fatica;
– dè i säld in fig e in stéc (dare i soldi in fichi e in stecchi) vuol dire dare i soldi (per lo più restituirli), pochi per volta e di malavoglia: secondo alcuni perché i fichi e gli stecchi erano cose di infimo ordine, secondo altri perché i fichi secchi, infilati in appositi stecchi, venivano consumati, in quei tempi di miseria, con parsimonia, ad uno ad uno;
– no valer un figh (non valere un fico) cioè valere pochissimo, meno di quanto può valere un fico;
– salvê la panza pr i figh (salvare la pancia per i fichi) ovvero mangiare poco all’inizio di un pasto… riservandosi per le ultime portate, ma anche voler procurare di vivere più lungamente che sia possibile, usando ogni diligenza di non esporsi al minimo pericolo;
– al lod d’i amìgh an conta un figh (le lodi degli amici non contano un fico);
– fè cum j antig: i magneva la boza e i buteva via i fig (fare come gli antichi: mangiavano la buccia e buttavano via i fichi) cioè fare cose insensate;
– a sen nênca da che per e da che fig, dal’uimèn de sgnor Aldvigh (Siamo ancora da quel pero e da quel fico, dal piccolo olmo del signor Lodovico) per dire che non si è ancora concluso nulla;
– fig e aqua (fichi e acqua) per dire di due cose che non vanno bene insieme;
– no’ stimê un fighséch (non stimare un fico secco) non aver alcuna stima.
Per concludere vale la pena ricordarne altri due riportati da Libero Ercolani (1914 – 1997) nel libro “4500 modi di dire e 280 indovinelli in dialetto romagnolo”, Grafiche Marzocchi Editrice:
Setèmbar: uva e fig; la panza la s’ tira e e’ cul e’ rid (Settembre: uva e fichi; la pancia si tende – per le scorpacciate – e il sedere ride. Si va di corpo senza difficoltà.
Eli deti o eli ciàcar, che i fig i n’ s’ha da sbàtar (sono detti o sono chiacchiere, che i fighi non si devono sbattere? Il ramo non va scosso per farli cadere, ma vanno raccolti con la “canna ladra”, che è una canna in cima alla quale è messo un barattolo, con il bordo seghettato per renderlo più tagliente, al cui interno viene raccolto il fico dopo averne reciso il gambo con un abile colpetto).
Gabriele Zelli