I salici piangenti di Carpena

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Diverse persone, dopo aver letto l’articolo “Il filare di salici da vimini di Villafranca di Forlì”, mi hanno rimproverato perché in quel testo non ho riportato notizie sui salici piangenti. Non l’ho fatto perché mi riservavo di trattare nuovamente l’argomento su un nuovo testo dedicato alle piante caratteristiche, come mi accingo a fare avendo nel frattempo rintracciato molte altre notizie di carattere storico e letterario sui salici. Di quello che viene definito “piangente” perché i rami cadono tutti verso il basso si può dire che si tratta di una delle diverse specie di salici e di una pianta non caratteristica del nostro territorio, presente però in diversi giardini delle abitazioni forlivesi con esemplari molto belli, alcuni anche molto vecchi a Poggio, San Martino in Strada, Pievequinta, Villanova, Borgo Sisa, Fornò, Magliano, Roncadello, nei quartieri Musicisti e Grandi Italiani, Resistenza, ecc. In questo contesto prenderò però in considerazione, per le loro particolarità, due salici piangenti presenti a margine del centro abitato di Carpena e lo farò anche grazie alla collaborazione di Luciano Ravaioli che ha ricostruito la storia di queste piante che sono abbastanza giovani essendo state “messe a dimora” in epoca recente nel punto in cui la pista ciclabile che fiancheggia la via Bidente confluisce nella parte finale della via Brando Brandi, da due famiglie ivi residenti, una è quella dello stesso Ravaioli e l’altra è la famiglia Cola.
L’epoca è estate-autunno del 2005, al termine dei lavori di “messa in sicurezza” della Via Bidente nel tratto che va da Carpena fino alla località Para – racconta Luciano Ravaioliquando le famiglie citate, in accordo col cantoniere che dirigeva i lavori, piantarono i due salici che oggi svettano maestosi. Le due piante hanno quindi la stessa età anche se quello posto lato Meldola, appare più alto e robusto, pur avendo avuto entrambi la stessa amorevole cura. Misteri della natura! 
A questo proposito anche l’aiuola lì vicino è abbellita con piantine e fiori, curata e innaffiata dalle due famiglie residenti. Non solo, ultimamente, sotto uno dei due salici, è stata posta anche una panchina, opportunamente ancorata al terreno, con la dedica “Alle mamme”, a ristoro, appunto, delle mamme che passeggiano lungo la pista spesso con bambini al seguito o “in dolce attesa”. Possono ovviamente usufruirne anche i papà“.

La pista ciclabile è un bell’esempio di opera pubblica – sono sempre parole di Ravaioli – progettata interamente dall’Amministrazione Provinciale con l’ingegner Edgardo Valpiani, allora direttore dei lavori. È corredata da una siepe di sempreverdi alternati con Forsithia e con impianto di irrigazione a goccia. L’opera, appaltata ad una ditta di Modena, fu terminata anticipatamente rispetto alla scadenza; non solo ma, a lavori terminati, essendosi realizzato una economia rispetto al preventivo, il locale Comitato di Quartiere si attivò per completarla con un tunnel che permettesse l’attraversamento della Bidentina in tutta sicurezza. Ci si può così inoltrare nella zona interna di Magliano in via Maglianella, fino a raggiungere la locale Chiesa di Magliano e proseguire poi fino ai Meandri del fiume Ronco“.

La speranza è che la pista ciclabile possa essere completata nelle due direzioni – conclude Ravaioli – da una parte fino a Meldola e, dall’altra, lungo la via Decio Raggi, fino al cimitero di Bussecchio che, proprio in questi giorni, è in costruzione. È quasi terminato il tratto che dal cimitero porta alla via Campo di Marte-Campo degli Svizzeri“.
Se questa è la breve storia delle due piante di Carpena, il salice in generale trova molto spazio nell’arte e nella letteratura, che qui riporto in aggiunta a ciò che ho scritto nel precedente articolo.
Secondo l’enciclopedia Treccani il salice piangente (S. babylonica), originario delle regioni subtropicali asiatiche, e così chiamato per i suoi rami caratteristici, molto lunghi e pendenti, è largamente coltivato nei giardini e nei parchi. Il legno, bianco, fine, è adatto per sedie, botti, e per farne un carbone particolarmente utilizzato nella fabbricazione della polvere da sparo; la corteccia dei rami giovani, che in commercio si trova essiccata e ridotta in strisce flessibili e tenaci, di sapore amaro astringente, contenente salicina e tannino, è dotata di azione antireumatica, antitermica e astringente.

Gesù e il salice

Occorre dire che del periodo del catechismo uno dei racconti che maggiormente mi è rimasto impresso è quello della salita di Gesù verso il Calvario, portando sulle spalle la pesante croce. Non so se oggi questo episodio viene ancora proposto ai giovanissimi che si avviano ai sacramenti della cresima e della comunione. Sta di fatto che l’immagine del “sangue e del sudore che scendono a rigare il volto coronato di spine” con a fianco la Madre che cammina, insieme ad altre pie donne” è una di quelle che maggiormente colpiscono la fantasia di tutti noi. Se poi si aggiungono altri particolari come gli uccelli che al passaggio della processione si rifugiano, impauriti, tra i rami degli alberi, la rovinosa caduta al suolo di Gesù e i due soldati, che armati di frusta, si gettano su di Lui e allontanano la Madre che tenta di rialzarlo urlando: “Su, muoviti! E tu, donna, stàttene da parte”, ci sono proprio tutti gli elementi perché la narrazione rimanga nella mente in modo indelebile. Tanto che quando alcuni mesi fa ho pensato di scrivere un testo sui salici piangenti la prima cosa che ho pensato è che quando Gesù tentò di rialzarsi, ma la croce troppo pesante glielo impedì, siccome era caduto ai piedi di un salice cercò inutilmente di aggrapparsi al tronco. L’albero a quel punto, in segno di pietà, lasciò cadere fino a terra i suoi rami lunghi e sottili perché potesse, afferrandosi ad essi, rialzarsi con minor fatica. Quando Gesù riprese il faticoso cammino, l’albero rimase coi rami pendenti verso terra: perciò fu chiamato Salice Piangente e rappresentò da quel momento simbolo di dolore e lacrime per il mondo cristiano.

Il salice: miti e leggende

Dalla consultazione di documenti e libri di botanica si apprende che nella tradizione celtica il culto del salice era molto sentito, tanto che nel calendario veniva considerato il quinto albero dell’anno (periodo che andava dal 12 aprile al 15 maggio cioè le Calendimaggio). I druidi celebravano i sacri riti ponendo le offerte in ceste costruite con il legno flessuoso di questa pianta, così pure per realizzare gli strumenti musicali che utilizzavano per incantare il popolo con suadenti melodie.

In Lituania il culto del salice come simbolo di fecondità – secondo la studiosa Daniela Bazzani – è perdurato sino ad un centinaio di anni fa. Secondo la leggenda la dea Blinda (Ecate poi Atena per i Greci) era così feconda da poter partorire da ogni parte del corpo. La Madre Terra, invidiosa della sua capacità, mentre Blinda camminava in un prato paludoso le imprigionò i piedi e la trasformò in un salice. Per questo le contadine lituane usavano fare offerte floreali alla Dea Madre per richiedere il dono della maternità cingendo di corone i grandi salici, tradizione pagana che è continuata sino ai primi anni del XIX secolo“.
Nella mitologia greca si narra che Zeus fu allevato da due nutrici, Elice e Amaltea, sul monte Ida, dove la madre Rea lo aveva nascosto affinchè il padre Cronos non lo divorasse. La sua culla venne appesa ad un salice e Amaltea lo allattava camuffandosi da capra (da qui Salix caprea della famiglia delle Salicaceae).
Alcuni popoli antichi ritenevano che la pianta fosse collegata al mondo dei morti e all’aldilà per la capacità che i rami spezzati hanno di rigenerarsi facilmente.

Il salice era ritenuto un albero propiziatore di pioggia dagli Ebrei e venerato dal popolo del deserto come tutto ciò che è legato all’acqua. Non a caso per ricordare la traversata del deserto dei loro padri, gli Ebrei scelsero il salice piangente come simbolo (da qui il nome Salix babylonica, anche se la pianta in realtà ha origine cinese).
Tremila anni fa le popolazioni della Mesopotamia usavano curare le malattie reumatiche e la febbre con il salice, visto che la pianta viveva con i piedi nell’acqua senza trarne danni. Non a caso la salicina, individuata nell’albero dalla biochimica moderna, è alle base di prodotti farmaceutici come antinfiammatori, antipiretici e antireumatici.

Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), in qualità di naturalista, sostenne che il salice calmava i “bollenti spiriti”; anche in questo caso qualità confermata dalle capacità sedative dei prodotti che si ricavano dalla pianta. Secondo gli studiosi questa ipotesi fu formulata originariamente nell’osservare il fenomeno dei frutti del salice che cadono prima della completa maturazione; da questo la persuasione che la pianta “uccidesse” i propri figli.
In oriente invece il salice ricopre simbologie positive, rappresenta l’immortalità, la spiritualità e l’eternità tanto che il suo legno viene utilizzato per l’architettura sacra.

Le sculture di salice di Trevor Leat

L’artista inglese Trevor Leat è conosciuto, fra l’altro, perché realizza le figure a grandezza naturale che vengono bruciate in modo spettacolare durante festival ed eventi come il Wickerman Festival, l’Edinburgh Hogmanay Celebrations e il Burns Light Festival a Dumfries. Leat è uno dei principali creatori di sculture di salice della Gran Bretagna e non solo. Utilizzando tecniche tradizionali che combinano bellezza e funzionalità, lavora il salice con grande effetto da oltre 30 anni. Nonostante realizzi cesti, mobili da giardino e perfino bare di tale materiale, è unanimemente riconosciuto per le sue sculture intrecciate. Risiede e opera nel sud della Scozia; le sue realizzazioni sono esposte in diverse gallerie e viste da decine di migliaia di persone in festival ed eventi in tutto il Regno Unito e oltre.

Alle fronde dei salici

La pianta del salice, non viene specificato il tipo, è citata nella poesia del 1945 “Alle fronde dei salici” di Salvatore Quasimodo, pubblicata nel volume “Giorno dopo giorno”. I versi vogliono essere la rappresentazione degli orrori commessi dai nazifascisti sulla popolazione inerme degli italiani, massacri che suscitavano panico, paura e terrore fra i civili mentre i poeti erano ridotti all’impotenza. Questo il testo: “E come potevano noi cantare / Con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo? / Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste vento”.

L’esordio della lirica di Quasimodo “E come potevano noi cantare” riprende il verso del Salmo 137 della Bibbia riferito agli ebrei che si rifiutarono di cantare le loro lodi a Dio in terra straniera. Poi il poeta attacca scrivendo “Con il piede straniero sopra il cuore”, che è una chiara allusione all’occupazione nazista dell’Italia dal 1943 al 1945, costellata di brutali rappresaglie, oppressiva fino a schiacciare le ragioni più profonde dell’esistenza. Quindi prosegue facendo riferimento al fatto che le SS proibivano di seppellire subito i morti delle loro rappresaglie, affinché i cadaveri fossero di monito alla popolazione: “Fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio”, e aggiunge “al lamento d’agnello dei fanciulli”, cioè tra le grida dei bambini deportati, separati dai genitori e avviati come agnelli innocenti ai campi di concentramento, nonché “All’urlo nero disumano della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo?” che si trovava di fronte il figlio partigiano crocifisso come Gesù.

Quasimodo chiude la poesia con un altro richiamo al Salmo biblico che dice: “Lungo i fiumi di Babilonia sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre”, mentre lui scrive: “Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento”.
In sostanza, dice Quasimodo, i nazisti nel 1943 avevano occupato il Paese e i poeti non trovavano le parole per esprimere lo sconforto e il dolore che avevano nel cuore e nell’anima. Tanto dolore paralizzava la mano e offuscava la mente. I poeti erano ridotti all’impotenza, avevano finito di scrivere versi e avevano appeso i lori fogli puliti al vento della guerra perché la poesia è impotente di fronte ai morti e alla barbarie.

Il salice è citato nelle loro opere e scritti da letterati, poeti, drammaturghi e giornalisti. Riporto ad esempio un testo geniale di Gianni Brera (1919-1992), giornalista e scrittore, dove scrive del calciatore argentino Diego Maradona, morto di recente. Queste le parole di Brera: “Che Maradona fosse un genio, nessun dubbio è possibile. E che i geni siano un tantino squinternati di cerebro è risaputo e ammesso da sempre. Ma perché rimediando compagni di follia a Maradona si cita anche Borg, autentico manovale del tennis? Vedendolo, non mi ha mai stupito per un’invenzione degna di questo nome. Egli maneggiava la racchetta come avrei potuto io la roncola, andando a potare salici nel bosco ceduo al mio paese. Maradona ridava dignità inventiva e gestuale anche alle mani posteriori, divenute volgarissimi piedi da qualche milione di anni“.

La “Canestra di frutta” di Caravaggio

Una straordinaria cesta di vimini intrecciato, definita con precisione, la troviamo nell’opera “La Canestra di frutta”,,un olio su tela, 49 x 62 cm. conservato a Milano, presso la Pinacoteca Ambrosiana, dipinto da Caravaggio in età giovanile fra il 1594-1598.
L’opera mostra al centro la canestra piena di frutta di vario genere. Alcuni grappoli di uva bianca e di uva nera sporgono verso il basso. Si vedono poi alcune pere, una mela bacata, fichi e, infine, una pesca. Le foglie ancora attaccate ai rametti sono secche e bucate da insetti. Inoltre, lo sfondo è privo di dettagli e ricorda una parete intonacata. Infine, la canestra è posata su di un piano di legno che corre parallelo allo sguardo dell’osservatore.
Secondo alcuni critici d’arte in questo caso la natura morta è assunta a soggetto protagonista, tanto quanto lo sarebbe stato un eroe della mitologia in un quadro di storia. Il canestro sporge impercettibilmente in avanti nel suo “tangibile realismo tridimensionale (che si contrappone allo sfondo bidimensionale), come fosse in una situazione precaria, creando un colpo d’occhio che attrae lo spettatore moderno nell’immediato: questa tendenza, così come la presentazione di frutti bacati o intaccati dalle malattie, simboleggia la ‘vanitas’ dell’esistenza umana, ovvero il richiamo alla caducità della vita, un bene effimero destinato a svanire nel tempo“.

I salici di Claude Monet

Nel 1883 il celebre pittore impressionista Claude Monet (1846 – 1926) si trasferì da Parigi in una modesta casa colonica presso Giverny, poco distante dalla capitale francese, dove ebbe l’opportunità di realizzare un giardino nel quale furono piantate emerocalle, iris sbircia, iris di Virginia, agapanti, bulbi, alberi di salice e molte altre specie. Non solo, venne scavato anche un piccolo bacino fluviale colmo di ninfee, piante ornamentali che galleggiano sull’acqua rigenerandosi senza sosta, attraversabile con l’ausilio di un piccolo ponte di legno in stile giapponese che univa gli argini ed è ancora esistente. Tutta l’area è circondata da un vero e proprio tripudio floreale di rose, iris, tulipani, campanule, gladioli, glicini e i salici piangenti erano alcune delle tante specie vegetali che ancor oggi fanno da cornice allo stagno in cui si trovano ninfee e giochi d’acqua. Fino alla morte l’artista ritrasse ogni angolo di quanto aveva realizzato distinguendosi per la rappresentazione della sua immediata percezione dei soggetti, in modo particolare per quanto riguarda il paesaggio e la pittura all’aria aperta. In diverse opere furono ritratti anche i salici.

Sull’opera “I due salici” di Monet, composizione formata da 4 pannelli lunghi ciascuno più di 4 metri, la scrittrice Melania Mazzucco (1966) annota: “Gli alberi inquadrano lo spazio come colonne. Ma Monet rifiuta la prepotenza della linea retta: i tronchi si curvano, armoniosamente. Le foglie e le ninfee nello stagno sembrano vaporizzate, e hanno la stessa brumosa inconsistenza delle nuvole che si specchiano nell’acqua. Il riflesso instabile non è meno reale dell’oggetto. E non si sa chi rifletta cosa. La tonalità dominante è fredda, rosa-malva-blu, perché è l’ora dell’alba. L’immagine fantasmatica e sfumata si legge meglio da lontano. Da vicino la materia pittorica è così spessa e granulosa da diventare indecifrabile. Proust osservò che Monet era riuscito a dipingere il nulla. Non ciò che si vede, poiché non si vede niente, ma il fatto stesso di non vedere. L’indeterminato genera bellezza: è una vecchia regola del sublime estetico”.

C’è un salice che cresce storto sul ruscello…

Nella tragedia “Amleto”, che William Shakespeare compose tra il 1600 e il 1602, Ofelia, uno dei principali personaggi femminili, riveste il ruolo di vittima degli eventi: delusa da un amore per Amleto che crede non puro, veritiero e disinteressato (Amleto rinnegherà i sentimenti per lei per non coinvolgerla nelle meschine trame dello zio Claudio, usurpatore del trono di Danimarca) e divenuta folle per l’assassinio del padre a opera dello stesso Amleto, terminerà la sua esistenza affogando in un corso d’acqua, scatenando l’odio e la vendetta da parte del fratello Laerte, che tenterà di uccidere Amleto.

Nell’atto IV scena VII di Amleto così Shakespeare fa descrivere a Laerte da Geltrude l’affogamento di Ofelia: “C’è un salice che cresce storto sul ruscello e specchia le sue foglie canute nella vitrea corrente; laggiù lei [Ofelia] intrecciava ghirlande fantastiche di ranuncoli, di ortiche, di margherite, e lunghi fiori color porpora cui i pastori sboccati danno un nome più indecente, ma che le nostre illibate fanciulle chiamano dita di morto. Lì, sui rami pendenti mentre s’arrampicava per appendere le sue coroncine, un ramoscello maligno si spezzò, e giù caddero i suoi verdi trofei e lei stessa nel piangente ruscello.
Le sue vesti si gonfiarono, e come una sirena per un poco la sorressero, mentre cantava brani di canzoni antiche, come una ignara del suo stesso rischio, o come una creatura nata e formata per quell’elemento. Ma non poté durare a lungo, finché le sue vesti, pesanti dal loro imbeversi, trassero la povera infelice dalle sue melodie alla morte fangosa“.

I salici fruscianti di Arthur Rimbaud

Al personaggio shakespeariano di Ofelia si sono ispirati poeti, romanzieri e cantanti. Arthur Rimbaud (1854 – 1891) conclude la poesia ” Ophélie” con questi versi: “Il vento le bacia il seno e distende a corolla / I suoi grandi veli, teneramente cullati dalle acque; / I salici fruscianti piangono sulla sua spalla, /Sulla sua grande fronte sognante s’inclinano i fuscelli”. Così Francesco Guccini (1940) in “Ophelia”, brano del 1970, immagina la giovane che va incontro alla morte: “Quando la sera colora di stanco dorato tramonto le torri di guardia / La piccola Ophelia vestita di bianco va incontro alla notte dolcissima e scalza / Nelle sue mani ghirlande di fiori e nei suoi capelli riflessi di sogni / Nei suoi pensieri mille colori di vita e di morte, di veglia e di sonno”.

Gabriele Zelli

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