Scendendo la vallata, dopo Rocca San Casciano si incontra Dovadola, paese segnato dal corso sinuoso del fiume Montone, che un tempo attraversava il centro abitato in due punti, tanto da giustificare il riferimento al latino “Duo vadora”, ossia due guadi, da cui nasce il toponimo Dovadola. Successivamente i punti in cui il fiume taglia il paese sono diventati tre. Dovadola è una località di origini antichissime come dimostrano le significative persistenze archeologiche documentate di epoca etrusca, celtica e romana.
Con ogni probabilità il primo nucleo della rocca che sovrasta il paese fu edificato dai longobardi tra il VII e VIII secolo. L’attuale assetto urbano si è poi sviluppato ai piedi del castello che diventerà dei conti Guidi, sorto su una rupe emergente dal fondovalle, pregevole esempio di architettura militare medievale, che ha rappresentato il nucleo di un sistema difensivo assai più vasto, comprendente diverse fortificazioni sparse per il territorio, quali Castel Ruggero, Montacuto, San Ruffillo, San Martino in Avello, oltre alla torre delle Colombaie e delle Casacce.
La rocca, alta trenta metri (quarantasette dal livello stradale), svetta sull’abitato di Dovadola. Appartenne agli arcivescovi di Ravenna, agli abati di San Mercuriale di Forlì, ai monaci di San Benedetto in Alpe e, infine, ai conti Guidi di Modigliana che, col suo possesso, diedero vita al ramo dei Guidi da Dovadola. Nel 1351 venne conquistata dalle truppe di Cia degli Ubaldini (1317-1381), moglie di Francesco Ordelaffi (1300-1374), signore di Forlì, per poi essere riconquistata sette anni dopo dai Guidi.
A Marcovaldo Guidi (1185-1229), valoroso capitano e capostipite della famiglia a cui si deve il momento di maggior importanza storica del borgo, va attribuita la fortificazione del castello che fu munito di cinta, bastioni, ponti levatoi e di un palazzo a uso abitativo. Sui bordi della strada, che serviva da accesso alla fortificazione, si è sviluppata la cosiddetta “murata”, una serie di costruzioni a uso di abitazione e non solo, tanto che fino al termine del Secondo conflitto mondiale vi era in funzione un asilo, come testimonia ancora oggi una scritta posta sulla facciata dello stabile che lo ospitava. Nel Settecento fu ricostruito l’Oratorio di Sant’Antonio e San Gennaro, di probabile origine medievale, realizzato nell’ultima versione in forme barocche, che conserva diverse opere del pittore forlivese Giacomo Zampa (1731-1808).
Per accedere alla “murata”, l’attuale via Tartagni Marvelli, si passa sotto al voltone della Torre dell’Orologio, sulla quale spicca l’immagine in rilievo del giglio fiorentino, emblema che fa parte anche del gonfalone civico.
Presso i conti Guidi trovò rifugio l’esule Dante Alighieri. Guido Salvatico che lo ospitò e i suoi antenati sono ricordati più volte con gratitudine nella “Divina Commedia”. Com’è noto, non solo dopo le condanne a morte del 1302 che gli preclusero il rientro a Firenze, ma anche nel 1306, Dante fu costretto a vivere in esilio, alla ricerca di ospitalità e di protezione soprattutto riparando in montagna. A tal proposito Boccaccio afferma che il Sommo Poeta soggiornò “quanto col conte Salvatico in Casentino, quanto col marchese Morruello Malespina in Lumigiana, quanto con quelli della Faggiuola ne’ monti vicini ad Orbino”.
Il conte Guido Salvatico, già anziano all’epoca, fu da sempre vicino alla causa guelfa e coinvolto nelle dispute fra le città italiane, essendo stato più volte podestà di Prato e di Siena, nonché capitano d’armi al soldo dei Comuni di Bologna e di Firenze.
Era sicuramente conosciuto da Dante e non fu di ostacolo alla loro amicizia il fatto che in quel periodo Guido Salvatico fosse strettamente legato al regime dei Neri che governava il capoluogo toscano, tanto che partecipò alla difesa della città al tempo dell’assedio di Enrico VII (1275-1313). Siamo nel periodo in cui Dante si rese conto che non vi sarebbe stata possibilità militare di sovvertire l’amministrazione di Firenze. Perciò egli andò a cercare la protezione di quei nobili e influenti personaggi della montagna, amici della Firenze che parteggiava per la parte dei guelfi neri, che avrebbero potuto aiutarlo a ottenere un eventuale lasciapassare per il ritorno in patria.
Al tramonto dei Guidi, Dovadola passò direttamente sotto il dominio della Repubblica Fiorentina, condividendone la storia fino al 1923, anno in cui il suo territorio fu annesso alla provincia di Forlì che si ingrandì via via mediante l’acquisizione dei dodici Comuni del circondario di Rocca San Casciano, parte della cosiddetta Romagna toscana, facenti già parte della provincia di Firenze. L’operazione, già caldeggiata da diversi sindaci, specie di orientamento socialista, negli anni precedenti alla presa del potere da parte di Benito Mussolini (1883-1945), ebbe un valore propagandistico, in quanto permetteva di collocare all’interno della provincia di Forlì le sorgenti del Tevere, il fiume di Roma. In questo modo veniva valorizzato nell’immaginario il percorso politico di Mussolini, che si presentava alla guida del Paese, come l’ultimo degli antichi romani, dalla Romagna a Roma, come il Tevere.
Dagli anni ’80 del secolo scorso la rocca è di proprietà del Comune di Dovadola. Pur essendo l’esempio meglio conservato di fortificazione dei conti Guidi in Romagna non è ancora accessibile al pubblico, seppur da una ventina d’anni siano iniziati complessi e costosi lavori di consolidamento e di restauro, particolarmente accurati, che stanno restituendo al monumento, nelle parti finite, tutto il suo antico fascino (foto di Dervis Castellucci). Purtroppo i lavori procedono a stralci successivi senza una continuità di finanziamenti statali e regionali, tanto che sono più lunghi i periodi in cui il cantiere è fermo rispetto a quelli in cui è in attività.
La Rubrica “Fatti e misfatti di Forlì e della Romagna” è a cura di Gabriele Zelli e Marco Viroli