In Corso Mazzini, già Borgo S. Pietro, circa a metà dello stesso, si vede, sulla destra guardando la porta, una chiesa arretrata rispetto alla linea della strada. La sua facciata è grezza, a mattoni scoperti e priva di rivestimenti architettonici. Al centro un’unica porta sovrastata da un ampio finestrone arcuato nella parte superiore, ma è la decorazione del portale ciò che colpisce. È un ornamento di rara bellezza scolpito in marmo bianco di Istria, commissionato il 1° gennaio 1464 per la porta maggiore della Cattedrale di Forlì e terminato il 31 marzo 1465. Perché è finito proprio qui?
Nel 1841 per la ristrutturazione del Duomo a causa di gravi problemi di staticità, il portale viene smontato e portato prima nel cortile del Palazzo degli Studi poi riposto nei sotterranei dove rimane, mancante di vari pezzi e chiaramente manomesso, fino al 1915 (quindi ben 74 anni di oblio!). Questo fatto ci ricorda un avvenimento simile avvenuto molti anni dopo e che riguarda il monumento a G.B. Morgagni rimasto per ben 56 anni (1875-1931) nel cortile dello stesso palazzo, prima di trovare una sua definitiva sistemazione.
Così l’antico portale diventa la decorazione del portone del Carmine.
L’opera è dello scultore veneto Marino di Marco Cedrini, scultore nomade che, da una città all’altra di Romagna e Marche, svolge una consistente attività. Così si firma nel fregio dell’architrave:
MARINUS CITRINUS VENETUS CONSTRUXIT PRID. KL. APRILIS ANNO I PONTIFICATUS PAVLI PP II MCCCCLXIIIII e cioè il 31 marzo 1465.
Vogliamo vedere con maggior cura le linee artistiche del fregio? Cerchiamo di farlo. L’architrave e gli stipiti laterali sono lavorati a più linee di rilievo. Gli stipiti laterali sono due festoni mutili nella parte inferiore, in quella superiore, invece, terminano con due mensole a foglia d’acanto che sorreggono la trabeazione sulla quale poggia tutta la lunetta. L’esterno di questa si presenta con cornici rotondeggianti, mentre nella parte più interna una infinita dentellatura e sempre più all’interno, tutta la curvatura è decorata con 54 dischi sagomati all’esterno e al loro centro un foro pure sagomato, dentro il quale passa un elemento che sembra unirli tutti. Nella parte centrale sono scolpiti cavallo e cavaliere.
Ai lati vi sono quattro statue che poggiano su rosoni a volute e rappresentano i protettori di Forlì. A sinistra in alto si riconosce S.Mercuriale e in basso, qualcuno dice il beato Salomoni, ma, a mio parere, non può esserlo, perché rispetto a tutti gli altri appare anacronistico (è del 1200) e in più il beato portava una lunga barba che qui non esiste. Per rispettare i termini temporali dati dalla presenza di Mercuriale, questi personaggi devono essere più o meno dello stesso tempo (II o III secolo d. C.). Così sotto il primo vescovo di Forlì, secondo noi, non può esserci che il suo diacono Grato che assieme al suddiacono Marcello partecipa, come riportato da tutte le cronache, all’uccisione del mitico drago.
S.Mercuriale è rappresentato con abito e copricapo talare ed un manto drappeggiante. La mano destra chiusa a pugno, in un gesto non certo benedicente. Il Diacono Grato, è vestito con una lunga tunica con ampie maniche e al collo forse un cappuccio raccolto, sopra una tunica più corta. Le braccia sono lungo il corpo e sorreggono un grande tomo borchiato come la fascia di chiusura. Un libro importante, dunque (sono le Sacre Scritture?). A destra in alto, per noi, c’è Marcello il suddiacono con vesti anche queste ampie e doppie senza cappuccio. Il braccio destro lungo il corpo, mentre il sinistro è piegato e tiene nella mano forse un mattone, forse una pietra (rappresenta forse la costruzione di una nuova chiesa? Da S. Stefano a S.Mercuriale?). La figura mostra una cesura all’altezza del collo che fa supporre che la testa fosse stata staccata. Infatti dall’archivio di Antonio Santarelli, Ispettore agli scavi e ai monumenti di Forlì, risulta il ritrovamento di una testa di marmo appartenente ad una statua dell’antico portale, in un podere di proprietà di Vittorio Fussi in quel di Coriano.
Abbiamo poi l’ultima figura, quella femminile, che rappresenta S. Elena, la madre di Costantino il Grande, famosa per aver trovato la vera Croce di Gesù e chiodi della sua crocefissione.
Il figlio Costantino con uno di questi ne fece il morso del suo cavallo e un altro fu posto nella corona ferrea (Monza).
La statua è con un’ampia veste drappeggiata lunga fino ai piedi e una cintura sui fianchi. Il tronco è leggermente piegato alla sua sinistra e sul capo reclinato a destra con sopra un manto.
Mancano le mani. Nel braccio destro si nota il foro che doveva servire di sostegno, la sinistra forse è coperta dal manto.
Tutti questi personaggi sono all’incirca dello stesso periodo II° – III° secolo d.C. come risulta dall’analisi con il carbonio 14 sui resti di S.Mercuriale (2019).
Il Beato Salomoni appare quindi anacronistico rispetto a questo antico tempo.
Teniamo presente questo fatto perché il cavaliere che anche nella didascalia posta davanti alla chiesa viene definito S. Valeriano, per noi non può esserlo.
Chi rappresenta questo cavaliere?
Due le ipotesi: Cecco Ordelaffi o S.Valeriano?
Cecco o Checco III Ordelaffi è Signore di Forlì fino al 1466, quando viene ucciso da una congiura con a capo il fratello Pino III. Quindi nel 1465 data di completamento dell’opera, il Signore di Forlì è Cecco III. Lo stemma Ordelaffi, che non si vede più, (perché è stato cancellato?) era scolpito nel portale al centro in alto fra le due spirali laterali e sotto i rami di palma. Così come è sulla base del sarcofago di Barbara Manfredi del 1466 o sotto il portico comunale nel capitello n° 13 da destra.
Da Antonio I Ordelaffi al potere dal 1433 al 1448, nascono Cecco III e Pino III anche se questi numeri non corrispondono all’albero genealogico, ma così chiamati dagli storici. Cecco nasce nel 1435 e Pino nel 1436. Il primo muore nel 1466 a 31 anni, il secondo nel 1480 a 44 anni.
Dopo la morte del padre: …siando i nostre signore romaxe senza la buona memoria del signore suo padre, corsero la piacca, non como putte (hanno 13 e 14 anni), ma como de più anne, avessero aibuto praticha e molto piaque a quigli pochi antiani ch’erano e cittadini ch’erano in Forlì… ( Pedrino). La città è quasi deserta per un’epidemia di peste. Tutti o quasi, sono fuggiti. Così gli Ordelaffi. I due giovani sono a Forlimpopoli e vi ritornano subito dopo il rito della presa della città ( tre giri di corsa a cavallo della piazza gridando il nome del Signore). La madre Caterina Rangoni di Spilamberto presso Modena alla morte di Antonio regge il governo della Signoria quale tutrice dei figli minori fino al 1454. Donna fiera, spietata e tremenda. Assieme al fratello Ugo, chiamato ad aiutarla nella reggenza, esercitano un potere assoluto basato sulla violenza e crudeltà.
Gli Ordelaffi come tutti i tirannelli di Romagna sono ostinati e terribili, espertissimi uomini d’arme (diventare capitano di truppe mercenarie per questi personaggi è un mezzo per conquistare fama e onori e anche….ricchezze), ma mai veri uomini di stato. A complicare ancora di più la situazione familiare ed anche politica, le mogli dei due fratelli, le sorelle Manfredi di Faenza. Isabetta moglie di Cecco e Barbara moglie di Pino. Ambedue ambiziose e crudeli, bramose di regnare. Un odio profondo le divide e da congiura in congiura, da veleno in veleno, si giunge all’assassinio di Cecco e alla morte di Barbara nel 1466, alla quale segue nel 1467, sempre per veleno, quella di Caterina Rangoni.
Dopo il suo matrimonio con Elisabetta Manfredi il 25 gennaio 1456 Cecco si interessa della sua città. Così si occupa, oltre che delle mura della città, anche della ricostruzione della Chiesa di S. Croce, ordinandone l’ornato della porta maggiore a Marino Citrino di Venezia.
Nel 1464/65 fu costruito questo portale come si legge nella Cronaca di Giovanni di Mastro Pedrino: …la porta de Santa Croxe (fu eseguita) al tempo del magnifico signore miser Cecho e Pino degl’Ordelaffi e magnifica Madonna sua madre, madonna Catalina…la porta doveva essere … de marmora ciò prede istriane e veronese… che die essere fatta segondo una forma che ‘l m° gl’à fatta scorpita o veramente segondo uno disegno che lue gle mostrò in carta…
Sì, miser Cecho e Pino, però il titolo “magnifico signore” è al singolare e da non dimenticare che Cecco è il primogenito (quindi il titolo a chi spetterà?). Pedrino nomina anche la loro madre, quindi tutti quelli della famiglia Ordelaffi.
Questo per quanto riguarda il portale.
Vogliamo anche però chiudere la vicenda di Cecco. Nel 1465 gli avversari di Cecco, il fratello Pino, Barbara sua cognata con altri notabili forlivesi, organizzano una congiura che segnerà la fine di Cecco. Il 22 aprile 1466, Cecco, ammalato, e già prigioniero nella Torre dell’Orologio, viene ucciso dai congiurati stanchi del tergiversare di Pino (sempre indeciso sul da farsi). Aveva 31 anni. Il suo corpo viene sepolto nella tomba degli Ordelaffi in S.Francesco Grande.
Di lui si è parlato come di un personaggio dal carattere forte e risoluto, soldato valoroso e rispettato, temuto ed anche ammirato. Mancava di tatto politico e così si fece nemica la famiglia. Una questione chiusa tragicamente, così come succederà a Barbara (22 anni) sempre nel 1466, avvelenata da Pino e a Caterina Rangoni anche lei avvelenata l’anno dopo.
Di questi due fratelli non esistono raffigurazioni, se non il busto, si dice, raffigurante Pino III, attribuito a Francesco di Simone Ferrucci, lo stesso del monumento funebre a Barbara Manfredi. La recente storiografia forlivese (fra gli altri, Giuliano Missirini) solleva dubbi sulla reale identificazione con Pino III. La salute cagionevole ne aveva fatto un uomo malaticcio con un carattere debole e portato all’indecisione. Come è possibile quell’espressione virile e di forza che appare nel busto? I tratti maturi del guerriero fanno pensare più al fratello Cecco.
Facciamo ora un’analisi della rappresentazione del cavaliere e vediamo se vi sono somiglianze fra questo e i monumenti equestri dell’epoca. Sono tre e precisamente:
Giovanni Acuto di Paolo Uccello datato 1436, Erasmo da Narni detto Gattamelata di Donatello del 1446, Bartolomeo Colleoni del Verrocchio forse del 1480.
Cominciando dalla cavalcatura si nota che sono tutte di grande stazza con una zampa anteriore, destra o sinistra alzata, la bardatura è presente in Giovanni Acuto e nel Colleoni. Le code sono libere, invece annodata è nel Gattamelata. Le selle sono leggere in Acuto e Gattamelata imponente nel Colleoni. In tutti abbiamo staffe lunghe che non caricano il peso del corpo. Le redini sono in tutti ampie e drappeggiate e sono rette con la sinistra, mentre la destra alzata impugna il bastone del comando. Che punti di contatto troviamo fra questi famosi personaggi e il Nostro? Diversi. La cavalcatura scolpita da Marino Citrino appare come un castrone massiccio, ma come tale docile e obbediente, non è un cavallo da battaglia. È più da parata. La bardatura è simile quelle dell’Acuto e del Colleoni. Le redini sono ampie e drappeggiate, le staffe sono lunghe come pure gli speroni, la coda è annodata (Gattamelata). La sella è leggera con staffatura lunga. La figura che lo monta e che noi ancora oggi vediamo è elegantemente vestita con doppia tunica. Una arriva alle cosce, l’altra ai fianchi, in più un piccolo mantello sulle spalle. La mano sinistra regge le redini, la destra è alzata e chiusa a pugno come in tutti gli altri che abbiamo descritto, ma non regge il bastone del comando (?). Il tronco è leggermente inclinato all’indietro come la testa che è incorniciata da capelli lunghi e riccioluti, ed è rivolta verso sinistra. Guarda degli ipotetici spettatori e mostra un’espressione seria, forse sprezzante e minacciosa. Attorno al capo scolpita sul fondo una specie di aureola e 4 fori che un tempo sorreggevano… non si sa cosa…
Dunque questo cavaliere è un perfetto esempio di un cavaliere del 1400, non vestito come il Colleoni o il Gattamelata in tenuta da battaglia, ma al contrario con vesti eleganti da vero Signore rinascimentale come lo era Cecco Ordelaffi. Noi pensiamo, in base a tutto quello che abbiamo cercato e descritto, che il personaggio della lunetta sia proprio lui Cecco o Checco III Ordelaffi!
Non dobbiamo però dimenticare che per tantissimo tempo si è creduto che fosse Sant’Aureliano, Patrono di Forlì. Parliamo quindi di lui.
Ecco S.Valeriano
Come abbiamo più sopra citato Mastro Pedrino a proposito dell’ordinazione del portale con gli Ordelaffi ora passiamo ad Alessandro Padovani che così scrive:
…l’anno 1464 il Vescovo Giacomo Menghi insieme con il suo Capitolo pattuirono con M. Marino Veneziano di fare la porta maggiore del Duomo, …per ducati 262 e lui metteria tutti li sassi et ogni altra materia… e che il Vescovo e il Capitolo facessero a sue spese condurre i marmi da Ravenna e gli dassero una casa per poter lavorare li detti marmi con camera da letto per dormirvi e questo accordo fu fatto il primo gennaro….
Quindi abbiamo già due citazioni diverse. La prima che a volere il portale sia Cecco o tutti e due i fratelli Ordelaffi. In questa invece è chiaramente attribuito il tutto al Vescovo Giacomo Menghi.
Ma entriamo nei dettagli di S. Valeriano, così come abbiamo fatto per Cecco Ordelaffi.
Scrive Paolo Bonoli…verso la metà del secolo V l’Impero romano, sottoposto a continue invasioni barbariche, aveva in Costantinopoli come Imperatore d’Oriente Leone primo il Trace….era il tempo in cui ….maggiormente fioriva in santità il glorioso Valeriano nativo di questa patria (Forlì). Benché di poca età, passando fra le rigidezze d’un eremo la vita, era famoso per le sue capacità di liberare gli oppressi dal demonio. Avutane notizia, Leone primo colà invitollo per liberare o un suo nipote o forse suo figlio. Valeriano, entrato nelle grazie dell’imperatore, divenne un capitano contro gli eretici ed infedeli. Non poche furono le sue prodezze soprattutto contro Genserico… Molti altri onori conseguì Valeriano dall’imperatore… (meriti militari che vedremo nella rappresentazione che proporremo), onde alcuni credettero che fosse di quelle parti d’oriente. Ritornato in patria fu fatto capo di una squadra di uomini destinati alla custodia della città per le continue incursioni e ruberie. Governatore di Forlì era un goto, divenuto cittadino in Italia, Leo Bachio, di natura crudele e della setta perfidissima d’Arrio. Opponendosi Valeriano ai suoi soprusi, lo irritò talmente, anche perché l’uno cattolico, l’altro ariano, che radunati molti dei suoi seguaci lo fece prendere con i suoi compagni in numero di ottanta mentre all’orazione si ritrovavano intenti che più tosto un’adunanza di religiosi pareva, che di soldati. E tutti (senza combattere! eppure erano soldati e la cosa ci sorprende, per cui noi crediamo che dovesse esserci stato uno scontro armato vinto dagli uomini del Goto e dopo, solo dopo, le violenze e le decapitazioni) dopo vari tormenti, massime nella persona di Valeriano li fece decapitare il giorno quattro di maggio (anno 460)… fu veduto (dopo la morte) in occasione di assedio custodire le mura coi compagni armato, massime al tempo dei Longobardi… Quindi per tanti beneficii fu dalla città tra i protettori eletto e nel sigillo del Comune il Santo è a cavallo con lo scudo in braccio ed entrovi la croce, l’aquila sull’elmo, nello stendardello della lancia la parola libertas…
Questa la storia (vera?) di Valeriano. Da quel tempo fra il popolo iniziò un culto in suo onore e la Chiesa, soprattutto quella di S.Croce, cioè il Duomo, se ne appropriò per una assurda competizione con l’Abbazia di S.Mercuriale che innalzava sul suo stendardo il primo protettore della città e cioè S.Mercuriale. Così anche il Duomo ebbe il suo Protettore. Poi dal 1428… nacque il culto della Madonna del Fuoco.
In una faccia del poligono che costituisce la base del fonte battesimale della Cattedrale dove è presente anche S.Mercuriale e il drago, c’è anche questa formella datata 1504 attribuita al Maestro delle Madonne di Marmo nella quale, anche senza il nome, è facile vedervi rappresentato S.Valeriano.
Ecco la sua descrizione. È un giovane con i capelli lunghi e lisci con al collo un torque, decorazione dell’esercito romano assegnata a chi si era distinto in battaglia. Abbiamo il tronco coperto da una lorica musculata con quattro phalere, decorazioni date a chi aveva ucciso cavalieri nemici, oggi sarebbero vere e proprie medaglie al valore. Dalla cintura in giù una lorica squamata sotto la quale, fino quasi alle ginocchia, due ordini di strisce una più corta e una più lunga senz’altro di cuoio. Mancano cingulum e apron, mancano gli schinieri, manca il gladio. Rispetto alla armatura tipica del legionario romano classico vi sono le braccia coperte da una armatura con i gomiti snodati, così come le ginocchia, anche le calzature non sono più le caligae romane. Vi sono quindi elementi che anticipano le armature premedioevali. Nella formella del fonte, a sinistra della figura c’è in alto uno scudo crociato e con sopra la data MDIIII, in basso uno scudo da battaglia sempre con la croce su cui appoggia la mano sinistra. Con la mano destra il personaggio sostiene un’asta (forse la lancia) con una banderuola a strisce, sotto un’immagine che sembra un cuore. Questo l’insieme della figura. Teniamo presente questa descrizione perché ci servirà per un confronto con quella che abbiamo fatto del cavaliere misterioso. Il personaggio rappresentato dal Maestro delle Madonne di Marmo è un miles romanus giovanissimo e sorridente che vive e muore in piena decadenza imperiale. Manca poco più di un decennio e l’impero romano d’occidente sparirà. Allora come può essere il famoso cavaliere elegante con espressione non certo sorridente, ma seria e cupa? Fra il S. Valeriano (460 d.C.) che abbiamo descritto e il cavaliere (1465) ci sono mille anni di differenza. Non sono pochi!
Dobbiamo anche ricordare che nel 1967 S.Valeriano fu cancellato dal calendario diocesano per decisione della Congregazione dei riti a causa delle incertezze sulla sua reale identità. Pertanto S.Valeriano (degradato) ridiventò Valeriano miles romanus. Rimane nella memoria l’8 novembre con la Commemorazione di tutti i Santi della Chiesa di Forlì e Bertinoro.
Non sappiamo se quanto abbiamo descritto possa essere di risoluzione al dilemma Cecco-Valeriano.
Noi chiaramente pensiamo di sì. Qualcuno che sa più di noi è pregato di intervenire.
Agostino Bernucci