La cronaca di questi giorni consegna l’idea di una Romagna molto attiva nell’accogliere i profughi ucraini. L’attitudine a non tirarsi indietro nell’aiutare chi ha bisogno è considerato un dato del carattere romagnolo che rende orgogliosi. Lo dimostra la storia. Se si concentra lo sguardo sull’ultimo secolo – allargando la soglia fino ad abbracciare gli sfollati dalle terre friulane e venete dopo la rotta di Caporetto nel 1917 – troviamo porte aperte a migliaia di persone. Così come avvenne anche, dall’estate del 1945, per gli esuli del 2° Corpo d’Armata Polacco. Avevano appena finito di versare il sangue per liberare l’Italia dal nazifascismo che la maggior parte di quelle circa centomila persone, tra soldati e aggregati, fu costretta a optare per l’esilio, tra Romagna, Marche e basso Lazio.
La decisione di non far ritorno alle terre d’origine – per quei polacchi che nel 1939 avevano vissuto il doppio incubo dell’invasione nazista e sovietica – risiedeva nel rifiuto di accettare quanto stabilito a Yalta e cioè che la Polonia sarebbe stata consegnata al controllo dell’Unione Sovietica. Nel tempo furono numerose le partenze verso altri Paesi – Inghilterra, Canada, Argentina, Australia… – ma una consistente comunità rimase in Romagna per sempre. Nell’immediato dopoguerra giunsero pure esuli dall’Istria e dalla Dalmazia, forzati nel dover abbandonare le loro case dalle logiche del regime comunista di Tito.
Contrariamente ad altre zone d’Italia, in Romagna fu loro garantita fraterna accoglienza, come ricordava il compianto Arpad Bressanello che fu tra i primi ad arrivare. In misura numericamente ridotta, ma con valore percentuale di rilievo nel panorama italiano, le nostre città accolsero tanti esuli dal Cile, cacciati e perseguitati dalla dittatura fascista di Pinochet. Il calendario segnava gli anni 1973, ’74, ’75. A differenza degli sfollati di Caporetto, che fecero ritorno a casa dopo circa un anno, per polacchi, istriano-dalmati e cileni il permanere delle cause scatenanti portò l’esilio a diventare permanente.
Torniamo all’oggi.
Lo sguardo alla storia ci dice che se l’invasione ordinata da Putin determinasse la fine della sovranità nazionale ucraina o la creazione di un governo filorusso (come all’epoca delle zone d’influenza filo-occidentali e filosovietiche), è chiaro che il destino degli esuli ucraini sarà quello dell’esilio. E’ quindi necessario che oltre all’accoglienza e all’assistenza immediate prosegua un impegno capillare e corale incentrato sulla necessità di risolvere i problemi scatenanti. Nessun logica di potere politico e nessuna tigre (con o senza campanello, ragionando sulla metafora cinese) può umiliare i valori universali dei diritti dei popoli e dell’umanità. Nel terzo millennio dobbiamo esserne consapevoli.
Mario Proli