Giafì, all’anagrafe Giuseppe Lombardi, aveva un negozio di carni davanti all’asilo di Santa Rosa, a Predappio. Aveva anche un po’ di terra a Santa Lucia, la Molinaccia e il Mulino, e soprattutto tre figlie: Gaetana “Tina”, Bruna e Rosanna. Aveva avuto anche due mogli: Rosa Tassinari, la prima, ed Eleonora “Norina” Laghi la seconda, mia nonna, nella cui carta d’identitè nello spazio della firma c’era scritto “analfabeta”.
La foto in bianco e nero lo ritrae col grembiule da lavoro, quasi sorpreso di trovarsi davanti a uno con la macchina fotografica. È un’immagine antica che risale agli anni Cinquanta del secolo scorso, visto che morì, decisamente più anziano nel 1969. Era scampato al macello della Grande guerra per colpa (colpa?) di un’ernia inguinale e alla chiamata nel 1940 risultava troppo vecchio. Non era stato risparmiato però dalla fatica e dalla sofferenza che, su questa terra, non risparmia nessuno.
Di questa foto non è rimasto più nulla: il negozio, il palazzo e anche lo stesso Giafì. Se il cambiamento è il motore della storia, la provvisorietà è la regola base della condizione umana. Per questo già gli antichi, i Greci e i Romani, assegnavano valore e potere alla memoria. La memoria è forza di resistenza, di riconoscenza e di sopravvivenza all’oblio. Così anche la foto di un uomo col grembiule, comparsa inaspettatamente nell’ultimo sabato pomeriggio di questo brutto inverno, aiuta a cercare un senso.
Mario Proli