In questi giorni ho scoperto una caratteristica molto piacevole della vecchia “rubinera”, che era stata dei miei nonni e poi di mia zia Tina. Ne ricordavo gli spini, a volte conficcati nel palmo delle mani, le foglie ovali, d’un verde splendente, e i bei fiori a grappolo. Di quei fiori però non avevo mai assaporato il profumo. Me ne sono accorto a 54 anni ed è stata un’esperienza imprevista. Ho impiegato un po’ di tempo a collegare quel profumo fresco e dolce alla “rubinera”. La povera e bistrattata “rubinera”, tra le ultime nella gerarchia contadina delle piante, buona certo per consolidare la scarpata nell’ansa del fiume, vista la tenacia e la grinta con cui si riproduce e sopravvive. Ma che non fa frutti.
E dire che la presenza di tante api avrebbe dovuto rappresentarmi qualcosa anche prima di oggi. Ma le api ronzano tanto in primavera. Oggi, ad esempio, ne ho viste a decine anche tra i boccoli rosati dell’ippocastano. Mi sono fermato, ho cercato di annusare ma alla prova olfattiva non restituivano granché. Anche il castagno matto non vantava ranghi di pregio nelle campagne d’un tempo. Sembrava il parente inutile della grande famiglia produttrice di “marroni”, l’oro della montagna. Non per tutti, però, era così. Nella credenza popolare fatta di empirismo e superstizione, l’ippocastano sa ancora oggi di poter giocare un’altra carta apprezzata (oltre ai fiori e all’ombra) a fine estate quando cadranno i ricci dagli aculei gommosi e dai loro ventri lacerati sgusceranno i “maroni dei reumatismi”, da portare nella tasca dei pantaloni durante i mesi freddi. Anche in tutte e due le tasche!
Mario Proli