Sono tornato nel passato ed ho rintracciato un personaggio che oggi nessuno conosce. Eppure il suo nome è sempre presente qui a Forlì. E’ scolpito nel marmo nella via più importante della città e cioè Corso della Repubblica.
Voglio parlare del Conte Palatino Domenico Matteucci. Eccolo a voi:
Domenico Matteucci, Conte Palatino (un faccendiere? un benefattore?)
Le date della sua nascita e della sua morte sono incerte. Per Filippo Guarini sono 1762 -1833, per il Comune 1765-1838, per l’USL 1765-1835. Per me l’unica certa è quella della morte 1835, perché scolpita sul suo sepolcro.
Questo lo stemma della famiglia Matteucci. Così lo descrive G.B.Crollalanza: campo d’oro, il braccio di carnagione tiene un grappolo d’uva fogliato al naturale; al capo d’azzurro caricato di tre gigli d’oro ordinati in fascia. Papa Leone XII il 14/4/1824 la insignì del titolo di Conte Palatino. Precisamente dedicandolo al medico Antonio, scomparso nel 1816, a suo fratello Domenico e ai loro discendenti.
Forlì della seconda metà del 1700, prima metà del 1800 vive un lungo momento di sconvolgimenti politici ed anche sociali. Dall’occupazione francese ai continui mutamenti di regimi napoleonici (Repubblica Cispadana, Cisalpina, Italiana, Regno d’Italia), alla Restaurazione e quindi il ritorno allo status quo ante, con le Legazioni pontificie. Questa città che dentro le mura conta dai 10.000 ai 12.000 abitanti vive momenti del tutto particolari a cominciare da una maturazione di carattere politico ( l’esperienza fondamentale è essere stata capitale del Dipartimento del Rubicone) e a cambiamenti importanti per quanto riguarda edilizia, l’arte e la struttura sociale. L’economia della città non è che si modifichi granché. Ugualmente ci colpisce la presenza di alcuni personaggi che oggi chiameremmo faccendieri che si arricchiscono a dismisura grazie a particolari opportunità. Una di queste è la vendita dei beni ecclesiastici operata dai vari regimi napoleonici, vendite delle quali ad esempio ne approfitta tale Luigi Belli. Quello che esiste oggi in p.zza Cavour è opera sua, avendo comprato tutto il complesso del già Convento e Chiesa di S.Francesco Grande. In più la chiesa di S.Biagio, la vera, non S.Girolamo in S.Biagio. Lo stesso Belli fu acquirente anche della Chiesa di sant’Antonio da Padova, ossia di Sant’Antonio Nuovo, e del Monastero di Santa Chiara. E chissà quanti altri! Non solo, viene anche incaricato, una sciocchezzuola (!), di incorniciare la lettera di Pio VII indirizzata a: Dilecto filio nobili Antonio Gaddi.
Poi abbiamo il nostro personaggio Domenico Matteucci che fa parte di questa schiera di affaristi e compra, per quanto ne sappiamo, la Chiesa di S. Febronia con annesso convento che sorgeva in C.so. Garibaldi verso porta Schiavonia e la Chiesa di S. Elisabetta sempre con annesso convento, stesso lato di S.Lucia, in C.so della Repubblica verso la porta. Tutte queste si trasformano con il suo intervento in abitazioni. Diventa ricchissimo e in seguito vedremo le sue azioni che dimostreranno la sua potenza economica. Poi abbiamo anche Luigi Matteucci. Anche di lui non abbiamo notizia delle sue vicende personali che lo portano ad esempio alla metà del 1800 ad aver una sua banca personale e assieme a lui suo figlio Augusto (1805- 1891) che sarà un personaggio di primo piano nella vita politica, sarà sindaco, ed economica della città: Cassa dei Risparmi, Camera di commercio.
Preciso che i due Matteucci Domenico e Luigi pur chiamandosi con lo stesso cognome non sono imparentati. Domenico è fratello del famoso medico Antonio, che come abbiamo visto beneficia con la sua famiglia del titolo di Conte Palatino.
Tutto questo come ambientazione di quello che ci apprestiamo a scrivere.
La famiglia di Domenico Matteucci
Il Conte DOMENICO MATTEUCCI nasce a Forli’, (forse) nel 1762 o 65 e muore a Forli’ nel 1833 o 35 o 38, sposa in prime nozze Nicolosa Manni che scompare nel 1826 e in seconde, ma non è dato sapere esattamente quando, la Contessa LUIGIA o LUISA LOVATELLI nata a Ravenna (?) e morta a Firenze il 27/6/1873. Senza dubbio questo secondo matrimonio viene celebrato sempre nel 1826. Infatti l’unica figlia, Maddalena, nasce il 14 agosto 1827 e scompare a Firenze il 17/5/1904 all’età di 77 anni,
Maddalena sposa nel 1845 il Conte Giovanni Guarini, letterato e senatore, nato a Forlì il 6/7/1826 e morto all’età a 63 anni il 7/11/1889. Figli:
1- Pio nato il 31/08/1846 e morto a Firenze il 4/5/1917;
2- Domenico nato il 16/4/1848, che sposa nel 1872 la marchesa Luisa Pepoli, figlia di Gioacchino e di S.A. la principessa Federica Hohenzollern Sigmaringen. Scompare il 6/3/1905 nel palazzo Guarini Matteucci in via C. Sforza n.5.
Normalmente si parla di 4 figli della coppia Matteucci-Guarini. I nomi non sempre coincidono, io ho scelto questi due perché lasciano un significativo segno della loro presenza. Pio perché dedica a Luisa Lovatelli, sua nonna, una stele funeraria scolpita da Ambrogio Celi nel 1876, Domenico perché imparenta la famiglia Guarini con quella del Kaiser.
Fra Domenico e Luigia una notevole differenza d’età. Infatti lei scompare 38 anni dopo di lui. Non solo, suo nipote Pio scrive nel suo monumento funebre di cui sopra….che vedova nel fiore degli anni prima si dedicò tutta alla sua unigenita indi alla famiglia di lei….
Ecco una curiosità! In un vecchio piccolo libro dell’inizio del 900 intitolato “Vecchia Provincia”, Antonio Beltramelli descrive oltre alla Forlì di quel tempo anche alcuni personaggi fra cui uno in particolare giunge a proposito…..”la vecchia principessa Hoenzollern Sigmaringen Pepoli (suppongo la suocera di Domenico Matteucci), voce baritonale con il suo scorretto italiano semitonale era celebre in tutta Forlì. Verso sera si vedeva attraversare Forlì un vecchio cocchio con a cassetta un servitore in livrea, rigido, con una gran tuba e dentro il cocchio attraverso gli sportelli, oltre le tendine semicalate, si intravvedeva la figura della principessa più che anziana accompagnata da una dama di compagnia alla quale non rivolgeva mai la parola… e per ravvivare il racconto, Beltramelli, la fa anche parlare:
– Ooooh Asunte! Quante io foler fare, sempre poter fare.”
Ma qual era e dove era il Palazzo di Domenico Matteucci? Alla fine del 1700 inizio 1800, Domenico acquista il Palazzo Orsi nell’attuale Corso Garibaldi. Questo enorme palazzo inizia poco dopo quello dell’Antica Spezieria (Marchesa Corbizzi) fino all’angolo di Via Giorgina Saffi, allora S.Filippo, dove ne occupa gran parte. La parte anteriore dell’edificio, che si affaccia su Corso Garibaldi, in stile tipicamente neoclassico è contraddistinta da un piccolo frontone con timpano triangolare al centro della facciata. Il portico è ornato da otto archi. Venne soprannominato Palazzo Guarini-Matteucci, in verità avrebbe dovuto chiamarsi Matteucci Guarini perché erede e quindi proprietaria del palazzo era Maddalena che diventa anche Guarini dopo il matrimonio (1845) con il conte Giovanni, che nel 1855 fece realizzare la facciata di Via Giorgina Saffi nelle forme attuali, su disegno del famoso Giulio Zambianchi. In questo palazzo oltre alle famiglie Guarini e all’anziana principessa tedesca, più tardi, sarà ospite anche la famosissima Ebe di Canova.
Qualche parola anche sulla villa Matteucci in campagna, chiamata Villa Maddalena in quel di Carpinello. Nel suo parco, “e’zarden dla Maciòza” in dialetto, il famoso platanus orientalis, albero entrato a far parte dell’elenco degli Alberi Monumentali d’Italia. Successivamente la villa ha cambiato nome in Villa Orsi-Mangelli o Villa Giselda in onore della moglie del conte. La villa per le vicende belliche non esiste più, il platano sì, e fa bella mostra di sé lungo la Cervese.
Ma procediamo…..
….…..Passeggio in un giorno qualsiasi, di un mese qualsiasi, lungo Corso della Repubblica.
Mi trovo sullo stretto marciapiede di sinistra che va verso Porta Cotogni, già Porta Pia.
Osservo quello che mi circonda e cioè i vari palazzi che segnano l’asse rettilineo del Corso.
Sulla mia destra di fronte a Via Cignani ecco il palazzo della famiglia Santarelli. Famiglia famosa con l’architetto-ingegnere Giacomo il padre, e i suoi figli Apelle, Apollodoro, Antonio (segretario comunale, sovrintendente ai beni culturali) e non dimentichiamo lo sfortunato Giuseppe. Poco più avanti sulla mia sinistra la chiesa di S. Giacomo in Strada detta Santa Lucia. Una facciata imponente e quasi prorompente sul Corso. Per questa nel periodo fra gli anni 30 e 40 del XIX secolo fu studiato un intervento per consolidare la mole del frontone sovrapposto alla facciata della chiesa dato che non era collegato ed assicurato con ferramenti e inoltre privo di coperture di zinco o piombo per impedire le infiltrazioni di acqua o gelo nell’inverno. Nel luglio 1844 la Commissione Comunale approva l’intervento. La spesa sarebbe stata affrontata dalla figlia di Luisa Lovatelli Matteucci, Maddalena, che ne aveva già assunto l’impegno nell’ottobre 1843 per la somma risultante dalla perizia dell’Architetto Pani. Questo per la sicurezza statica. Esisteva anche il problema della gradinata, mostruosa, dice l’allora parroco, sporgente sulla strada, che saliva al piano della chiesa, e creava problemi. Verrà modificata.
Guardando il fronte dell’ingresso appare chiaramente sull’architrave una grande scritta che lo occupa tutto.
A sinistra lo stemma episcopale e a destra lo stemma della famiglia Matteucci. Fra i due la seguente scritta:
Domenico Matteucci, conte in Forlì, avendo cura degli artisti
(grazie) all’ottimo andamento del mercato
questa facciata, decorata con l’opera di Giuseppe Pani, fu completata a proprie spese
e dedicata a Giovanni Folicaldio delegato della provincia
fautore delle buone arti – 1829 –
Dallo stesso marciapiede distogliendo lo sguardo dalla chiesa e guardando a destra incontro la grande struttura del cosiddetto Palazzo Merenda. Nell’angolo che guarda via Laziosi in alto una nicchia con la statua della Carità dei fratelli Graziani di Faenza. La lapide è opera dello scultore Giovanni Marchesi su disegno del Prof. Emilio Rosetti di Forlì, 1’epigrafe fu dettata dall’ Avv. Comm. Antonio Santarelli. Nella grande lapide questa scritta:
Perché la sollecitudine degli avi verso gli infermi i derelitti i poveri abbia culto di Pubblica Riconoscenza e con la virtù dell’esempio fruttifichi ed ammonisca
LA CONGREGAZIONE DI CARITÀ’
DECRETÒ QUESTO RICORDO – MCMIV –
segue su quattro colonne l’elenco dei benemeriti donatori.
Nella prima colonna al numero 12 c’è il nome del Conte Domenico Matteucci – 1827 -.
Il Palazzo Merenda porta il nome del suo progettista l’Architetto Giuseppe Merenda. L’edificio fu eretto nel 1722 su suo disegno. Per la nuova facciata nel 1827, il conte Domenico Matteucci volle essere un benemerito del pio stabilimento e del pubblico ornato e spese oltre 3.000 scudi.
Così leggiamo sul fronte dell’entrata principale:
Portato a termine con il denaro del Conte Domenico Matteucci forlivese
dedicato al vescovo Filippo de Angelis visitatore apostolico
con l’opera di Giuseppe Pani – 1827 –
Ma abbandoniamo queste testimonianze indelebili perché scolpite sul marmo e cerchiamo di approfondire le vicende biografiche e non di Domenico Matteucci.
Nasce, come abbiamo già detto, forse, nel 1765. Filippo Guarini nella sua opera sulle genealogie della nobiltà forlivese, scrive 1762, e la morte 1833.
Al contrario scolpita nel marmo del suo imponente monumento funebre, opera di Gaetano Lombardini, scultore santarcangiolese allievo di Antonio Canova, è scritto 1835.
In questa stele funeraria, con la firma di Lombardini senza data, sul lato destro della base, l’artista vi rappresenta con la tecnica della scultura ad alto rilievo sulla superficie liscia del fondo la visita pietosa al monumento dell’estinto.
Nell’epigrafe è scritto:
Al conte Domenico Matteucci forlivese
Maddalena da Aloisia Lovatelli (sua) moglie contessa, figlia unica ed erede anno -1835
F (fecit, vixit). AN MDCCCXXXV C.V. (clarissimus vir)
Quando i gesti generosi e benevoli dell’uomo verso i familiari sono mancati
ricorda piangendo i discendenti con il capo reclinato sul sepolcro bisognoso del custode alato del cielo (dove) entra e con moderati lamenti celesti ora fruisce del dono della pace.
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Le figure scolpite sono tre: da sinistra un vecchio stanco della vita, poi una giovane inginocchiata che prega, poi l’erma del defunto e l’immagine di un angelo che indica il cielo. All’epoca della sua realizzazione quest’opera fu considerata un vero capolavoro. In origine era posta nella chiesa di S. Domenico nella Cappella di Santa Rosa da Lima. Quando fu eretto il nostro Monumentale vi fu trasferita all’inizio dello stilobate a destra del Pantheon, tomba n. VIII dove dal 1873 è anche la famiglia Guarini.
Oltre ai già visti frontespizi dobbiamo anche ricordare che nel 1810, momento di massimo splendore economico del nostro, sempre per apparire come benefattore e per ringraziare la Provvidenza che lo aveva alzato a tanta fortuna dal nulla, in una sua casa in via dei maceri aprì un ospizio che volle chiamare di S.Pellegrino. Questo ospitava sette donne vecchie e misere. A loro, pagliericcio e biancheria. In più il vitto e carbonella e per l’inverno legna grossa e minuta.
Domenico, ad un certo momento sentendosi già vecchio, scrive il suo testamento, dove ordina che in perpetuo si mantenesse questo ospizio, con i redditi di un patrimonio stimato in scudi 4.000, sotto il nome di Spedale di S.Pellegrino.
Sua figlia Maddalena, unica erede, risponde positivamente al volere del padre. Infatti quando è possibile, accoglie nell’ospizio le anziane con buoni costumi e miserabilità. La spesa per la casa Matteucci ogni anno ammontava a circa 200 scudi.
Domenico Matteucci in questo suo testamento non dimentica neppure l’Ospedale verso il quale aveva già tanto elargito. Infatti lo designa come ultimo erede con un fidecommesso di 18.000 scudi quando le linee mascoline di sua figlia e dei suoi nipoti Sesto e Sante Matteucci ( figli di Antonio) si fossero estinte. A lui, come riconoscimento, da parte del Comune, l’intitolazione di una Via fra Viale Spazzoli e Campo di Marte.
Luigia rimasta vedova con la figlia Maddalena di 8 anni, si trova a dover affrontare un rapporto difficile con il nipote del marito Sesto. Infatti il conte Domenico aveva lasciato la curatela della figliola a sua moglie Luigia, dandole in contutore il conte Sesto Matteucci. Nata questione tra questi sul modo di amministrare il patrimonio, Luigia vuole liberarsi di questa presenza e si rivolge al tribunale vescovile di Forlì, Sesto invece si rivolge al tribunale di prima istanza di Forlì. Non è dato sapere il finale di questi due processi. Ma che pena vedere i tribunali entrare in scena per stabilire i corretti rapporti tra i familiari!
La fortuna di Domenico Matteucci
Ma come ha fatto Domenico Matteucci dal nulla ad assurgere a tanto potere economico?
Abbiamo già visto l’affarista Domenico alle prese con i beni ecclesiastici venduti o svenduti dai napoleonici nell’impellente bisogno di autofinanziare l’Armée d’Italie.
Di lui abbiamo le parole non certo d’elogio o lusinghiere di Giuseppe Calletti (1779/1862) cronista dell’epoca, che dice …quest’uomo non meriterebbe alcuna menzione perché la sua vita non diede origine a nessuna azione virtuosa, se vogliamo eccettuare il restauro dell’Ospedale e di S. Lucia, ma sebbene non abbia fatto nulla che sia degno di ricordo non posso esimermi dal ricordarlo per la magnifica tomba che gli è stata eretta…
Quindi come abbiamo già intuito Domenico Matteucci, conte o non conte, è stato un affarista senza scrupoli e non ha meritato dai suoi contemporanei un positivo ricordo. Abbiamo una testimonianza precisa da questo suo scritto datato 11 marzo 1824 dove chiede al Gonfaloniere della Comune di Forlì quanto segue e che viene anche minuziosamente descritto:
“ Domenico Matteucci sempre intento ad ornare il Paese e richiamare della Popolazione nella parte della strada nuova che potrà chiamarsi via Sanseverina, laterale a levante la Porta Pia, avendo già fatto fabbricare 14 case …. sarebbe sua intenzione erigerne altre sul terreno di proprietà della Comune appoggiandosi alle mura urbane senza però aprire finestre al levante costruendole nella medesima dimensione ed altezza delle sue già fatte. Possono servire per abitazione di povera gente e braccianti, anche perché vede (Domenico) farsi il suo Paese bello e popolato a forza di fabbricare case, avendo finora dato ricovero a più di trecento persone in un luogo un tempo non abitato. Dietro questa sua idea c’è anche il bene pubblico, così fa istanza perché gli venga concesso a gratis come ha fatto la Comune di Forlimpopoli, oppure a livello perpetuo, pagando un annuo canone redimibile con ammortizzazione di debiti comunali di cui va egli creditore obbligandosi inoltre alla manutenzione della mura per quel tratto che porterà la lunghezza delle fabbriche e del terreno che gli verrà concesso.
Vantaggio incalcolabile poiché più nessuno si farà lecito di guastare le mura in una parte fabbricata, la Comune resta esente dalla manutenzione di questa. La città di Cesena ne porge l’esempio, che le sue mura cittadine non sono tanto rovinate come le nostre per essersi sopra le medesime nella massima parte erette delle fabbriche. Sarebbe desiderabile che altri cittadini trasportati da questo desiderio si occupassero a fare altrettanto per la loro Patria, onde meritare un giorno il nome di Cittadini Benemeriti massime in tempi così calamitosi (i moti carbonari del 20/21) e che i poveri artisti in mezzo alla abbondanza muoiano di fame perché il facoltoso non trova maniera di farli lavorare. Su tale proposta non dubita l’istante di essere secondato.
Firmato Domenico Matteucci “
L’amministrazione così risponde: L’ing. Comunale visiti e riferisca a quanto ammonterebbe il terreno che si dimanda affermando anche il suo parere.
Leggendo questo suo scritto possiamo ricavarne qualche considerazione. Domenico Matteucci opera a piene mani nel settore immobiliare, con giustificazioni più o meno valide. E’ vero che le mura sono disastrate, è vero che il terreno attorno a loro è praticamente abbandonato, ma far passare le sue operazioni immobiliari come un vantaggio per la città e la popolazione ci appare esagerato. Porta a conforto della sua richiesta quello che è già avvenuto a Forlimpopoli e Cesena, noi oggi non lo possiamo sapere. Le fabbriche che lui cita sono i cantieri per la costruzione di case e il suo invito ad altri facoltosi di impegnarsi in queste attività certamente avrebbe dato lavoro agli artisti (leggi tutti gli ingegneri, architetti ecc.) che sono invece disoccupati. E’ la stessa storia relativa ai veri artisti, come gli scultori, che non trovando più nessun mecenate per obbligo di lavoro devono accontentarsi di sculture funerarie.
Insomma a mio giudizio Domenico Matteucci appare come un palazzinaro ante litteram. Poi anche lui come tutti i benestanti di quel tempo, leggi nobili e non, avrà investito le sue capacità economiche nella campagna. Tutti accumulavano poderi su poderi per sé e i loro posteri, fino al momento in cui gli stessi, non essendo più sufficiente la rendita agraria per mantenere il consueto tenore di vita, e non avendo una professione remunerativa, hanno cominciato a vendere podere su podere o palazzo su palazzo, e questa storia è continuata fino ad oggi.
Il conte alla ricerca del benessere, del titolo di cittadino benemerito e della salvezza dell’anima, (paura della morte) riesce ad avere tutto (forse), benessere e benemerenze a piene mani sì, il resto non lo possiamo sapere. Certamente la moglie e la figlia sono vissute nell’agiatezza. Abbiamo visto il restauro di S.Lucia, in più nel 1839 Luisa Lovatelli è socia della nascente Cassa dei Risparmi di Forlì.
Certamente questa sua attività non sarà stata di gradimento a tanti. E di nemici o di invidiosi se ne sarà fatti tanti! Certamente il conte Domenico doveva essere una persona priva di scrupoli e chissà quanti avrà calpestato!
Fra le mie carte ho rinvenuto un verbale dei Carabinieri che così recita: Brigata dei Carabinieri di Cesena. Essendo morto li 21 corrente (non c’è data, ahimè!) il Sig. Domenico Matteucci, ricco proprietario di questa città, nella mattina del 29 si è trovato affisso un libello ingiurioso così concepito.
D.Matteucci
visse per nostra disavventura
Morì a comun bene
Ebbe grandi virtù
Fu religioso ed infarinato di Dottrina
Ladro esperto
Fedele al nostro infame Sovrano
E nemico di libertà
Amò i Tedeschi e odiò i Francesi
Questo mostro di natura
con piacere universale
finalmente è arrivato farsi fottere
Pregate all’anima sua
Eterni tormenti
Morte ai tiranni
Come abbiamo già scritto, questo libello è la prova dell’altra faccia di questo appariscente benefattore. Di lui tutto è su marmo, quindi indelebile. Ma anche solo un pezzo di carta come questo colpisce duro e… fa anche male.
Agostino Bernucci