Usanze e superstizioni nella campagna forlivese del 1811

Forlì dall'alto

Parrocchia di Collina

Napoleone diventa Re d’Italia il 17 marzo 1805, dopo l’investitura ad Imperatore il 2 dicembre 1804. Questo Regno termina il 25 maggio1814, in seguito alla sconfitta di Lipsia dell’ottobre 1813. Erede della Repubblica Cispadana e Cisalpina continua ad applicare tutte le novità legislative introdotte dall’Impero, non solo, ma per una esatta conoscenza dei suoi sudditi, decide di realizzare un’inchiesta per conoscere usi, costumi, tradizioni e superstizioni delle popolazioni residenti. L’indagine, vuole anche interessarsi della lingua parlata e quindi dei dialetti, perché, come risulta dai documenti dello Stato Civile, la stragrande maggioranza degli abitanti risulta illetterata, cioè analfabeta.

Questa iniziativa appare ancora oggi unica e meritevole perché mai realizzata in precedenza. Solo negli anni 20 del XX sec. quella schiera di letterati raccolti sotto l’egida de Il Plaustro (1911-1914) e de la Piê (1920-1933), avrà la consapevolezza di inserirsi in una tradizione di studi folclorici locali, che poi si chiameranno folkloristici, ricordando i loro predecessori come Giovanni Battarra, riminese (1714/1789) (Pratica agraria: «vane osservanze e superstizioni de’ contadini romagnuoli» e Michele Placucci forlivese (1782/1840) (che vedremo poi in modo più approfondito). A posteriori si potrà dire come questa indagine napoleonica abbia offerto agli studi delle tradizioni popolari un contributo di indiscusso valore.

Il 15 maggio 1811 la Direzione della Pubblica Istruzione emana una circolare indirizzata a tutti gli insegnanti. Successivamente in data 30 giugno la stessa viene indirizzata ai Prefetti dei Dipartimenti del Regno. I destinatari, insegnanti e politici, vengono impegnati per raccogliere notizie su costumi, pregiudizi, superstizioni presenti nelle campagne in occasione di nascite, nozze, morti. Così tutto quello che riguarda le feste. Era richiesta anche la conoscenza delle pratiche agricole nelle diverse stagioni e se esistevano dimostrazioni di felicità come canti o canzoni od altri componimenti similari. Fra il 1811 e 1813 tutte queste relazioni vengono inviate a Milano. Successivamente per i mutamenti e sconvolgimenti politici, questi documenti si disperdono e sono in gran parte perduti.

Non ho notizie degli altri 23 Dipartimenti, ma a noi interessa quello del Rubicone, e cioè di Forlì e il suo territorio. Il procedimento amministrativo di cui abbiamo parlato, comprende una Circolare del Prefetto al Podestà di Forlì, una Circolare del Podestà diretta ai Parroci del territorio che sono precisamente 11 e cioè in ordine alfabetico: Pieve Acquedotto, Bagnolo, Barisano, Castiglione, Collina, Ladino, Pievequinta, Romiti, S.Martino in Strada, S.Lorenzo in Noceto, Villafranca. Se in prima battuta l’iniziativa era rivolta agli insegnanti, appare chiaro che il mondo scolastico di allora non era tale da consentire la realizzazione di un’indagine così particolare. Gli studenti provenivano dai ceti di estrazione cittadina ed erano un numero esiguo, così come gli insegnanti. Mancavano pertanto gli attori principali di questa inchiesta che erano gli abitanti delle campagne. Al contrario l’iniziativa politica che si rivolge ai Parroci ha più senso perché sono loro, i Parroci ad avere il controllo e la conoscenza capillare del territorio e dei suoi abitanti. Di queste 11 parrocchie possiamo anche precisare il numero dei loro abitanti. Questi rappresentano il campione che viene esaminato. Nel 1811 “ lo stato numerativo della popolazione” conta in Forlì città, 13.565 abitanti, nelle famose 11 parrocchie solo 5.241. E’ un campione significativo? non so, ma questo è quello che viene usato.

Abbiamo visto le 11 parrocchie, e il numero dei loro abitanti, ma i documenti in mio possesso sono della parrocchia di Collina ( chiesa di S.Appollinare ) che nel settembre 1811 conta 228 abitanti. Dove si trova questa piccola parrocchia? Percorrendo la strada Prov. 9 ter, verso Predappio, poco dopo Grisignano, a sinistra si apre una strada che sale verso le Caminate. Sul primo colle si incontra un edificio che come chiesa non dice molto, ma è lei S.Appollinare! E’ chiesa molto antica risalendo all’anno 900, di pertinenza degli Orgogliosi. Il nome, Collina, senz’altro, perché posta sulla prima altura non lontano dal fiume Rabbi. La scelta del Santo è dovuta ad una donazione degli Orgogliosi al Monastero di S.Apollinare nuovo di Ravenna sempre in quegli anni. Nel 1778 viene riedificata per i guasti subiti da terremoti e temporali. E’ sovrastata dalla ben più famosa Villa Orselli voluta da Sebastiano Orselli nel 1652. Ambedue in identica splendida posizione con attorno le colline forlivesi e in lontananza la pianura che sembra infinita.

Ma torniamo alla nostra relazione del 1811. Ecco l’intestazione del documento: Regno d’ Italia – Dipartimento del Rubicone ­- Pieve di Collina – Comune di Forlì – Al Sig. Podestà di Forlì – L’Arciprete della chiesa di S. Appollinare – e nell’ultima pagina la firma del parroco (Ho la gloria di essere – G.M. Arciprete Vanni) ed è controfirmata e datata 16/9/1811 da Fabrizio Gaddi Hercolani. Tutte le relazioni dei 24 Dipartimenti del Regno sono realizzate nel periodo luglio-ottobre 1811. I Podestà le indirizzano alla loro Prefettura che le inoltrerà a Milano alla Direzione Generale della Pubblica Istruzione, diretta da Giovanni Scopoli. Come abbiamo già detto le domande poste erano sulle costumanze, pregiudizi, pratiche agrarie e dialetti, talvolta nelle risposte erano anche inseriti disegni di figurini che illustravano il modo di vestire.

Purtroppo queste indagini non sono mai giunte a compimento e tutto il materiale raccolto è andato disperso o perduto o ancor peggio distrutto. Con la caduta di Napoleone e la morte di Scopoli, tutto questo materiale viene donato dalla vedova Scopoli alla Biblioteca Comunale di Verona. Le traversie di questi documenti sono infinite. Dalla Biblioteca a proprietà private, a vendite all’asta e quant’altro. Qui a Forlì presso l’Archivio di Stato è presente un “Fondo del Comune” a. 1811 tit. XII, con il materiale di quell’indagine.

Dobbiamo a questo punto introdurre un personaggio importante ed interessante perché si occupa per primo di questa indagine napoleonica. Si tratta di Michele Placucci. Nasce a Forlì 24 agosto 1782 e dopo varie esperienze clericali e militari a partire dal maggio 1801 è senza interruzione al servizio dei vari governi nella Municipalità di Forlì, cambiando periodicamente mansione e salendo gradualmente dal modesto impiego di scrittore a quello massimo di Segretario Capo, raggiunto nel 1833. Nel 1818 pubblica a Forlì Usi, e pregiudizj de’ contadini della Romagna. Operetta serio-faceta di Placucci Michele di Forlì. Senza dubbio le fonti che consulta per scrivere quest’opera sono le famose relazioni di cui sopra e che lui avrà avuto l’occasione di consultare. L’accoglienza riservata dai forlivesi al lavoro di Placucci non è positiva. Infatti sono diffusi sonetti satirici ai quali l’autore risponde con altri versi nei quali critica il costume di censurare qualsiasi scritto a prescindere dal suo valore. Nel 1885 viene curata la prima ristampa. Il libro di Placucci è ormai universalmente considerato tra le fonti letterarie che documentano la cultura popolare di una regione e anticipa di mezzo secolo, la nostra demologia scientifica.

La sera del 30 marzo 1840, alle ore 9 circa, al suo ritorno a casa, Placucci, in via Angelo Moroni, (traversa Via Albicini – Via S. Anna), ancor oggi esistente, viene pugnalato alla schiena da uno sconosciuto e le ferite ne provocano la morte il 2 aprile. Il processo vede imputati un presunto figlio illegittimo e Antonio Placucci, fratello del defunto, ma si conclude con il rilascio degli imputati per mancanza di prove. Nel testamento Placucci lascia alla Biblioteca comunale la sua grande Raccolta di stampe e memorie patrie. Esaurita questa presentazione storica dell’antefatto (l’indagine napoleonica) voglio passare a quanto ho rinvenuto nello scritto che risponde o cerca di farlo, a quanto richiesto dall’autorità. Così sulle usanze dei contadini, quelli che conosce lui,e cioè i suoi 228 parrocchiani, il Parroco di Collina, Arciprete Vanni, scrive:

Sebbene io creda sia difficile dare un preciso ragguaglio delle costumanze, pregiudizi e superstizioni che dagli antichi villani sono giunte a costoro che vivono oggi nelle nostre campagne, perché la loro vita è piena di pregiudizi e di ridicole superstizioni, per rispondere alle richieste della Direzione Generale di Pubblica Istruzione e i venerati comandi del Governo, ho l’onore di dire che: in occasione di nozze, nascite, tumulazioni è presso i nostri contadini importante rito d’invitarsi scambievolmente i più prossimi parenti, e l’ometterlo è rompere subito la sociale armonia, è suscitare quasi implacabili disunioni e il non riconoscersi mai più per congiunti.

Sul matrimonio

Prima di celebrare il matrimonio o in Chiesa o davanti al Savio dello Stato Civile, il contadino in tutto il tempo che tratta con la morosa, è solito praticare certe consuetudini. Trovatasi il contadino una giovane, si accompagna con questa o per andare in città oppure stare insieme dopo le funzioni religiose e accompagnandola dopo fin sulla soglia dell’aia. A poco a poco si scoprono amanti e entrano entrambi in possesso delle leggi dell’amore … si fanno vedere dalle madrine, dai parenti apertamente e le madri hanno piacere di vedere che le loro figlie hanno un moroso e spesse volte i due giovani sono introdotti dai servitori in casa con un pretesto. I due, resisi conto del tacito consenso dei genitori, sono soliti incontrarsi nei giorni di martedì, giovedì e sabato e non in altre giornate, fino a mezzanotte. Da quel momento la morosa è sempre accompagnata in qualsiasi occasione dal moroso. E se poi un altro pretendente si permette di parlare con la giovane, o che la ragazza con arte o con malizia s’invaghisca di un altro e lascia il primo, si dice in dialetto che il primo moroso ha avuto la zancata. Venuto il tempo di gramare spetta al moroso andare a casa della morosa per accompagnarla all’abitazione dove è stata invitata a gramare o la canapa o il lino. Spetta a lui portare sulla sua testa la grama o grametta. Finita la funzione la riporta a casa assieme alla morosa.

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Le morose nel gramare cantano in tre momenti del giorno: sul mattino, a mezzogiorno e alla sera per chiamare col canto il moroso. Cantano delle canzoni nel loro linguaggio (in dialetto), come per esempio la principale dice:

veni mio, veni mio amore…

che vi sto aspettar in tutte l’ore

Giunto il momento di pensare al matrimonio si deve trovare quello che veniva chiamato bracco o mezzano. Lui tutto procura, a tutto pensa, tutto dispone, tutto assesta, supera tutte le difficoltà e quando tutto è appianato, stabilito un giorno, di sabato per lo più e non altro giorno, si portano dal rispettivo parroco dei morosi con la madre della sposa e non con altri a prendere il consenso e per parlare col loro linguaggio ( in dialetto) e dire il pater(Direi che la figura del wedding planner, tanto di moda ai giorni nostri, è indubbiamente una copiatura del personaggio, il bracco o mezzano- inizio 1800-, che abbiamo appena rappresentato).

Preso il loro consenso si preparano a trovar tutto ciò che occorre per lo Stato Civile e trovatolo vanno a far l’atto civile dal Savio. La ragazza vien condotta dai rispettivi padri e madri e bracco alla Mostra, che vuol dire farsi vedere a girare per il mercato e in piazza. La mattina della domenica tocca al bracco andare a prendere i rispettivi parenti e condurli a casa della sposa e per strada tirano in segno di allegrezza delle archibugiate.

Il mediatore, poi precedendo gli sposi e tutta la numerosa compagnia, giunge al tempio. Si compie religiosamente con la prescrizione dei sacri canoni la celebrazione del matrimonio. Assistono tutti devoti alla funzione solenne e ritornano alla casa della sposa ove il pranzo è splendido e squisito, perché i genitori han cuore di spendere una gran parte della rendita del loro podere per l’occasione. Passano quindi ben pasciuti dalla tavola al ballo e al gioco che dura fino al tramonto del sole oppure fino al dì novello, interrotto, bene e spesso, dal bere e dal mangiare.

La nascita del bambino

Quando la sposa è gravida si informano i parenti per preparare i capponi e pollastri in occasione del parto. Una volta nato il bambino lo si porta in Chiesa. Se è maschio il padre porta sulla spalla la bisaccia e se è femmina porta in mano la paniera, usanze però in via di abbandono. Otto giorni dopo il parto se la sposa è stata bene e dopo 15 giorni se è stata indisposta si portano tutti i parenti al pranzo degli sponsali in casa della puerpera e questa salutano e la colmano di regali. Mangiano in quel giorno un pranzo lautissimo e se ne partono dopo questo per le loro case.

Il mortorio

Siccome i contadini invitano i loro parenti a gioire nei momenti felici, così anche li chiamano a compiangerli nelle vicende tristi. Accorrono essi alla casa del defunto a celebrarne i funerali e a dolersi della loro sciagura. Con candela accesa in mano fanno sopra il cadavere molti segni di croce pregando Iddio che alla di lui anima conceda riposo e pace. Tutti con velo nero nel cappello in segno di lutto lo accompagnano alla chiesa parrocchiale. Assistono ai divini offizi alla Messa cantata, alle esequie, alla sepoltura che a lui vien data dal padre se è un figlio, dai figli se è un padre, dal marito se è la moglie e così di mano in mano dal parente o affine più stretto. Tornati a casa mangiano molto saporito e dopo dicono in ginocchio il Rosario. Nella tavola del pranzo di quel giorno vi mettono anche il piatto del defunto, e dicono: dov’è il tale? E gli altri rispondono non c’è e il detto piatto viene dato ai poveri. E così consolano gli afflitti e addormentan fra le vivande ed il vino il sofferto rammarico. Di seguito ecco le superstizioni più comuni praticate dai moderni contadini e principalmente dalle donne.

Le superstizioni

Quando nasce un bambino se è maschio lo mettono nudo entro il brillatoio del riso o del grano o del miglio e così facendo il figlio avrà la virtù di guarire ( segnare) la risipola. Se gli mettono in mano un fiore segna il mal d’occhi. Se il bimbo o qualcuno della famiglia si ammala e si teme qualche malìa, a notte avanzata si fa bollire un caldaio d’acqua con dentro le fasce, le pezze, la camicia, il vestito e quando l’acqua gorgoglia si fruga il tutto con un forcone e giurano che deve comparire infallibilmente l’ammaliatore maligno che osservato libera e guarisce dal maleficio. Quando si guasta il tempo e minaccia tempesta, buttano in mezzo all’aia una zappa, una marra o un pezzo di ferro o la catena del camino, questo avrebbe la forza di respingere i temporali. Oppure bruciano della palma benedetta facendo crepitare il fuoco con del sale grosso. Quando bolle l’uva nel tino non si può far bucato altrimenti vengono macchiati i panni. La rugiada della notte antecedente la festa di S.G.Battista ripulisce dalla rogna e così si rotolano nudi per l’erba e per il prato. Temono, al malaugurato stridere della civetta, disgrazie e morte.

Il giorno antecedente la notte dell’Epifania governan senza risparmio le bestie e tutti gli altri animali perché credono che in quella notte gli animali parlino e quindi che non abbian a parlare male del padrone. Intrecciano festoni di foglie e rami verdi e con questi il primo giorno di maggio adornano la porta di casa e così credono di essere al sicuro dalle formiche. Se si fanno feste di Natale al sole, si passano quelle di Pasqua al fuoco. Nel mese di maggio non ci si può sposare né allevare vitelli o agnelli perché impazziscono. Scrive sempre il Parroco: ai giorni nostri i contadini nulla più festeggiano né per la fine dell’anno né per il suo inizio e neppure per Natale. ( non dobbiamo dimenticare che l’occupazione napoleonica dal 1797 ha impresso ai comportamenti quotidiani una profonda svolta anticlericale).

Nella sera dell’Epifania trovandosi in gruppo, cercano la buona sorte segnando o una castagna, o un grano di formentone o una fava. Dispensano a tutti i partecipanti tanti semi e quello che ha la ventura di trovare quello segnato è il fortunato che ottiene il premio che è stato depositato all’inizio. Nella sera precedente la Madonna del Fuoco dalle montagne fino al mare si accendono dei falò in segno di devozione e allegria. Così si fa dai parrocchiani anche per la festa della loro parrocchia.

Feste per Carnevale

Anche in campagna si fanno feste carnevalesche. Si vedono gruppi di giovinetti mascherati da donne o da uomini. Con loro suonatori di violino, chitarra e cembalo che girano di casa in casa per ricevere dalla gente che le abita quello che dona spontaneamente, grata per questo sollievo creato con il canto e con il ballo. In questi giorni di piacere e di allegria gli amanti cercano in ogni modo di far divertire le loro belle. Fanno entrare in casa i suonatori e si balla per notti intere. Partendo si onora la ragazza con più tiri di pistola, raddoppiandoli negli ultimi tre giorni. In tutte le feste di Quaresima è usanza regalare alle ragazze lupini e ciambelle, con questa regola: mezza la prima volta, una la seconda, due la terza. Essi in cambio ricevono nel secondo giorno di Pasqua le uova dipinte, i cintoli e le calze. La prima mattina di Quaresima o un’altra delle domeniche, quelle giovani che non hanno trovato marito nello scaduto carnevale, davanti alla loro casa o per qualche tratto di strada cantano significative insolenze.

Lavori in campagna nelle diverse stagioni e relative superstizioni

Educati i nostri contadini dai loro vecchi, tengono sempre in ordine gli attrezzi utili per i diversi lavori. Concimano per tempo le loro terre e perché nel trasportarlo il concime non svapori per il vento gagliardo, lo riguardano. Osservano le fasi della luna, conoscono i venti, san distinguere bene quello che una regione può produrre e quello che la stessa rifiuta. Nel primo venerdì di marzo si semina la lenticchia, nel terzo la canapa, al venti il formentone e quindi le veccie, le cicerchie ed altri marzatelli e nella settimana Santa gli anici. Il primo giovedì di aprile si piantano le zucche e dopo non molto il cocomeraio. Nell’estate i contadini tagliano i fieni, le erbe le fave e cavano i lini. Le donne si occupano dei bachi da seta, detti vermicelli. Raccolgono un giorno per l’altro le foglie dei gelsi perché non siano più umide e quindi pericolose per i bachi.

Lasciano inaridire sul gambo, qualunque tipo di pianta detta marziatella, perché cadendo le foglie secche sono un naturale concime. Battono il grano e lo preparano per riporlo nei magazzini. Sfrondano gli olmi per carestia di erbe affinché non dimagri l’affaticato bue. Al sol leone fendono con l’adunco vomere le incallite terre per sradicare le erbe nocive e la troppo fertile dannosa gramigna. All’avvicinarsi dell’autunno cominciano a raccogliere l’uva matura e il capo di casa pensieroso di sgravarsi dei debiti fatti, ne trasporta al padron la sua parte. Della sua ne ripone a riempir le poche botti e ne riserva a chi gliene paghi al più presto il prezzo. Seminato già nel finito settembre il lino, è in ottobre la stagione di seminare per l’anno venturo il grano. Poi tocca alle fave, agli erbai, agli orzi. Ed ecco più oltre al contadino non resta che preparar le serre per il formentone.

In gennaio s’incomincia a potar le viti e ciò si fa o nel plenilunio o nel dì di tutta la settimana in cui cade Natale, nel giorno di S. Damiano o negli ultimi giorni di Carnevale e negli altri due mesi susseguenti . Non le toccan se sono bagnate. Nell’anno che succede al bisestile non fanno propaggini perché sono di avviso che si possano infradiciare i tralci. Non fanno innesti perché seco porta l’anno una maligna influenza.

I canti e qualche riflessione sulla lingua parlata

Cantilene nazionali non hanno questi ignorantissimi, ma cantano certe mal rimate strofette che nulla significano e con cui voglion parlare dei loro folli amori. Il dialetto di questi contadini è pieno di spropositi. Storpian le parole dicono una cosa e ne intendono un’altra. Meritan compatimento perché sono ignoranti di loro natura. Difficile è il dare ragguaglio del loro carattere perché non hanno avuta quella civile educazione che distingue l’uomo socievole e ben fatto. Sono però cristiani, sudditi fedeli e obbedienti alle leggi. La maggior parte di essi è povera e s’indebita o perché carica di famiglia o perché le possessioni e i luoghi che hanno a colonia sono dai loro padroni gravati all’eccesso. Ecco esposte in breve dire tutte le costumanze più usuali praticate dai contadini in varie circostanze della loro vita e molte verità purtroppo sono state tralasciate… Quanto resterebbevi a dire sulle ricerche fatte, ma a quello che non ho scritto io, altri di me, più istruiti, avranno supplito per me. Ho la gloria di essere

G.M .Arciprete Vanni

Queste sono tutte le notizie che L’Arciprete ha raccolto osservando la vita e il comportamento dei suoi 228 parrocchiani.

Agostino Bernucci

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