Sono qui davanti alla Chiesa di Secchiano Marecchia: la Pieve! Perchè? È il momento della celebrazione dei Defunti e ancora una volta vengo a ricordarli e a portare qualche fiore. Ancora una volta leggo la piccola lapide che è sul frontale e che ricorda i nomi degli undici caduti nella grande guerra con una dedica assai significativa:
Ai modesti eroi!
Fra loro un fratello di mia madre morto nel gennaio 1918 a Komarno, oggi Slovacchia. È questa una piccola chiesa sorta nella notte dei tempi sui resti di un tempio romano. Nel suo interno niente di eccezionale, ma ugualmente degno. I suoi oggetti più importanti sono stati portati al museo feretrano di Pennabilli, non solo, tanti reperti romani trovati con scavi, se vogliamo non certo professionali, sono stati portati nella canonica della chiesa di Ca’ Raffaello. Sull’altare maggiore una grande tela del primo seicento dedicata alla Vergine con Bambino (Madonna della Misericordia). Nell’abside frammenti di antichi affreschi del primo cinquecento. Poi una stele marmorea romana con iscrizione sepolcrale con due Geni alati che è diventata la base del fonte battesimale. La facciata ahimè è stata intonacata, *vedi, in calce a questa puntata, chi era Mirro di Secchiano quindi è scomparsa la vista delle pietre originarie della sua costruzione che sono invece ben visibili nel campanile e in tutto il corpo dell’edificio. Di fronte all’ingresso della Pieve il piccolo Camposanto dove ci sono tutti. Del passato e del presente. Un tempo al centro era una grande croce di ferro, oggi eliminata. E’ inutile dirlo sono nel Montefeltro, un pezzetto di Montefeltro, così guardandomi attorno e rivedendo questo a me ben noto paesaggio, ho la fortuna di entrare in una dimensione temporale acronica travolto da un’onda di emozioni che mi ammaliano facendomi partecipe di un infinito sogno.
Ma perché tutto questo? Perché il Montefeltro? La Val Marecchia, è la terra delle mie radici familiari in questa valle fin dal 1700. Qui nasce e cresce la mia famiglia che poi si disperde in una diaspora senza fine. È una valle con casette (una volta) dalle piccole finestre e qui chi vi abitava continuava a recitare vecchie storie di un tempo in cui le “fole” erano la letteratura di una gente che continuava a sognare tribolando e a vivere faticando. E così questo Montefeltro dei miei vecchi conserva ancora le mie radici per indicarmi la strada maestra della vita che mi ha permesso di migrare portando intatti nel cuore i sentimenti più veri e nobili e la voglia di non cambiare, ma soprattutto il desiderio di fare qualcosa di buono.
La mia meta è questo piccolo paese, Secchiano Marecchia, che si snoda lungo la già provinciale (oggi Statale 258) per qualche chilometro. Inizia quando si vede la Pieve con il suo campanile e il piccolo Camposanto e sulla sinistra il largo, larghissimo letto del Marecchia che appare come una pietraia bianca che quando c’è il sole è tanto luminosa che sembra accecante. Quando si è in questa realtà si ascolta il fruscìo del vento fra gli arbusti selvatici e il gorgogliare dell’acqua fra i sassi nei piccoli raggi d’acqua che interrompono questa enorme distesa bianca. Si vedono i picchi fortificati di S. Leo e di Maiolo che dall’alto dominano il Marecchia che scorre diritto nella valle, talvolta con il fluire impetuoso delle sue acque, oppure immobile segnato dal secco maestoso di queste sue aride sassaie ricche di gorghi e di sabbia.
Lascio la Pieve e a piedi vado verso il centro del paesello: le Ville. Poco dopo sono davanti alla casa dei nonni materni dove io ho trascorso le vacanze della mia infanzia e della mia giovinezza. E’ una casa dell’ottocento costruita con sassi squadrati del fiume con un corpo centrale e due ali laterali, Quella di sinistra senz’altro adibita a stalla e l’altra a servizi. In questa c’era il telaio dove mia nonna lavorava per sostenere l’economia della famiglia, tutti bambini o meglio bambine, perché la nonna era vedova e i figli tanti. Guardandola mi soffermo sulla parte dov’era il telaio. Qui la nonna tesseva usando le mani e i piedi scalzi come fosse un organo musicale e sento ancora il rumore della spola che passava fra la trama e quella dei pedali che la alzavano e abbassavano e da questo lavoro uscivano i torselli di tela che nonna poi vendeva.
Preciso che io non sono nato a Secchiano, né vi ho mai abitato. Ugualmente i miei più profondi sentimenti, le mie più sincere emozioni sono legate a questo piccolo paese. Il tutto è dovuto agli insegnamenti dei miei genitori, loro sì di Secchiano come i miei nonni e bisnonni sia paterni che materni. Le mie vacanze estive vissute qui durante la mia infanzia e la mia adolescenza mi hanno fatto amare questo luogo. Oggi quando lo sento ricordare (raramente) mi sento emozionato. Le mie visite, come questa, (io le chiamo pellegrinaggi), sono per vedere le tombe dei nonni o quelle dei parenti, o per fare una foto a qualcosa che vedo cambiato. E mi viene spontaneo dirmi: Ah, com’era verde la mia vallata! Mi si stringe il cuore nel vedere le condizioni del fiume dove andavamo a fare il bagno, a pescare con le mani, alla ricerca della rucola selvatica… Ma così è! Tutto è cambiato! Anche il fiume che vittima di una spregiudicata violenza è stato saccheggiato di ghiaia, sabbia, pietre. Infatti ha abbassato l’alveo ed ora scorre sulle argille. Al mare non arriva più sabbia ma solo melma.
Questo piccolo paese con un nome così strano che quando mi è capitato di ricordarlo sono anche stato preso in giro, mi sembra, ma è anche stato scritto, così cambiato nel corso dei decenni che mi verrebbe da dire è irriconoscibile! Eppure le foto di cento anni fa che ho trovato e salvato mi fanno rivedere quei luoghi e quelle case che hanno resistito agli uomini più che al tempo e riportano in vita quei volti pieni di sofferenza, di tristezza e vorrei dire di angoscia che ti attanaglia l’animo soprattutto se i personaggi ritratti sono dei bambini. E’ chiaro che tutti, soprattutto i giovani, sognano Rimini, così vicina, il suo divertimentificio e la possibilità di avere un lavoro di prima classe. Sono ugualmente, nonostante questo, riuscito a ricostruire la storia, la mia storia. Non sono notizie eclatanti, perché è il cammino nel tempo di una famiglia che non si distingue dalle tante altre che hanno costruito la storia anonima del nostro paese. Non ci sono eroi, non ci sono letterati, non ci sono nobili, neppure personaggi, per qualche motivo, famosi. Solo famiglie che hanno vissuto modestamente in piccole località del riminese e del Montefeltro, e cioè di quello che, fino al 1861, era lo Stato della Chiesa. Ma lasciamo queste personali considerazioni e parliamo un poco di Secchiano.
Ho ricordato la casa dei miei nonni materni, di mia madre. E’ la prima a sinistra, dopo il rettilineo che viene dalla Pieve. Prima di questa a destra c’è il Palazzo Carboni con tanto di stemma. Il proprietario: il Prof. Giuseppe Carboni. E’ stato anche forlivese perché insegnante nell’Istituto Tecnico della nostra città ed anche Assessore nella Giunta del Sindaco repubblicano Giuseppe Gaudenzi. Questa il 30 ottobre 1922 venne dichiarata decaduta dal Partito Fascista. Sempre seguendo la provinciale, dopo qualche centinaio di metri, a destra c’è un bivio verso a Sogliano. Non solo, questa strada che sale, dopo poco, più in alto, porta a quello che è sempre stato chiamato il “Castello”. Dalla strada non si vede nulla perché sono pochi ruderi di qualche bastione e della base di una torre. Nella storia è stato chiamato il Sasso di Galasso (del Montefeltro) o mons Seclani, siamo nella seconda metà del 1200. E’citato anche da Dante nel XXVII canto dell’Inferno. Qualche impresa meritevole (forse), ma in questo luogo, con questa fortificazione non era altro che un taglieggiatore di viandanti e mercanti che dalla Carpegna (Toscana) o dall’Alto Savio andavano verso il mare o risalivano. La sua impresa più ricordata è la presa del vicino luogo fortificato di Piega (senz’altro un concorrente del Castello), che è sulla strada che porta a S.Leo, e lì, uccide tutti.
In questo vecchio “castello” nel passato, più recente, vi abitavano poche persone in 4 o 5 casette. Una ragazzina mi parlò di una statuetta, mi fece anche vedere un pozzo chiuso e mi disse che dentro c’era un tesoro ma che portava male a scavarlo. Poi un oratorio allora in rovina. Per decenni tutto abbandonato. Oggi è restaurato. E’ solo assente il simbolo della valle che era rappresentato da una enorme croce piantata sulla grande genga davanti alla casa di mia nonna, a segnare il destino di una comunità che trovava rifugio nel simbolo cristiano. Era visibile dovunque. Oggi non c’è più. Procedo ancora e poco dopo, le distanze sono minime, ci troviamo con a destra l’antico lavatoio pubblico e le fontane (le storiche cannelle) che davano l’acqua a tutto il paese. Acqua che si andava a prendere con gli orci di terracotta. Non c’era l’acquedotto!
Ecco poi il borgo chiamato le Ville con un ampio spazio aperto. E’ questo il centro del paese. A sinistra un grande Palazzo chiamato Cappelli perché nel passato, fino al 1959, il proprietario è stato il Professor Lorenzo Cappelli, celebre chirurgo di Ancona, marito di Giacomina Raggi, sorella di Decio. Questo imponente edificio, rispetto a tutti gli altri, è in pietra a vista e risale al secolo XVII. Diversi i proprietari, oltre al già menzionato Cappelli, Pietro Pirazzoli (1826-1902), direttore della miniera di Perticara, che glielo vendette. Oggi è proprietà comunale. Ma perché gli eredi Cappelli e cioè il figlio Mario non sono riusciti a trovare un compratore? Si narrano diversi fatti legati alle vicende delle persone che frequentavano il palazzo. Si dice fosse un luogo d’incontro di personaggi legati da interessi particolari: politici, massonici ed esoterici. Qui con lo sguardo rivolto a S.Leo e il pensiero al grande maestro il Conte Cagliostro, si impegnavano anche in sedute spiritiche. Qualche nome? Ubaldi, Cagnoli, Pirazzoli e sempre Cappelli. Il primo era gran maestro della Loggia dell’Alto Tevere ed a lui si deve la donazione di tutto il suo patrimonio bibliografico alla Biblioteca che porta il suo nome nel Comune di Pian di Meleto.
Qui in Secchiano si narravano fatti misteriosi legati alla comparsa attorno al Palazzo di strane figure che una volta viste scomparivano. La Signora Giacomina si raccomandava che queste notizie non venissero divulgate, ma si sa com’è… e così il palazzo non trovò mai un compratore. Tornando indietro al periodo risorgimentale, si deve dire che Secchiano era una terra di confine fra la Romagna, liberata nel 1859 e le Marche (Stato pontificio), una terra di proprietari senz’altro massonici che avevano lo scopo di divulgare la Società Nazionale o meglio il Partito monarchico-sabaudo. A questo proposito è da ricordare come Secchiano, vista la sua vicinanza a S. Leo, era il luogo più idoneo per un’azione militare contro il forte. Infatti i vari Comitati insurrezionali avevano organizzato l’arruolamento di volontari provenienti da tutte le località vicine. Il Comitato di Rimini con Pietro Pirazzoli rappresentante di S.Agata e Perticara aveva preparato depositi d’armi e munizioni per la prevista operazione. L’insurrezione doveva scoppiare il giorno 8 settembre 1860 ed estendersi dovunque. Organizzato dunque il corpo di volontari, che prende il nome di Cacciatori di S.Leo o Volontari del Montefeltro, per un totale di circa 500 uomini, per 15 giorni (dall’11 settembre) assediano il forte difeso da militari austriaci. Questi fanno sapere che la resa sarebbe avvenuta solo dopo l’intervento dell’artiglieria. I volontari e gli assediati si scambiano solo colpi di fucile, ma quando da Ancona arrivano due cannoni che all’alba del 24 settembre aprono il fuoco sul forte, come era stato dichiarato in precedenza, gli austriaci si arrendono. Insomma un’avventura non certo particolarmente eroica, ma che rivela la volontà politica e l’animo delle popolazioni del luogo. Fra questi volontari è da ricordare Enrico Raggi di Savignano di Rigo, padre di Decio. Mi fermo a sedere nel bar della “piazza” davanti a Palazzo Cappelli per riflettere e pensare un attimo, prima di ricominciare la mia passeggiata. Ci rileggeremo nella prossima puntata. Grazie intanto dell’attenzione.
* Ecco una breve nota per dire qualcosa su Mirro.
* Mirro: Valdimiro (non Vladimiro) Antonini (1922-1998) di Secchiano, meglio di Carosello, è stato una promessa della pittura italiana del dopoguerra. Di lui hanno parlato i grandi di quel periodo e non possono aver accolto tra loro uno non degno della loro stima. Citiamo Cascella che nel ‘47 presenta la sua prima mostra, Baldini che gli dedica la sua raccolta di poesie E’ Pont e Apollonio che nel ‘68 lo premia a Bergamo. E quanti altri, ma ad un certo punto tutto si spezza e lui viene avvolto nell’impietoso silenzio di una dimenticanza colpevole. Nel suo paese natale pochi lo stimavano, non così a Milano. E tutto ritorna ai suoi gesti iniziali come la bicicletta, l’essere uno scapestrato, uno contro… un carattere pessimo… ma che fine ha fatto la sua ardimentosa “febbre di colori” che tanto successo ebbe nella sua prima mostra a Milano nel ‘47?
Agostino Bernucci