Amadori: «L’Irst non si tocca, difendere la sua identità significa salvare la visione di mio padre»

IRST frontale

Ne ho lette tante. Ne ho ascoltate tante. Ne ho viste anche troppe. Mi riferisco alla vicenda dell’Irst, l’Istituto che porta il nome di mio padre, il professor Dino Amadori.
E ho deciso di intervenire, con rispetto ma con fermezza, perché quando si parla dell’Irst, occorre farlo con cognizione di causa, non per averne un ritorno in termini di mera visibilità politica o per propaganda o per ego personali. “C’è qualcosa che non bisogna fare”: non bisogna parlare quando non si conosce la storia. Non bisogna confondere la gestione di un’eccellenza sanitaria con giochi di potere. Non bisogna arrogarsi il diritto di sapere cosa “va fatto” o “non va fatto”, senza aver vissuto né senza conoscere “ciò” che ha generato questa realtà.

“E, c’è, invece qualcosa che bisognerebbe fare: guardare alla storia dell’Istituto. E prima ancora, guardare a ciò che il professor Dino Amadori, mio padre, ha voluto, costruito, amato. L’Irst di Meldola è stato il suo sogno, il suo progetto, la sua creatura. Io l’ho visto nascere. Ne ho seguito passo dopo passo l’evoluzione, fin da quando, con un’importante Studio Legale di Forlì, fornivamo pareri giuridici sulla sua costituzione, sulla sua forma, sulla sua missione. Lo dico, quindi, da giurista. Ma prima ancora da figlio di colui che quell’istituto l’ha immaginato e realizzato. L’Irst deve rimanere un’eccellenza romagnola. Un istituto votato alla ricerca e alla cura del cancro. Un punto fermo per la Romagna, e, da qui, per l’Italia, per l’Europa. E proprio per questo va detto chiaramente: trasformarlo in un ente pubblico puro “Regionale”, come oggi qualcuno propone, anche nelle sedi istituzionali, sarebbe un grave errore.

Un errore che va nella direzione opposta a quella voluta da mio padre. E e trasformarlo in una “struttura pubblica” (come ho letto qualcuno vorrebbe), equivarrebbe a firmare una “cambiale in bianco” e consegnarlo ad “altri”. L’Irst non è nato come un ente pubblico, né come un soggetto interamente privato. È nato, ed è cresciuto, come istituto a compartecipazione pubblico-privata. Questa è stata ed è la sua forza. È stato il modello ibrido, intelligente, voluto con lucidità e coraggio da mio padre a renderlo un faro nella sanità italiana. La presenza pubblica è importante, necessaria. Ma mai dominante. E’ il privato, con la sua capacità di investimento, flessibilità e progettualità, a dare impulso alla ricerca, mentre il pubblico garantisce struttura, accesso e credibilità istituzionale.

Mio padre lo ripeteva spesso e me lo ha confermato quando lo intervistai ufficialmente del 2019:.” L’Irst… nacque nell’anno 2000, come Società a responsabilità limitata senza scopo di lucro, con tutti i requisiti tipici di un’impresa sociale, a partire dall’obbligo di reinvestire gli utili nel miglioramento delle attività rivolte alla sua missione.…L’essere un istituto privato ci consente l’accesso a bandi europei, nonché di poter avvalerci di tante opportunità che non vengono offerte alle aziende pubbliche, come quella del 5 per mille, il che favorisce l’approvvigionamento di ulteriori risorse. Tant’è vero che, sugli 83 milioni del budget globale, con la ricerca e i bandi che vinciamo, 11/12 milioni di euro ci arrivano per queste vie…. (fonte: Il Faro di Roma Quotidiano di informazione, 1 ottobre 2019).

È ed è stata proprio questa la sua visione: un’istituzione radicata nel territorio, ma capace di proiettarsi oltre. Senza vincoli politici. Senza freni burocratici. Lo statuto e la struttura dell’istituto lo dimostrano chiaramente: l’Irst è frutto di un’alleanza tra soggetti pubblici e privato sociale. Non si tratta di una commistione tra interessi, ma di un modello di sussidiarietà concreta, efficiente, rispettoso dei ruoli: Il privato sociale come motore di innovazione e indipendenza e, il pubblico come garante di accessibilità e coerenza con il sistema sanitario. Eppure oggi, nel pieno di una difficoltà gestionale che, tutti, ci auguriamo, sia temporanea, assistiamo a proposte sconnesse e fuori luogo che propongono e mirano a modificare la natura giuridica dell’Istituto, affidandolo integralmente alla mano pubblica. Sarebbe una mutazione genetica. E un errore irreparabile. E chi pensa a ciò sbaglia.

Si può e si deve evitare che l’Irst Dino Amadori venga “statalizzato”, assorbito, omologato. Perché se mai dovesse diventare una struttura interamente pubblica, mio padre lo diceva chiaramente: sarebbe la sua fine. La fine della sua idea. La fine della sua missione. E a chi oggi dubita che questa fosse davvero la sua volontà, rispondo con le sue stesse parole di un articolo del 23 febbraio 2017, pubblicato da un quotidiano locale, dal titolo: «La politica vuole controllare l’Irst. Vigileremo perché non accada mai», il professor Dino Amadori, mio padre, dichiarava senza ambiguità: «Purtroppo stiamo vivendo un maldestro tentativo di acquisizione del controllo all’interno dell’Irst per renderlo dipendente da un punto di vista politico. […] Si tratta di un’operazione irrispettosa. I privati giustamente non vogliono che le loro quote vadano in mani politiche. Il rischio maggiore è che il presidente scelto non possa più essere scelto da noi. La Regione vuole accentrare … dobbiamo vigilare su ogni passaggio…».

Parole nette. Impossibili da equivocare. “La politica stia lontana dall’Irst” era la sua sintesi, il suo monito, il suo lascito. E oggi non possono essere accettate passivamente le parole di “chi“, con visione miope, sta affermando che la trasformazione dell’Irst debba essere quella in una struttura pubblica. Personalmente ritengo, ovviamente, che l’attuale situazione economico-finanziaria dell’Irst non possa e non debba neppure essere affrontata gravando sulla generosità ed elargizioni dei malati oncologici, né sulla memoria di chi ha voluto bene al professor Dino Amadori e tutti i medici che con lui hanno contribuito e contribuiscono ad avere reso ciò che oggi è l’Istituto. E, personalmente, ritengo non si possa neppure pensare o programmare di risanare il bilancio ricorrendo a destinazioni del 5×1000 pensate per sostenere la ricerca e non per colmare disavanzi gestionali. L’Irst non è una fondazione di beneficenza. È un istituto di ricerca avanzata. E come tale, deve essere sostenuto con strumenti adeguati, responsabili, all’altezza del suo ruolo.

Per questo, oggi lancio una provocazione o, meglio, e un appello e un invito a tutti gli imprenditori romagnoli di buona volontà, mecenati, realtà produttive del territorio, che con senso di responsabilità e condivisione dell’eredità etica e scientifica del professor Dino Amadori, possano contribuire concretamente a superare questo momento delicato: nel rispetto dello statuto e certamente con visione e lungimiranza per fare ciò che va fatto! È infatti il tempo di atti concreti. Di gesti forti. Di un nuovo patto civico tra il mondo imprenditoriale romagnolo (la forza della nostra terra) e l’Istituto che porta il nome di chi ha dedicato tutta la sua vita a curare proprio noi, i suoi romagnoli: “Dino Amadori”.

Perché è bene ricordarlo: il primo obiettivo del professor Dino Amadori non era astratto. Non era teorico. Era umano. Concreto. Radicato. Voleva curare la sua gente. I suoi concittadini. I romagnoli. Solo dopo, con visione e ambizione, pensava all’Italia e all’Europa. Ma sempre partendo da qui. Dalla Romagna. Tradire questa visione significherebbe spezzare un legame che non è solo scientifico, ma culturale, umano, comunitario: e soprattutto è romagnolo. E infine – lo dico con chiarezza – basta con i cappelli ideologici e politici calati su questa vicenda da parte di certi personaggi “di passaggio”, che nulla sanno della storia dell’Irst, e che parlano solo per sentito dire e che vogliono solo “metterci il cappello” lucrando visibilità su questa delicata vicenda. Una visibilità fine a sé stessa che fa male all’istituto e, quindi, a tutti noi.

Giovanni Amadori

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *