Forlì 1800: Minghino e la sua Tudina (seconda parte)

Immagine boh

1A. Canova: La danzatrice con il dito al mento ( Danzatrice Manzoni),

2- L’omicidio,

3- A. Canova: Il Cenotafio (stele funeraria).

Abbiamo lasciato l’interno del palazzo Manzoni salendo lo scalone disegnato da G. Missirini. Abbiamo visto Demetra e parlato di Cloris, due belle opere della bottega faentina Ballanti Graziani. Ora iniziamo a parlare di un’opera che surclassa tutto quello che abbiamo visto finora, vogliamo trattare della Danzatrice con il dito al mento di Antonio Canova. E’ necessario precisare che di quest’opera canoviana non esiste alcuna immagine. Solo un bellissimo abbozzo in gesso datato 1809 è esposto nella raccolta di Marella e Giovanni Agnelli nel Lingotto a Torino. Manzoni sempre alla ricerca di un riconoscimento e di un prestigio pubblico, vuole arricchire la sua dimora con le opere dei migliori e più famosi artisti del suo tempo: Antonio Canova e Felice Giani. Manzoni trovò proprio in loro, i maggio­ri artisti cui si rivolse, gli strumenti con cui nobilitare la propria ricchezza e, come si dice, farsi un’immagine nuova.

E’ in questo periodo che molte famiglie forlivesi si arricchiscono acquistando i beni demaniali dismessi dal regime napoleonico. Fu il caso delle famiglie Manzoni, Guarini, Gaddi e tante altre. Così Domenico Manzoni, come abbiamo visto parlando del palazzo, acquistò anche l’Abbazia di S. Maria di Urano a Bertinoro, chiamata in casa loro, la Badia. Le importanti famiglie forlivesi non s’indirizzarono al solo acquisto di opere d’arte, ma s’impegnarono in grandi progetti di ristrutturazione e valorizzazione dei loro palazzi coinvolgendo artisti come l’architetto Giuseppe Missirini, il pittore Felice Giani ed tanti altri artisti locali e non. Tra i primi a muoversi fu nel 1805 Domenico Manzoni acquistando Palazzo Morattini su Borgo Schiavonia. Forlì, dunque in questo periodo, è un cantiere, un laboratorio in piena attività, e la volontà delle famiglie di arricchire le proprie residenze dà stimolo all’arte e agli artisti.

Però solo Domenico Manzoni, unico fra tanti veri nobili o presunti tali, vuole nella propria casa l’opera di un unico grandioso artista: Antonio Canova. Solo più tardi sarà scolpita la famosa Ebe per la contessa Veronica Zauli Nardi Guarini. La data posta sulla ricevuta del saldo del pagamento di 4.400 scudi romani è il 29 luglio 1818 ed è firmata da Antonio Canova. Nel 1887 l’opera fu venduta dagli eredi di Veronica al Comune di Forlì. Antonio Canova affrontò il soggetto delle danzatrici più volte, sperimentando sempre nuove pose e diversi ritmi compositivi nel tentativo di risolvere il rapporto fra corpo e panneggio. Domenico Manzoni, come abbiamo visto, grazie ai buoni rapporti suoi e della moglie con Pietro Giordani riesce ad ottenere l’impegno di Antonio Canova per realizzare per lui una scultura.

Questa sarà la “Danzatrice col dito al mento” conosciuta come Danzatrice ManzoniPossedere un’opera di Canova, aveva sempre sostenuto Pietro Giordani, era come essere “agguagliato ai prìncipi”. Certamente riuscire a ottenere un’opera dal grande scultore non era un’impresa facile e in questo fu decisi­vo l’intervento di Pietro Giordani che abbiamo già visto legato da particolare familiare amicizia con i coniugi Manzoni, ma anche in stretto, intenso rapporto culturale e artistico con Antonio Canova. Giordani, andando a Ro­ma nel 1811 in veste di intermediario, riesce ad ottenere la Danzatrice col dito al mento, sì proprio per Domenico Manzoni.

Giordani, che aveva già visto l’opera, aveva pensato alla Danzatrice, oltre che per l’indiscussa bellezza dell’o­pera, anche perché il suo volto gli ricordava la fisionomia della moglie di Manzoni, Gertrude, la bella Tudina co­me era chiamata in famiglia e tra gli intimi. La Danzatrice rappresentava una fanciulla col capo reclinato e sorretto dall’indice della mano destra, con i capelli raccolti e le vesti mosse e leggermente trasparenti. Fin dal 1809 era modellata nello studio nell’attesa di essere realizzata in marmo che sarà marmo bianco, l’elemento perfetto per creare l’illusione del sottilissimo velo che copre le gambe della figura.

Si trattava di una delle creazio­ni più felici di Canova. Faceva parte della serie iniziata con la Danzatrice con le mani sui fianchi, eseguita per l’imperatrice Giuseppina, seguita dalla no­stra Danzatrice col dito al mento e infine da una terza, la Danzatrice con cembali scolpita per il conte Andrea Kyrillovič ambasciatore russo a Vienna… e poi in mezzo c’è quel tal Manzoni…provinciale romagnolo… Con questa statua, lui, discusso e discutibile personaggio della provincia forlivese, si portava al livello di un’imperatrice o di un ambasciatore in una grande capitale EuropeaIl prezzo stabilito per la Danzatrice era di 4.400 scudi, come abbiamo visto identico a quello che avrà l’Ebe.

Quando nel 1814 a marmo ormai terminato, era sempre più evidente il ritardo nel saldo dei paga­menti, Giordani ebbe con Manzoni una dura polemica. Manzoni si affrettò allora a rispettare i suoi impegni, ma pregò lo scultore di trattenere ancora l’opera in attesa di tempi meno rischiosi per i trasporti, dato che Napoleone era impegna­to sul fronte russo, e soprattut­to perché l’ambiente, nel suo palazzo, in cui doveva essere collocata la danzatrice, non era ancora pronto. L’opera fu completata, ma mai consegnata personalmente a Domenico Manzoni, perché la scultura arriverà alla famiglia nel 1818, e lui purtroppo era già stato ucciso. Ugualmente la statua fu inserita nel palazzo.

La vedova, Geltrude Versari, probabilmente per necessità economiche, nel 1830 la vendeper 5.000 scudi all’ambasciatore russo a Roma Nicola Dimitrievic Guriev, il quale alla fine del suo mandato la porterà con sé a San Pietroburgo, sua città d’origine. E qui a S.Pietroburgo di quest’opera canoviana  si perderanno le tracce. Inutili le infinite ricerche, anche in tempi recenti, da parte di diversi personaggi come il ricercatore della terza università di Roma, Enzo Borsellino e lo studioso forlivese Alvaro Lucchi. Manzoni, che avrebbe desiderato che fosse Giani a de­corare la stanza a cui era destinata la Danzatrice, fu costretto a ripiegare, visti i desideri di Canova, su un artista meno importante, Gaetano Bertolani, con una “sem­plice pittura a chiaro-scuro”.

Così nella sala per la Danzatrice, viene rappresentata una allegorica figura femminile che incide il nome di “Canova”, accanto alla parola “Eternità”. Era evidente che lo scultore preferisse una de­corazione che non disturbasse la sua opera, come sarebbe accadu­to se l’incarico fosse stato affida­to a Giani. Del resto i mondi dei due grandi artisti non erano molto com­patibili pur nell’ambito del neoclassicismo, arrivato in Romagna attraverso Faenza (palazzo Milzetti). L’olimpico Canova rappre­sentava il lato apollineo del Neoclas­sicismo, l’eccentrico Giani quello, diremmo, più tormen­tato o come lo ha definito Giovanni Testori in un lontano articolo sul Corriere “funebre e delizioso”. Il 29 gennaio 1818 Giordani chiede a Tudina da Milano: “Avete ancora collocata la danzatrice? Io spero di rivedere quel vostro ritratto e voi in persona quest’estate.” E così chiudiamo queste pagine con la danzatrice e ancora una volta con le parole di Giordani rivolte alla Tudina….

2 – L’OMICIDIO

Anche se in modo sommario abbiamo già anticipato la tragica fine del nostro personaggio, ma se vogliamo andare con ordine ecco la successione dei fatti. Verso le nove e mezzo di sera di lunedì 26 maggio 1817, Domenico Manzoni si reca a Teatro dove già lo aspetta sua moglie Geltrude. Lui è in compagnia del dott. Antonio Lej, per parecchi anni Segretario generale della Prefettura di Forlì durante il Regno Italico (1805-1814). I due sono amici da tempo, molto tempo. Troviamo Lej in confidenza familiare con i Manzoni fin dal 1807, per cui è possibile, come è stato detto, che Lej, oltre che amico, fosse anche il segretario personale di Domenico. Giunti sotto l’arco ancora esistente fra via S. Croce, ossia via Canestri e via del Teatro, ossia Mameli, è assalito da uno sconosciuto a colpi di stilo. Un’arma micidiale, lama da 16 a 20 cm., sottile da 14 mm a zero. Impugnatura ampia, un’arma tendenziosa e subdola.

Manzoni ha le prime cure in una casa vicina dove viene chiamato il Dott. Giovanni Geremè Santarelli, chirurgo, assistente di Gerolamo Versari. Poi il ferito viene portato in lettiga alla propria abitazione. Qui si preoccupa di chiedere al chirurgo se vi è qualche speranza. Perduta anche questa, fa subito testamento nominando esecutore il marchese Luigi Paolucci. Sulle tre e mezza della notte Domenico Manzoni muore. Quindi per esatta informazione Domenico Manzoni muore martedì 28 maggio 1817. Non fu mai trovato il colpevole e anche le motivazioni di questo tragico fatto di sangue sono rimaste avvolte nel mistero. Diver­se le ipotesi: 1- vendetta popolare, visto che Manzo­ni era ritenuto responsabile di aver affamato i forlivesi per essersi arricchito speculando sul prezzo del grano; 2- motivazioni di carattere personali; 3- matrice politica e Carboneria mandante dell’omicidio.

Per quanto riguarda il primo e il secondo punto non c’è nessun elemento che possa chiarire il gesto che abbiamo descritto. Infatti la vendetta popolare viene subito scartata perché non è costume dei cittadini forlivesi fare violenza privata a nome di tutti. Non ci si insanguina le mani per un astratto senso di giustizia. Il secondo motivo gira a vuoto attorno ad un nome che per parecchio tempo viene additato come quello del mandante. E’ il Conte Alessandro Guiccioli di Ravenna marito di Teresa Gamba, donna dalla intensa vita sentimentale e celebre amica di Lord Byron. A suo tempo il ravennate aveva avuto un gravissima lite con Manzoni che aveva vinto una causa giudiziaria contro di lui. Per quale problema ? Impossibile saperlo. Anche questo Conte, talvolta Marchese, viene definito (1812) “…tomo circospetto solo intento ad accrescere e moltiplicare le sue grandi fortune… Insomma un personaggio quasi come il nostro Manzoni e se vogliamo anche come Domenico Matteucci, del quale, in altra occasione, abbiamo già parlato. Compare in questo chiacchericcio anche Lord Byron, come risulta da una sua lettera del 17 maggio 1819 a John Cam Hobhouse, in cui indi­cava il conte Alessandro Guiccioli come mandante dell’omicidio Manzoni. Ancora oggi a Ravenna si parla di Palazzo Guiccioli. Infatti è diventato sede del Museo Byron e del Museo del Risorgimento.

Da ricordare che la morte violenta del nostro personaggio non è un fatto che, soprattutto allora, potesse essere ignorato. E’ un forlivese di alto rango e le autorità hanno per lui il massimo rispetto. Infatti apparteneva al Consiglio Comunale e, forse, era anche uno degli Anziani ( oggi Assessori). Di nemici, come detto, ne aveva a iosa. Pare, dunque, plausibile che la sua fine possa essere stata un regolamento di conti all’interno dell’ambiente carbonaro. Un secolo dopo l’omicidio, lo storico Oliverotto Fabretti imputerà questo gesto alla Carboneria forlivese (“La vendita dell’Amaranto”) cui inizialmente Manzoni aveva aderito. Il 9 giugno 1817 il Legato di Forlì Cardinale Giuseppe Spina emana una Notificazione con la quale viene fatta pubblica promessa di un premio di 500 scudi e la piena impunità per chiunque rivelasse l’autore o gli autori del misfatto. Nessuno si presenta. E le indagini non scoprono alcunchè.

Però, però… nel 1824 uno sconosciuto settario rivela alla polizia bolognese che la morte di Manzoni era stata decisa dalla Vendita di Forlì detta Zampa di Leone e che l’omicida era stato il caporale di finanza Vincenzo Rossi detto Cortellaccio. La famosa sentenza Rivarola del 1825 condannava alla galera a vita Vincenzo Rossi. A quanto è dato sapere Rivarola accettò le rivelazioni anche se non sempre esatte. Ma perchè i Carbonari forlivesi avrebbero decretato la morte di Manzoni? Chi di dovere ebbe il sospetto che Manzoni avesse fatto gravi rivelazioni al Commissario di Polizia di Forlì. Allora anche “Minghino” era un carbonaro? Pare di sì. E per i suoi vecchi sodali anche una spia.

E’ risaputo che poco prima del suo omicidio si reca a Roma per ottenere dal governo concessioni e privilegi in fatto di incetta e rivendita di grano, per conseguire, approfittando della carestia, enormi guadagni finanziari con finalità speculative e illecito profitto personale e in particolare per troncare qualsiasi rapporto con la Vendita e la Carboneria e quindi guadagnare rispetto presso il potere pontificio. Questa sua mossa però lo perde e il viaggio a Roma decreta la sua condanna a morte. Tutto questo grazie alle ricerche di Oliverotto Fabretti, un secolo fa.

3- Il CENOTAFIO dedicato a Domenico Manzoni

A. CANOVA : LA STELE FUNERARIA

La moglie Geltrude Versari ora vedova Manzoni si rivolge subito a Canova per chiedere una stele funeraria in ricordo del marito, questa volta senza l’intercessione di Giordani. Fatto per me incredibile, anche perché la corrispondenza fra i due la troviamo anche nel 1840 e nel 1843 Giordani scriverà l’epitaffio in memoria del padre di Tudina, il famoso medico forlivese Girolamo. Questa volta l’intercessione è altrettanto autorevole, forse di più, ed è quella del forlivese Melchior Missirini, segre­tario e poi biografo ufficiale di Canova (anche lui compone un epitaffio sul padre di Tudina). In una lettera scritta al fratello dello scultore, Giambattista Sartori in data 21 giu­gno 1817, è espresso il desiderio della “vedova desolata, del comune amico Manzoni, che fosse “ripara­to a’ suoi figli l’orrore dell’immatura e infelice fine del padre, col decoro immortale del monumento”. Anche questa volta Canova accettava l’incarico e Forlì ebbe un’altra sua importante opera, la bellissima stele dedicata al defunto, collocata nel 1818 nel pilastro fra la prima e la seconda cappella di sinistra nella chiesa della Santissima Trinità che, come ben sappiamo, è proprio a fianco di palazzo Manzoni.

Oggi è praticamente impossibile vederla perché la chiesa è sempre chiusa. Ho esagerato? Quasi sempre…chiusa… L’iconografia segue quella dei sepolcri realizzati da Canova dal 1783, con una figura piangente vestita e pettinata alla classica, realizzata con linee pure e delicate, esaltate dalla scelta, in linea con il Neoclassicismo, del marmo bianco. Deve essere proprio lei: la vedova di Domenico Manzoni, Gertrude . Infatti è il suo nome che apre la dedica, dei famosi otto versi in latino. Gertruda Versariache è rappresentata in modo rassegnato davanti alla morte del marito.

Ad Antonio Canova questo suo ultimo lavoro di genere funerario riuscì in una forma anche superiore ad altri sepolcri eseguiti, per cui a ragione il dottissimo canonico Prof. Schiassi espresse un nuovo e importante concetto: Manzoni (Domenico) era stato fatto degno di vivere eternamente con l’arte canoviana; chiamando l’arte scultorea con il suo nome (di Canova). Filippo Schiassi bolognese (1763-1844) è stato un famosissimo grecista, latinista ed epigrafista ed ha composto anche le iscrizioni poste sulla stele di Manzoni. Non è cosa da poco! Mi chiedo sempre come facessero i Manzoni ad essere così introdotti negli ambienti bene della cultura non solo locale ma nazionale. Queste le parole della vedova Geltrude Manzoni che illustra questo monumento a Giordani nella lettera del 17 gennaio 1818, dove in una nota in calce scrive:

Il cenotafio è formato da un quasi alto rilievo di marmo di Luni di forma rettangolare, alto otto piedi circa, e largo poco più della metà. In esso è scolpita una figura femminile di grandezza al naturale …, e che pare che pianga sopra una piccola urna a cui si appoggia. Quest’urna …fingesi che accolga le ceneri … Due iscrizioni sono state poste: una sul sarcofago relativa al defunto e l’altra sulla base, relativa alla vedova dedicante il monumento: l’una e l’altra del Professor Schiassi.” Pietro Giordani a cui è indirizzata la lettera così si rivolge a Geltrude: Quando avrete il monumento? Dove lo collocherete? Bisognerà che io ne abbia una descrizione: parendomi cosa importante il potere dire come quel divino siasi degnato fare perpetua la memoria del nostro amico.

Al di là delle parole di Tudina ecco una descrizione più attuale della stele che è una lastra trapezoidale di marmo bianco di metri 2,95 x 1,43, sulla quale è scolpita, in altorilievo, la scena di una giovane donna seduta che piange, col busto piegato in avanti e la testa poggiata sulla mano destra. La donna è seduta su di uno scranno, davanti a un’urna funeraria sulla quale è scritto Cineres Dominici Manzoni Faventini”. La lastra è sormontata da un timpano triangolare al cui interno è scolpita, in rilievo, una ghirlanda con nastro.

Nella parte inferiore del monumento, una lastra marmorea rettangolare reca incisa una epigrafe, del Prof. Schiassi, sono otto righe in latino. Eccone una semplice traduzione: Gertrude Versari e i figli, il marito e il padre, uomo incomparabile, di intelletto ardente e di singolare beneficenza, piansero essendo stato ucciso dal delitto di un traditore. ”…qui proditoris scelere extintus est”. Da notare poi quest’ultima affermazione: Canovae arte in aevum spiret, con l’arte di Canova, viva nell’eternità. Se Manzoni sia stato una spia, un affamatore del popolo o un uomo capace, non si saprà mai. Il suo nome però sarà per sempre legato all’arte, sia perché questo suo cenotafio è un capolavoro, sia perché la “Danzatrice col dito al mento” è anche detta “Danzatrice Manzoni”.

Questo è tutto, forse anche troppo. Ma se Canova si è impegnato come ancora oggi ammiriamo, anche noi possiamo sforzarci per conoscere questo nostro personaggio forlivese. Anche se del passato. Abbiamo così tratteggiato la vicenda esistenziale di questo fuoriuscito faentino che ancora giovanissimo trova nell’ambiente forlivese il suo spazio esistenziale che lo incorona ricco, ricchissimo e inserito negli ambienti che gli consentono di avvicinare personaggi sempre più importanti. Sì è Massone, sì è Carbonaro, ma soprattutto come abbiamo detto è mostruosamente ricco. La sua una vita densa di avvenimenti che lo coinvolgono ed anche travolgono fino all’atto finale della sera del 26 maggio 1817 in cui chiude la sua avventura. In definitiva chiusura di questo nostro piccolo lavoro rinnovo i miei ringraziamenti a quanti mi hanno offerto il loro aiuto come il Conte Fabri Guarini e le persone del suo entourage. Grazie, alla prossima avventura nel tempo.

Agostino Bernucci

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