Nel 2013 il forlivese Alberto Casadei, professore di letteratura all’Università di Pisa e collaboratore della Scuola Normale Superiore, ha dato alle stampe un libro “Dante oltre la Commedia“, edito dal Mulino, che ha fatto molto discutere per le proposte e le tesi innovative che propone. Quando gli è stato chiesto perché il sommo poeta è diventato una sorta di icona mondiale ha risposto: “Potremmo dire che Dante col Paradiso, che propone l’invenzione di un mondo immaginario, filosofico e teologico, sia stato il primo scrittore di fantascienza della storia. Questa inventività del poema dantesco ha fatto si che esso possa essere letto e reinterpretato e in questo caso ci troviamo di fronte a un fatto memorabile, anche perché scritto in terzine, una forma metrica suggestiva e adatta anche a un racconto. Dante, conclude Casadei, è stato in grado di unire le più eccelse questioni filosofiche e teologiche con la storia dei suoi tempi, persino la più bieca: è così, per esempio, che riesce a fare di Ugolino, di Manfredi o di Piccarda Donati dei personaggi indimenticabili”.
Già, la storia dei suoi tempi! Ma da dove e come Dante Alighieri (Firenze 1265 – Ravenna 1321) raccolse le informazioni per scrivere la storia dei suoi tempi? Don Pompeo Nadiani, nato a Dovadola nel 1894, valente latinista e cultore di Dante, ipotizza che il fuggiasco per raggiungere Forlì, dopo aver passato Rocca San Casciano, stanco, solo, povero, raggiunse Dovadola dove chiese ospitalità al castello e il castellano Salvatico Guidi, contemporaneo del poeta, l’ospitò volentieri. I due probabilmente si conoscevano, anche perché Salvatico Guidi nel 1282 fu eletto capitano della Taglia Guelfa, la “confederazione” dei Comuni guelfi in Toscana, nel 1286 comandante dell’esercito fiorentino contro i Pisani e due anni dopo chiamato a ricoprire la carica di podestà di Siena. In base alla tesi di Nadiani, Dante incontrò a Dovadola anche Manetessa figlia di Buonconte da Montefeltro. Buonconte si distinse nel 1287 nelle lotte tra guelfi e ghibellini ad Arezzo ed ebbe una parte notevole nella cacciata dei primi dalla città. Nel 1288 fu tra i capitani che comandarono vittoriosamente lo scontro con i Senesi alla Pieve al Toppo, località a circa dieci chilometri da Arezzo, sulla strada che porta a Siena, e l’anno successivo guidò i ghibellini di Arezzo contro i Fiorentini.
Dante si scontrò l’11 giugno 1289 a Campaldino con Buonconte; quest’ultimo si comportò valorosamente sul campo di battaglia e vi trovò la morte. Non par vero a Manetessa di conversare con Dante, il fiorentino colto, letterato e poeta. C’è un’altra donna nella famiglia del castello in rapporti di parentela con i Guidi, è la figlia di Paolo Malatesta, Margherita, nata dal matrimonio celebrato nel 1263 con Orabile Beatrice, l’ultima erede dei Conti di Giaggiòlo, un feudo poco distante da Dovadola. Suo padre, che va ricordato per essere stato, tra l’altro, Capitano del Popolo di Firenze nel 1282, dove probabilmente anche lui conobbe Dante, fu l’amante di Francesca. Sorpresi gli amanti, dal fratello e marito, furono uccisi. Episodio per il quale Dante scrive versi memorabili che, a oggi possiamo dire immortali: “Amor, che a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer si forte…”.
Dante, sempre secondo Nadiani, ascolta e impara la storia di Paolo e Francesca attorno ai grandi camini che riscaldavano con grandi fuochi le stanze della Rocca dei Conti Guidi. Se è andata così, non è dunque un caso che il racconto della storia romagnola per eccellenza, quella di Paolo de Malatesti di Rimini e Francesca da Polenta, cognati, che trascorrono le loro giornate “cortesi…per diletto e sanza alcun sospetto” impegnandosi nella lettura di un libro (“Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse”: Inferno, Canto V) in cui si narra la romanzesca vicenda di Re Artù, Ginevra, Lancillotto e Galeotto, con dame antiche e cavalieri a far da sfondo, non è un caso che abbia un ruolo così rilevante nella Commedia.
Il messaggio dantesco, quando l’analfabetismo era dominante, dovette apparire subito travolgente e di grande impatto emotivo. Tanto che ancora oggi ci si chiede in quale località della Romagna sia avvenuto il tragico evento. Gradara si è appropriata della storia sostenendo che avvenne presso quel castello, ne ha fatto un giro d’affari turistico di grande rilevanza e questo ci dovrebbe far riflettere.
Con Paolo e Francesca Dante costruisce un dramma, quello dell’amore che non può dominarsi, dello strazio di una passione che ubriaca i sensi. Dante racconta una favola, tramuta, per pura virtù di una poesia straordinaria, una pagina di cronaca nera nel mito dell’amore rapinoso, alla cui forza nessuno può resistere: l’amore è tale, quando è tale, tanto da ricordarci che: “L’amore ha degli dèi la divina potenza e nessuna potenza può resistergli… E se poi l’amore fosse infermità e cecità della mente, chi ne è preso è semmai vittima della sventura, non colpevole”. Insomma, la poesia impareggiabile di Dante, nel più grande canto d’amore che fantasia di poeta ci abbia consegnato per affinare la nostra anima.
Diversi avvenimenti raccontati nella “Divina Commedia” Dante li visse personalmente. Dai documenti di Pellegrino Calvi, cancelliere del Comune di Forlì, le cui notizie sono riportate dall’umanista e storico forlivese Biondo Flavio, si evince che nel febbraio-marzo del 1302 anche Dante, appena esiliato, avrebbe soggiornato insieme con altri fuggiaschi a Forlì, trovando asilo presso Scarpetta degli Ordelaffi divenuto Capitano generale dei guelfi bianchi in esilio, per i preparativi di guerra contro i guelfi neri e per sollecitare aiuti militari a Bartolomeo della Scala, signore di Verona. Dopo che Dante, in qualità di capitano dell’esercito degli esuli, ebbe organizzato insieme a Scarpetta degli Ordelaffi un tentativo non riuscito per rientrare a Firenze, ancora esule, fu ospite di diverse corti e famiglie della Romagna, e saltuariamente, forse, sempre fra il 1302 e il 1308, degli Ordelaffi, signori ghibellini di Forlì. La sconfitta patita nel tentativo di occupare il castello di Pulicciano fu particolarmente grave. La presa del maniero, a poca distanza da Borgo San Lorenzo, avrebbe consentito il controllo della principale via di comunicazione del Mugello. Qui verso la metà del 1303, i Bianchi e i loro alleati furono sbaragliati dai fiorentini guidati dal podestà Fulceri da Calboli. Oltre che tra fiorentini, si trattò di uno scontro tra forlivesi dal momento che la famiglia guelfa dei Calboli era rivale di quella ghibellina degli Ordelaffi, dai quali era stata esiliata da Forlì nel 1294. L’odio nei confronti degli Ordelaffi può anche spiegare la particolare crudeltà riservata da Fulceri ai vinti, crudeltà, peraltro, di cui Fulceri diede prova per tutto il corso della sua podesteria, tanto che i cronisti lo descrissero come “uomo feroce e crudele” e Dante, nel Purgatorio, ne tracciò un impietoso ritratto come “cacciator” di carne umana.
Ma come apparve la Romagna a Dante sia quella dell’esilio, sia quella che conosceva da prima, quando, componente, come sostiene Angelo Chiaretti nel volume “Dante Alighieri primo turista in Romagna”, editrice Pliniana, 2013, di una “brigata godereccia e spendereccia” di giovani fiorentini benestanti e acculturati sciamano periodicamente in Romagna attraverso i passi appenninici, attratta da quel che resta dell’antica Roma (Romagna=Romania=Piccola Roma), ma anche dal binomio amore-gastronomia, da sempre celebre nelle nostre terre. “Vitelloni” felliniani “ante litteram” ammirano le rovine imperiali e gli splendidi mosaici di Ravenna, conoscono i primi componimenti poetici del “fin amor” cortese, toccano con mano la protervia delle dinastie emergenti (Malatesta, Da Polenta, Ordelaffi, Manfredi, Bentivoglio, ecc.), si lasciano portare dalle suggestioni del “tremolar della marina” (Purgatorio, canto primo), frequentano le giovani donne dalla mascolina inflessione linguistica, progettano viaggi verso il Medio Oriente costeggiando le agevoli rive del Mare Adriatico.
Dante resta folgorato dalla nostra terra, tanto da proiettarsi completamente nello spirito romagnolo dicendo di sé “fiorentino di nascita ma non di costumi” ed affermando che gli Alighieri, attraverso il trisavolo Cacciaguida degli Elisei, militare crociato nato a Firenze nel 1091 circa e morto in Palestina nel 1148 circa, derivano da antiche famiglie romane, la più antica delle quali è la Gens Anicia, di cui fecero parte, tra gli altri, Santa Vittoria, Santa Anatolia, San Gregorio Magno, Sant’Ambrogio, Severino Boezio, Galla Placidia e l’imperatore Giustiniano.
Romagna terra di paradiso, dunque, tant’è vero che Dante colloca l’Eden terrestre “in sul lito di Chiassi” (Classe di Ravenna) all’interno della celebre pineta, in cui “un’aura dolce sanza mutamento” accarezza la sua fronte ormai libera dalle pene del purgatorio e lo rende “puro e disposto a salire a le stelle”. Se la Romagna è “terra di paradiso” dal punto di vista paesaggistico e architettonico, il paradiso non è certo il luogo per i suoi abitanti e per i protagonisti della storia romagnola tant’è che nessun romagnolo si “guadagna” il paradiso, anzi Dante li colloca tutti all’inferno.
Uno stupendo passaggio del Convivio ci fa comprendere l’anima dell’esule, cacciato dalla sua città, il poeta andò “per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, mostrando contro sua voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato essere immutata”; e in tale condizione egli fu “legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade”. Tra porti così numerosi, la Romagna gli portò bene, sperimentando di persona come corrisponda al vero il gran mito dell’ospitalità romagnola, generosa e magnanima, ora presso il forlivese Scarpetta Ordelaffi, ora – dopo l’ospitalità di Bartolomeo della Scala e dei Malaspina – presso la corte ravennate di Guido da Polenta.
Nell’importante volume “Signorie di Romagna”, nelle cui pagine è il fondamento di tutta la storiografia romagnola della seconda metà del Novecento, John Larner ha scritto che la Romagna: “lasciò nel poema di Dante una traccia inferiore soltanto a quella della sua natia Toscana. I fiumi della provincia scorrono attraverso la Divina Commedia: il Santerno, il Lamone, il Savio e il Montone che rimbomba precipitando tra le montagne sopra San Benedetto. Nelle sue pagine gli antichi romagnoli vivono ancora; la piccola nobiltà cittadina, i briganti degli alti passi appenninici, i signori corrotti, tutti giungono a immortalità”. Tutto ciò ci consente di ripercorrere la storia delle signorie di Romagna, signorie che hanno tratti in comune tanto è simile il percorso che affrontarono per affermarsi: 1) la provenienza delle famiglie, che avranno nei loro elementi di spicco la capacità di imporsi, fu in genere dalle zone periferiche dei circondari cittadini (soprattutto dalla collina); 2) la formazione di un cospicuo patrimonio fondiario e di solide alleanze politiche; 3) la loro affermazione che avvenne nell’ultima fase dell’età comunale. Fu così per i Malatesta a Rimini, quando nel 1295 “il mastin vecchio” di dantesca memoria assunse il governo di quella città con un sanguinoso colpo di mano; fu così per i Da Polenta, la prima casata della regione ad acquisire una signoria di fatto nel 1275 a Ravenna e proprio grazie al fondamentale appoggio dei Malatesta.
All’inizio del 1300 seguiranno la stessa sorte anche gli altri centri maggiori. Forlì nel 1303 con gli Ordelaffi, Faenza nel 1313 con i Manfredi, Imola nel 1334 con gli Alidosi. Solo Cesena conoscerà una situazione più instabile, oscillando fra governi diversi, fra “tirannia” e “stato franco”, per usare le parole di Dante che diede della Romagna questa immagine: “Romagna tua non è, e non fu mai / sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni…”. Citazione necessaria quando si parla della nostra terra tra Due e Trecento, nella fase culminante che portò al definitivo tramonto delle istituzioni comunali e all’imporsi dei regimi signorili con il governo delle comunità che divenne “affare privato” delle casate egemoni e di oligarchie sempre più ristrette. Malatesta, “il mastin vecchio”, ne divenne uno dei maggiori esponenti nell’area fra Romagna e Marche, sfruttando le proprie capacità politiche e militari, oltre che un’oculata strategia familiare. Il primo dei suoi tre matrimoni, ad esempio, lo unì ad una esponente dei Parcitadi, della famiglia ghibellina allora egemone a Rimini che primeggiò in città nell’epoca comunale, fu poi sgominata nel 1295, dopo una lotta furibonda durata tre giorni per le strade di Rimini, cadendo in un’imboscata tesa proprio dai Malatesta. Una tattica, quella dei matrimoni combinati, che avrebbe replicato successivamente anche con i quattro figli, tra cui il primogenito Giovanni (Gianciotto) che prese in moglie Francesca da Polenta, e Paolo, “il bello”, marito di Orabile Beatrice. I rapporti tra i due fratelli ebbero un esito tragico, questo però non impedì l’ulteriore ascesa della famiglia, sia pure attraverso un susseguirsi di conflitti e di vicende poco chiare. Qui entra in gioco Orabile Beatrice dei Conti di Giaggiolo, silente testimone di vicende intricate che coinvolsero i Malatesta, i Montefeltro, i Conti Guidi. Ultima discendente di una nobile famiglia di origine bizantina nacque nel 1254. Quindicenne ereditò il vasto territorio della contea di Giaggiolo. Defunto il padre, mancando eredi maschi, diventò il “sogno proibito” di molti signori dei territori confinanti. La spuntò Malatesta da Verucchio, detto anche il “centenario”, il quale nel 1269 riuscì a combinare il matrimonio tra il figlio Paolo e Orabile. Con questo atto l’astuto verucchiese si impadronì di un territorio altamente strategico e valido collegamento fra la Romagna e la Toscana, evitando nel contempo che se ne impadronisse Guido da Montefeltro, il quale avendo sposato una zia di Orabile vantava diritti sullo stesso feudo.
Giova ricordare che l’età comunale che stava per finire, fu sicuramente caratterizzata da una forte spinta di rinnovamento. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza”, sentenziò Dante Alighieri nel canto XXVI dell’Inferno per bocca di Ulisse, re di Itaca. Così come il Duecento è anche il secolo in cui iniziarono i grandi viaggi di esplorazioni, compiuti per ragioni commerciali o per motivi religiosi e, non di rado, per puro spirito di avventura. Tanto che, quello dei viaggi, risultò uno dei campi ideali per confrontarsi, anche sull’onda di alcuni avvenimenti che proprio in quegli anni fecero notizia e suscitarono scalpore: 1) il viaggio compiuto, tra il 1271 ed il 1295, dagli esploratori e mercanti veneziani Matteo, Niccolò e Marco Polo (1254 – 1324 coetaneo di Dante!), che attraversarono Persia, Turchestan e Mongolia, giungendo in Cina per restarvi ben 17 anni e poi ritornare in patria attraverso l’Oceano Indiano; 2) l’incredibile impresa dei fratelli genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi che si spinsero al di là delle Colonne d’Ercole (Stretto di Gibilterra) esattamente cento anni prima di Cristoforo Colombo; 3) la scoperta del “Paese di Prete Gianni”, personaggio leggendario molto popolare in epoca medievale di un misterioso regno cristiano situato al di là dei territori dominati dell’Islam; 4) le notizie che giungevano dalla Groenlandia Artica, una terra fredda e sconosciuta, che però faceva parte della cristianità; 5) l’incredibile scomparsa della flotta dei Cavalieri Templari all’indomani della partenza dal porto di La Rochelle (Francia), quando trasportare pellegrini verso i luoghi santi e sostenerli per la permanenza con i prodotti necessari (dal legname ai cavalli, dalle armi agli indispensabili cereali) diventò un grande affare che faceva gola a parecchi; 6) la leggendaria esistenza del Paese di Bengodi, luogo immaginario descritto da Giovanni Boccaccio; 7) la diffusione, ad opera di Brunetto Latini, del “Libro della scala”, che narra il viaggio del Profeta Maometto da vivo nel regno dei morti.
Tutto questo, fra realtà è fantasia, fra affari e suggestioni, sviluppò l’interesse per i viaggi, per le esplorazioni, per la conoscenza degli altri paesi e popoli che è rimasto intatto fino ai nostri giorni. Questo desiderio per il viaggio, per la conoscenza di posti nuovi può essere sfruttato dai nostri territori in chiave turistica? Raccontare con passione la nostra storia può avere una capacità di attrarre turistici? L’unire nostre peculiarità storiche, come l’ospitalità concessa a Dante che gli ha consentito di scrivere “La Divina Commedia”, il salvataggio di Garibaldi nel 1849 che ha permesso all’Eroe dei Due Mondi di svolgere un ruolo determinante per l’Unità d’Italia, nonché quello dei generali inglesi tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944 che ha restituito all’esercito britannico figure determinati per le sorti della guerra nel nostro paese; possono attrarre turistici interessati agli aspetti culturali e storici del nostro paese? Il far sapere che la nostra Romagna è attraversata da cammini della fede, come la “via dei Romei”, e che dalla nostra Romagna iniziano cammini della fede come quelli di San Vicinio (partenza da Sarsina) e di San Francesco (partenza da Dovadola), può attrarre camminatori-turisti? A mio avviso si e se ne intravedono già le grandi potenzialità. Prima però occorre conoscere la storia e saperla raccontare.
La Rubrica Fatti e Misfatti di Forlì e della Romagna è a cura di Marco Viroli e Gabriele Zelli