Il Canale di Ravaldino: da spina dorsale di Forlì a elemento naturalistico

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Fin dalla sua realizzazione il Canale di Ravaldino ha rivestito un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’economia locale e per assicurare la sussistenza primaria dei forlivesi, facendo funzionare i mulini collocati su di essa. Non a caso, lo storico forlivese Gianluca Brusi sostiene che questa infrastruttura sia stata la “spina dorsale della città di Forlì“.
Altro elemento fondamentale in questa storia è l’acqua, che un tempo vi correva abbondante, la cui ricchezza e qualità, secondo uno studio pubblicato nel 1996 dall’ingegner Siro Ricca Rosellini, già preside negli anni ’60-’70 dell’Istituto Tecnico Industriale “Guglielmo Marconi” di Forlì, hanno in alcuni momenti storici «privilegiato Forlì con periodi di floridezza non solo in campo economico e commerciale, ma anche in quello sanitario (si pensi che nel Medioevo il fiume Rabbi era, per la limpidezza e freschezza dell’acqua, chiamato Acqua-viva). La nostra città, nota per la longevità dei suoi abitanti, fu scelta un tempo, come tappa per i pellegrini che si recavano a Roma ed ebbe molti ospedali e validi medici. Nei periodi di guerra, poi, la ricchezza di acqua era molto utile per poter, in breve tempo, riempire i fossati, scavati a difesa delle mura cittadine».

Inoltre il canale era indispensabile per i lavatoi, per i maceri dove veniva messa a macerare la canapa, abbondantemente coltivata nel nostro territorio, e per irrigare orti e vigne che occupavano ogni metro quadrato, libero da costruzioni, del terreno entro le mura. L’acqua però non portò solo vantaggi. Infatti, i corsi di acqua che attraversavano un tempo la città di Forlì erano fiumi (o rami di fiumi) a carattere torrentizio, quindi costituivano una continua minaccia di alluvioni, tanto che le autorità preposte furono costrette a interessarsi, forse già prima dell’anno Mille, a difficili problemi di idraulica. Tra questi l’inserimento del fiume Rabbi nel Montone in località Bertarina (all’altezza dell’Ospedale “Morgagni-Pierantoni” e del Parco Urbano “Franco Agosto”, utilizzando riferimenti odierni), la rettifica dei meandri del Montone e, allontanati i fiumi dal centro della città nelle dimensioni di mille anni fa, lo scavo dei canali che dovevano portare l’acqua alla popolazione e agli orti, oltre che alimentare i mulini.

«Si procedette alla realizzazione di queste opere» – sostiene Siro Ricca Rosellini – «in date che solo in parte sono note, comunque sembra che la rettifica dei fiumi e la creazione di canali artificiali siano fatti abbastanza distanti tra loro e che l’idea che i canali venissero costruiti sfruttando il letto abbandonato dei fiumi vale solo, e non sempre, per l’interno della città. Infatti all’esterno ogni canale, per essere utile, deve scorrere mantenendosi più in quota possibile, sia che debba alimentare mulini o debba servire per le irrigazioni, mentre i fiumi naturalmente scorrono al fondo degli avvallamenti, con le pendenze che incontrano nel terreno. Certo che lo studio, i progetti, la realizzazione accurata di quelle opere idrauliche che in parte hanno resistito al trascorrere dei secoli e poi l’impegno per mantenere il tutto efficiente comportarono, anche se distribuiti nel tempo, investimenti molto cospicui. I governanti di Forlì furono aiutati nelle loro decisioni dalla necessità e utilità di allontanare i pericoli delle alluvioni e, per quanto riguarda i canali, dal fatto che su di essi vennero impostati i mulini che consentirono ai gabellieri, attraverso il macinato, di controllare la produzione agricola e di tassarla. Sicuramente ci fu all’origine anche un motivo di carattere militare che spinse Forlì a deviare e portare fuori dalle mura i fiumi perché il loro passaggio impediva alla cerchia delle mura di essere continua».

Esaminiamo a questo punto più nel dettaglio il Canale di Ravaldino: «Da uno dei due rami del Montone in luogo detto Calanco deriva un canale che traversando la città di Forlì dal Sud al Nord mette la sua foce nel fiume Ronco presso la Coccolia in quel di Ravenna. Sul canale suddetto ben venti chilometri esistono al presente nove opifici, quattro de’ quali al di sopra della città, due al di sotto e tre entro la medesima. Sono appellati i primi Vastione, Basse, Fico, Primo Molino; i secondi Barisano, Coccolia; gli altri Falice, Riva, Grata. Eccetto quet’ultimo che serve da industrie diverse, gli altri tutti sono destinati alla macinazione del frumento e granoturco. I proprietari de’ primi sei fra gli opifici suddetti, e di un settimo che fu demolito, con istrumento Porzi 22 aprile 1641 statuirono di unire in perpetuo l’entrata e rendita dei detti sette molini in un sol corpo e ciò per maggior utile e beneficio di tutti e per sfuggire e schivare molte spese superflue». Così nel 1871 Emidio Zoli scriveva nel suo studio “Sull’origine e dominio del Canale di Ravaldino”. Zoli cita Paolo Bonoli, illustre storico forlivese, fornendo un’immagine tratta da “La storia di Forlì dalle origini al 1661” del corso d’acqua che scorre «quasi sempre sotto bellissimi volti (arcate, n.d.r.) fatti con grande spesa sui quali sono fondati in più luoghi case e palazzi. Il canale, “oltre i molini che sopra di esso si trovano dentro e fuori, apporta grande utilità per gualcherie, lustrar panni, e per dare l’acqua alle fosse delle mura nelle occorrenze in un subito, così per rendere netta la città di ogni bruttura scolandosi in quello quasi tutte le acque di essa».

Incerta è invece la storiografia sull’origine del canale. La tesi prevalente assegna il merito della realizzazione nel 1057 a Scarpetta I Ordelaffi, Capitano del Popolo, «a vantaggio della comunità di Forlì» conducendolo lungo il letto del fiume Acquaviva, che egli stesso anni prima aveva fatto «tagliare (…) ed unire all’altro ramo del Montone sopra Forlì mezzo miglio», oltre ad aver fatto costruire «due ponti contigui alla Piazza Maggiore, l’uno detto del Pane l’altro dei Cavalieri».
Dal 1202 al 1205, sempre secondo il Bonoli, il corso del canale che attraversa la città venne adeguato alle nuove esigenze «forse dopo essersi divertiti (diversificati n.d.r.) o riuniti i condotti». In base anche a queste informazioni gli studiosi ipotizzano che dopo il Ponte dei Cavalieri, all’altezza degli odierni Uffici Statali, il fiume si biforcasse, con il ramo principale che proseguiva lungo corso Mazzini, prima di girare verso nord, come dimostra il fatto che all’angolo fra via Fratti e corso Mazzini furono ritrovate le fondamenta del pilone di un ponte, mentre un ramo di dimensioni più piccole girava subito verso nord e passava sotto un ponte ancora esistente, detto di San Pietro in Scottis dal nome della vicina chiesa, oggi non più esistente, che si trovava tra via Mazzini e via Biondini.
Si presume altresì che una parte degli antichi ponti al servizio del canale siano stati rifatti in epoca altomedioevale sulle rovine di ponti precedenti. Alcuni studiosi portano a sostegno della tesi riguardante l’individuazione del tracciato di uno dei rami del fiume che entrava in città il fatto che, a qualche centinaio di metri dalle zone indicate, il terreno fosse ricco di materiale di riporto delle piene tanto che, nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento, furono avviate fornaci nella zona successivamente occupata dal viale che conduce alla nuova Stazione ferroviaria e dalla fabbrica Mangelli (ora zona Portici).

Allo stesso modo anche il parco “Paul Harris” di via Bengasi è sorto nel luogo dove operò una fornace fino agli anni ’60 del secolo scorso. Per la realizzazione dei mattoni, tutte queste attività utilizzarono inizialmente l’argilla che veniva prelevata sul posto.
Il Canale di Ravaldino, nella sua lunga storia fu affittato e concesso all’uso insieme ai suoi molini, all’attraversamento, alla presa dell’acqua e altro ancora. «Sul dominio delle acque del canale» – racconta lo storico Elio Caruso nel suo studio in tre volumi “Forlì Città e Cittadini tra Ottocento e Novecento” – «ci fu alla fine dell’Ottocento una vertenza tra la pubblica amministrazione e l’Unione dei Molini di Ravaldino e Schiavonia» (l’organismo iniziale costituito per la gestione e amministrazione del Canale di Ravaldino si ampliò successivamente con l’adesione dei titolari degli opifici presenti sull’altro corso d’acqua che scorre lungo la via Firenze n.d.r.). Al termine della disputa ebbe ragione l’Unione che, nel 1900, diede in affitto l’intero complesso (canale e molini) alla Società Elettrica. La proprietà passò poi all’Eridania Zuccherifici che, ai primi del Novecento, decise di costruire lo zuccherifico di Forlì nei pressi del canale, proprio per poterne utilizzare le acque in maniera costante e in grande abbondanza.
Nel 1976, il controllo del corso d’acqua passò al Comune di Forlì, compresi la chiusa, i manufatti tecnici e la casa del “chiusarolo” in via Chiusarola a San Lorenzo in Noceto, come ricorda Marino Mambelli in un saggio pubblicato nel volume “San Martino in Strada”, edito nel 2018 da L’Almanacco soc. coop. Lo stesso Mambelli annota: «anche dall’altro capo del tracciato, cioè in zona ravennate, ci fu una disputa sulla proprietà dell’alveo che va dal confine delle due Province allo sbocco sul fiume Ronco. Una diatriba secolare che si è conclusa nel 2011 con un atto amichevole tra il Comune di Forlì (l’ultimo e attuale proprietario) e il “Molino Spadoni. Sulla proprietà del canale “litigarono” anche due colti forlivesi, Emidio Zoli e l’avvocato Nicola Savorelli Prati. Fu una singolare disputa tipografica. Il primo pubblicò un piccolo saggio, per i tipi della Tipografia Società Democratica, nel quale indicava che i componenti dell’Unione di Molini di Ravaldino pensavano in buona fede di essere i proprietari del canale e delle acque, mentre la proprietà era in capo al Pubblico. Cioè alla “comunità”. Mentre il secondo, con una pubblicazione del Casali di Forlì, attribuiva la costruzione alla famiglia Ordelaffi e in particolare a Scarpetta e che la proprietà, in mancanza di altro titolo, doveva essere in capo all’Unione». Come anticipato, sulla titolarità del canale ebbe ragione l’Unione.

Oggi il Canale di Ravaldino conserva, in forma del tutto marginale, le funzioni di un tempo ed è per questo che andrebbe piuttosto valorizzato come elemento di straordinaria importanza naturalistica.
È giusto ricordare che, nel 1764, per favorire gli scambi commerciali e per renderli più “veloci”, fu predisposto un progetto per la realizzazione di un canale navigabile che doveva collegare la città di Forlì al mare. La darsena sarebbe stata ricavata alla Grata, nel luogo dove il canale di Ravaldino esce dalla città (nella zona delle attuali viale Italia e via Pelacano, dove ancora non c’era la ferrovia, costruita un secolo dopo). In seguito il corso d’acqua sarebbe stato modificato nel suo tragitto, reso più profondo e più largo, fino all’allacciamento con il fiume Ronco, nei pressi di Ravenna. Purtroppo questo progetto non fu neppure iniziato per mancanza dei fondi necessari. I collegamenti con Ravenna sono rimasti gli stessi da sempre, solo migliorati dall’attuazione della strada statale Ravenna-Forlì, che corre lungo il fiume Ronco, realizzata su progetto dell’architetto Camillo Morigia (1743-1795), cui si deve anche il disegno della tomba di Dante Alighieri a Ravenna, meta ogni anno di migliaia e migliaia di visitatori.

La Rubrica Fatti e Misfatti di Forlì e della Romagna è a cura di Marco Viroli e Gabriele Zelli

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