Per le rigide e necessarie misure imposte per il contenimento del contagio da coronavirus, la Pasqua del 2020 sarà ricordata come la Pasqua in quarantena, impossibile da trascorrere in compagnia di amici e parenti. Natale e Pasqua scandiscono i ritmi dell’anno con i loro rituali e il loro folklore. Le due feste più sentite dell’anno celebrano la Nascita, la Morte e la Resurrezione di nostro Signore, ma sanciscono anche due importanti momenti stagionali: il passaggio tra l’autunno e l’inverno, scandito dal solstizio d’inverno e l’arrivo della primavera, dato che la Pasqua quasi sempre si identifica con il passaggio dall’inverno alla primavera, secondo l’antico proverbio: “Êlta o basa, l’è inveran fena a Pasqua” (alta o bassa, è inverno fino a Pasqua).
“La Pasqua è una festività “mobile” – specificano Radames Garoia e Nivalda Raffoni (nella foto) – i due cultori di tradizioni popolari che hanno già raccontato gli usi e i costumi della Domenica delle Palme e della Settimana Santa, e la sua data cambia ogni anno perché è legata al ciclo lunare (che è di 29 giorni, 12 ore, 44 minuti e 3 secondi). Come stabilito dal Concilio di Nicea nel 325 d.c., questa festa si celebra nella prima domenica successiva al plenilunio (quest’anno la luna piena è stata mercoledì 8), successivo all’equinozio di primavera, cioè il 21 marzo. Per questo motivo, la Pasqua è compresa tra il 22 marzo, Pasqua bassa ed il 25 aprile, Pasqua alta. (A titolo informativo, nel 2021 e 2022 si celebrerà rispettivamente il 4 e 17 aprile)“.
Si dice che Dio avesse promesso al diavolo che, se la Pasqua fosse caduta il 26 aprile, l’universo sarebbe stato tutto suo, ma non fu mai accontentato. A tal proposito un vecchio detto romagnolo dice: “Se la Pasqua la pasa i vintzenqv d’abril, us scadena e gêval” (Se la Pasqua supera il 25 Aprile, si scatena il diavolo – da Mario Maiolani “La Romagna nei modi di dire dimenticati”, Società Editrice Il Ponte Vecchio di Cesena, 2012).
“Fin dai tempi più lontani si è assistito ad una rigida osservazione del precetto pasquale ed i fedeli si accostavano con devozione alla Confessione ed all’Eucarestia – ricordano Radames Garoia e Nivalda Raffoni -. Per la Confessione, che di solito si poteva fare il sabato pomeriggio (quando si andava in chiesa per la benedizione delle uova) o al mattino della domenica prima della messa, era presente un frate o un sacerdote forestiero, perché i più miscredenti si confessavano malvolentieri dal proprio parroco (che li conosceva bene ed era informato sui loro comportamenti); quindi, un prete esterno era preferito da costoro, i quali, sebbene non partecipassero mai alle funzioni religiose, almeno a Pasqua si confessavano e facevano la Comunione.
La mattina di Pasqua – rammentano i due studiosi – era consuetudine rinnovare una camicia o un altro indumento nuovo (per evitare una grave malattia durante l’anno, si credeva), poi si andava a Messa, tutta la famiglia, a digiuno. Solo dopo, al ritorno, si faceva colazione con “Una fetla ‘d zambëla e un ôv dur” (una fetta di ciambella ed un uovo sodo): la classica ciambella romagnola che veniva preparata al sabato pomeriggio e l’uovo sodo benedetto, il quale, per tradizione, doveva essere baciato prima di essere mangiato. Il guscio dell’uovo non si buttava, ma veniva sbriciolato e dato alle galline, o si spargeva sotto una siepe ad invocare la protezione celeste. Ovviamente le abitudini alimentari variavano da una zona all’altra del territorio romagnolo. Per colazione, nella Valle del Savio era molto diffusa la pagnotta pasquale, tipica della zona del Sarsinate, mentre in altre zone della Romagna si poteva aggiungere “queica fetla ‘d salam e un bicir ‘d sanzves” (qualche fetta di salame e un bicchiere di Sangiovese).
“A Pasqua c’era la tradizione di decorare le uova. La credenza popolare – sono sempre parole di Radames Garoia e Nivalda Raffoni – racconta che Maria Maddalena, assieme ad altre donne, si era recata al Sepolcro di Gesù, trovandolo vuoto; allora corse nella casa dove erano radunati i Discepoli, entrò tutta trafelata ed annunciò la novità. Pietro, incredulo, disse: “Donna, crederò a ciò che dici, solo se le uova contenute in quel cestello diverranno rosse”, e subito le uova si colorarono di un rosso intenso. Per tingerle, si ponevano dentro una pezza di stoffa e tra questa ed il guscio si mettevano piccole foglie e fiori di diverso colore; si facevano bollire e i fiori e le foglie rimanevano impressi nel guscio. Con le uova colorate, i bambini giocavano a “machì machì” (il gioco degli ammacchi), che era una gara per stabilire chi aveva l’uovo con il guscio più resistente, dovendo percuotere con la punta del proprio, l’uovo tenuto in pugno dall’avversario. Poi arrivarono le uova di cioccolato con la sorpresa e pian piano anche questa tradizione si è perduta“.
Il Lunedì di Pasqua, tradizionalmente chiamato “e’ lon dal fëst” (il lunedì delle festa), era l’occasione per invitare a pranzo i figli e nipoti (come avveniva per il giorno di Santo Stefano). Oppure, sempre in gruppo numeroso si organizzavano scampagnate o le classiche “gite fuori porta”, come si dice alla romana. Spesso il pranzo del Lunedì di Pasqua si trasformava in una merenda rustica all’aperto. Anche in questo momento in cui si dovranno sopportare delle restrizioni non ci dobbiamo comunque dimenticare chi si sta battendo contro il virus Covid 19, sia chi è rimasto infettato, sia chi sta cercando di contrastarlo facendo sacrifici ben maggiori, incommensurabili.
Gabriele Zelli