Gli articoli dedicati alla storia delle operazioni di sminamento a Forlì e a coloro che svolgendo questo pericolosissimo lavoro persero la vita, o rimasero segnati per sempre, hanno suscitato molto interesse e tante reazioni, tutte tese a trovare ulteriori elementi per raccontare un periodo storico molto difficile per il nostro territorio e per l’Italia.
Paolo Graziani di Forlì, impiegato tecnico progettista a Naldini Arredamenti di Carpena, nonché artista, dopo aver letto l’articolo “Le mine e le bombe uccisero anche dopo la guerra”, ha voluto raccontare quanto capitò a suo padre Benito, nato il 28 marzo 1934 a Bagno di Romagna.
“I miei nonni Primo Graziani e Ida Barchi, nati rispettivamente nel 1901 e nel 1907, avevano 10 figli – scrive Graziani – ed erano contadini, coltivavano il podere ‘Chiavaretto’ in mezzadria (tipico contratto agricolo abolito fra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso che prevedeva la stipula di un atto fra il concedente ed il mezzadro, in proprio e quale capo di una famiglia colonica per la coltivazione di un podere e per l’esercizio delle attività connesse al fine di dividerne a metà i prodotti e gli utili Ndr). La durezza del periodo e le poche risorse finanziarie – continua Paolo Graziani – non limitarono in alcun modo la qualità umana, la dignità, l’onestà e la dedizione al lavoro e alla famiglia del nonno. Erano anni in cui si cercava di trovare fondi agricoli più redditizi e le famiglie contadine si spostavano molto facilmente. Come avvenne alla famiglia di mio nonno che visse a Quarto di Sarsina fino al 1936, poi si spostò a Monteguidi e vi restò fino al 1952. Dal 1952 al 1957 si spostò a Ricò di Meldola e dal 1957 al 1961 a Classe di Ravenna dove Primo aveva trovato lavoro come operaio in una cooperativa agricola. Risale a quegli anni la sua morte, precisamente il il 13 agosto del 1961, in seguito ad un incidente stradale. In bicicletta fu investito da una moto a Classe“.
Il periodo del Secondo conflitto mondiale
“I momenti più difficile per la famiglia Graziani furono sicuramente quello del Secondo conflitto mondiale – precisa Paolo -. Mio padre ricorda bene il periodo che va dal settembre 1943 alla Liberazione ed ha presente il costante passaggio di gruppetti di partigiani nella zona dove abitava e i controlli dei soldati tedeschi. Per diversi mesi presso l’abitazione di mio nonno trovò ospitalità una famiglia di ebrei, benestante, che abitava in centro a Forlì e gestiva un negozio di abbigliamento in piazza Saffi. Erano i Saralvo (Renzo Saralvo e la moglie Celeste Sonnino ndr) commercianti molto conosciuti. Nessuno aveva avuto il coraggio di ospitarli. Si sapeva che se scoperti, dai fascisti e dai soldati tedeschi, c’era la morte sicura per loro e per chi li ospitava.
Quando arrivavano i controlli i Saralvo si nascondevano nella vigna. In un secondo momento trovarono rifugio presso alcune formazioni partigiane, dove rimasero fino alla Liberazione. In zona si diceva che dopo essere stati ospitati in casa Graziani si trasferirono appena possibile a Roma, come avvenne effettivamente alla conclusione del conflitto”.
“Il ricordo dell’onestà e della purezza d’animo di mio nonno è sempre stata riconosciuta da tutti – sottolinea Paolo Graziani -. Ciò mi conferma che nella vita i gesti nobili devono essere compiuti perchè motivati da una luce nell’animo, più che da tornaconti, ma pensando alle spiate e il poter essere scoperti amplificava tantissimo il rischio corso per ospitare i Saralvo“.
Gli ebrei di Forlì dopo l’8 settembre 1943
Dopo l’8 settembre 1943 anche per i pochi ebrei forlivesi (dopo la promulgazione delle leggi razziali furono censiti alla data del 26 agosto 1938 quattordici nuclei familiari di origine ebraica) la fuga fu l’unica possibilità di salvezza. Da un rapporto di un messo comunale di Forlì del 18 dicembre 1943 sappiamo che: “Il signor Renzo Saralvo, da circa due mesi ha lasciato, di notte, l’appartamento che occupava in Piazza Morgagni 1 di proprietà del Comm. Zaoli Giordano portando con sé una parte del suo mobilio, e nessuno sa ove si sia trasferito. Il resto del mobilio si trova custodito nella stessa casa (sotto sequestro). L’appartamento in parola è ora occupato dal dott. De Robertis, Giudice del tribunale“.
Nonostante fossero irreperibili, non sfuggirono al sequestro dei beni nemmeno Renzo Saralvo e la moglie Celeste Sonnino, come riporta Francesco Gioiello nel libro “La Forlì ebraica. Una storia tra integrazione e Shoah”, Edizioni Risquardi, Forlì 2015. A ciò si deve poi aggiungere, si legge sempre nel volume di Francesco Gioiello: “Il sequestro a Celeste Sonnino, in data 10 maggio 1944, di un villino ad uso abitazione civile di costruzione recentissima di piani 2 e vani 8, sito in Forlì, Via Bellonci 2, distinto in catasto al foglio 145 numero 248/a con imponibile di L. 2.000”.
Per quanto riguarda invece l’attività posseduta dai Saralvo, il Questore di Forlì, il 16 maggio 1944, inviò alla Prefettura un riepilogo dove si legge che la “Ditta Belladonna Astrologo – Forlì, Piazza Saffi n. 8, ha cessato da mesi ogni attività. Era gestito da Celeste Sonnino, ebrea coniugata con Saralvo Renzo pure ebreo, attualmente irreperibili. La merce esistente è stata inventariata da questo ufficio, giusta nota del 4 aprile 1944 n. 07363 diretta all’Intendenza di Finanza di Forlì e per conoscenza a codesta Prefettura“.
La Linea Gotica
“Il territorio attiguo alla casa dei miei avi – continua il racconto di Paolo Graziani – registrava la presenza in zona di partigiani, tanto che mio padre li vedeva spesso transitare. Così come udì i racconti di scontri a fuoco, di imboscate, fucilazioni sommarie. Rammenta spesso dello scontro a fuoco molto sanguinoso fra partigiani e tedeschi che avvenne nella zona dell’attuale diga di Ridracoli“.
Infatti, già nell’inverno del ’43, anche nel territorio di Bagno di Romagna si formarono e si consolidarono formazioni partigiane, poi inquadrate nella 8° Brigata “Garibaldi”. Posero le loro basi nelle impervie valli scavate dai rami del fiume Bidente che dalla dorsale appenninica scendono verso Santa Sofia: tre valli parallele ed incassate che prendono il nome dalle frazioni di Pietrapazza – Strabatenza, di Ridracoli e di Corniolo; solo quest’ultima, che scende dal Falterona, era in quegli anni percorsa da una carrozzabile costruita negli anni ’30, le altre erano raggiungibili solo con mulattiere che si diramavano verso una fitta maglia di poderi. In questo territorio impervio, boscoso, di difficile accesso, trovarono sia una popolazione di contadini predisposta all’ospitalità e alla solidarietà, soprattutto durante il terribile inverno, sia un ambiente che, per la conformazione e per la posizione confinante con altre regioni, era adatto, come rifugio e come base, per azioni di guerriglia. Azioni che si svolgevano su un territorio vasto, dal Fumaiolo al Falterona. Questa parte dell’Appennino tosco-romagnolo, nella logica della guerra, fu considerato strategicamente importante perché attraversato da strade che collegano la Toscana con la Romagna e il sud al nord. La SS Tiberina 3bis mette in comunicazione, tramite il passo di Monte Coronaro, la Valle Tiberina con la Val Savio e la piana romagnola. La SS 71 attraverso il Passo dei Mandrioli unisce il Casentino alla Val Savio, mentre una provinciale da San Piero in Bagno, per il Passo del Carnaio, unisce l’alto Savio a S. Sofia ed a Forlì.
Su questa vitale parte dell’Appennino i tedeschi costruirono la “Linea Gotica”, il cui impianto e fortificazioni vennero iniziate nell’ottobre-novembre 1943.
Con l’inizio del 1944, nonostante l’inverno, le azioni partigiane assunsero più audacia spingendosi fin dentro ai paesi, segno di presenza organizzata. Gli attacchi si susseguirono lungo tutto l’Appenninon e nell’aprile il generale tedesco Albert Konrad Kesserling si rese conto di avere alle spalle un movimento organizzato, capace di interrompere le vie di comunicazione e rallentare il regolare flusso d’uomini e di materiali, con sabotaggi ed attentati che creavano scompiglio nelle retrovie in un momento cruciale.
Decise allora di organizzare un grande rastrellamento, preparato con cura, per annientare la Brigata partigiana e le bande aretine ad essa aggregate che agivano in quel territorio delicato ed importante. Vennero mobilitati reparti della famigerata Divisione SS “Goering” e della 356° Divisione fanteria, a cui furono aggregati i granatieri della 29° divisione SS italiana e formazioni antipartigiane della RSI e GNR.
Una vera azione di guerra che si dispiegò in una vasta area del versante appenninico delle province di Pesaro, Forlì, Arezzo e Firenze: più di 7.000 uomini, mezzi blindati e cingolati che, come un rullo compressore, tra il 6 ed il 23 aprile si dirisse dalle valli tra Marche e Romagna a quelle dell’alto cesenate e forlivese, assestando duri colpi alla Resistenza.
Già il 7 aprile venne messo a fuoco il villaggio di Fragheto (Pesaro), dove si era asserragliato un gruppo di partigiani, ed uccisi 33 abitanti.
Il 12 aprile l’imponente operazione tedesca investì anche l’Appennino tosco-romagnolo ancora coperto di neve, con virulenza e crudeltà terribili: nel versante toscano fu un continuo massacro di civili e partigiani (Partina 13, Stia 23, Vallucciole 108..); nelle alte valli bidentine i rastrellamenti sanguinosi culminarono con la terribile “Battaglia di Biserno”.
Altissimo il numero dei morti da una parte e dall’altra. Dopo un iniziale e drammatico sbandamento le formazioni partigiane ebbero la forza di riorganizzarsi contribuendo alla liberazione di quei territori insieme alle formazioni dell’Ottava Armata britannica che verso la fine di settembre e gli inizi di ottobre raggiunsero quelle località dopo aver costretto l’esercito tedesco ad arretrare.
“Fu veramente duro per un ragazzino vivere l’infanzia in mezzo alla crudeltà della guerra, alle paure, ai timori – evidenzia Paolo Graziani pensando al padre Benito -. Oltretutto durante gli ultimi periodi del conflitto proprio sui terreni di Monteguidi erano disposti e appostati 16 cannoni dell’esercito inglese, che si opponevano alla controffensiva dei tedeschi spostatisi a Santa Sofia, Galeata, Ricò.
Un incidente che segna una vita
“Terminato il conflitto quei terreni erano infestati di residui bellici. I contadini, fra cui mio nonno, cercavano di liberare i campi per lavorarli, buttando in buche scavate apposta ciò che trovavano. Mio padre, che al tempo aveva 11 anni, ricorda che i ragazzini del posto trovavano dappertutto materiale militare. Raccoglievano le capsule, quelle che venivano avvitate alle granate per far sì che una volta lanciate dai cannoni servissero a provocarne la deflagrazione. La domenica precedente a ciò che poi capitò ne avevano trovate e fatte scoppiare circa una trentina di queste capsule con il risultato di una grande botta solo sonora. Quel giovedì 23 agosto 1945 non c’erano i ragazzi più grandi, mio padre era con un suo amico, su una stradina a circa ottocento metri da casa. In modo ingenuo e incosciente voleva mostrargli quello che aveva visto e fatto la domenica appena trascorsa insieme agli altri amici. Trovò una di quelle capsule e là sbatte su un sasso. Purtroppo quella deflagrò in modo totalmente diverso. Sembrava uguale alle altre che aveva fatto scoppiare, ma qualcosa reagì diversamente. L’effetto dell’esplosione fu drammatico: si spappolò la mano destra, un occhio saltò via direttamente, l’altro molto danneggiato con una scheggia interna, si spense definitivamente dopo alcuni giorni.
Il suo amico pensava fosse morto e scappò via. Solo quando la mia nonna gli chiese dove fosse Benito, lui spaventato e terrorizzato, rispose che era morto. Erano già passate un paio d’ore quando mio padre fu soccorso. L’arto destro irreparabilmente danneggiato venne amputato subito sotto al gomito in modo tutt’altro che indolore. Aveva una scheggia grandissima anche nella gamba destra che mise in dubbio anche la possibilità che potesse camminare. Dopo sei mesi di convalescenza a letto venne scongiurata questa ipotesi, ma era cieco e privo della mano destra. Che dire: l’incoscienza, il non conoscere e stimare il pericolo, l’ingenuità di un ragazzetto racchiuse in un attimo comportarono ripercussioni pesantissime. Quando raggiunse l’età di tredici anni fu mandato a Reggio Emilia in un istituto per non vedenti e invalidi, tutti vittime innocenti della guerra, di bombe trovate ed esplose durante il conflitto e anche successivamente in modo accidentale o incauto“.
“Mio padre Benito ebbe la possibilità di studiare – conclude Paolo Graziani – di imparare il braille e di conseguire il diploma di terza media. Insieme agli altri ragazzi, provenienti da analoghe traumatiche esperienze e situazioni, li accomunava il desiderio di imparare e di convivere con traumi indelebili, e così è stato. Anche da loro arrivò un contributo importante per voltare pagina dopo i lutti e le distruzioni della guerra, anche svolgendo un lavoro. Mio padre, dal 1970 al 1992, ha svolto le mansioni di centralista telefonico dell’Intendenza di Finanza di Forlì“.
Gabriele Zelli