Il complesso parrocchiale di Ladino è composto dalla chiesa intitolata a San Martino di Tours (316-397 d.C.), dalla canonica, dal cimitero, dall’abitazione del colono e da alcuni fabbricati di servizio costruiti più recentemente. Chiesa e canonica sorgono, come già accennato, sul luogo dell’antico castello, mentre la superficie occupata dal cimitero e dalle altre costruzioni era probabilmente inedificata ed adibita ad area di manovra per la difesa della fortezza, tant’è che l’edificio di culto fu edificato nel 1270 sui ruderi e con i materiali della rocca distrutta dai faentini nel 1218. L’esistenza della pieve è confermata da un documento del 1290, un rendiconto delle decime giacenti nell’Archivio Vaticano che alcune chiese erano tenute a versare alla Camera Apostolica.
Il violento terremoto che il 30 ottobre 1870 interessò la Romagna, con epicentro a Meldola, causando cinque morti nella provincia di Forlì, ebbe conseguenze anche a Ladino dove crollarono la chiesa e il fabbricato colonico del podere Colombarina, sulla sinistra percorrendo via del Partigiano verso Terra del Sole, lungo l’attuale via delle Coste. L’anno successivo iniziarono i lavori di ricostruzione con materiali di recupero, ma senza i grossi conci di pietra squadrata dell’ex castello perché erano stati trafugati, come si legge in un manoscritto conservato nell’archivio parrocchiale, e nel 1872 l’edificio fu riaperto al culto.
La chiesa si presenta con una navata unica, senza transetto, mentre abside, sagrestia e parte della canonica risalgono all’impianto originario. La facciata rifinita ad intonaco segue in sommità le pendenze del tetto. La porta di ingresso, completamente rinnovata nel 1929, è sovrastata da una bifora realizzata nel 1933. La copertura è sostenuta da cinque capriate. All’interno, nella parete di destra, è collocata una grande tela raffigurante San Martino, dipinta nel 1898 da Claudio Zampanelli (Forlì 1809-1901, pittore, incisore e calcografo, nonché insegnante di disegno nelle scuole locali), che ha sostituito il quadro precedente opera del forlivese Trecenti.
Sempre sulla destra è collocato l’altare della Madonna del Rosario. In una nicchia ingrandita nel 1884, perché la precedente era troppo angusta, è posta una bella statua in stucco del 1871 opera dei faentini Collina e Graziani. La nicchia era contornata da quattordici riquadri, da tempo rimossi, sui “Misteri del Rosario” dipinti dallo stesso Zampanelli. A proposito di questi riquadri si ricorda che domenica 20 ottobre 2013 la tradizionale ricorrenza dedicata alla Madonna del Rosario, nonché giornata della festa parrocchiale, ebbe un’intonazione del tutto particolare. I fedeli, infatti, poterono ammirare per la prima volta la tela raffigurante i misteri del rosario, attribuita a Claudio Zampanelli (Forlì 1819-1901), completata da una novità. Per lo spazio vuoto che l’opera aveva nel centro il pittore romagnolo Gino Erbacci (Forlì 1925) ha dipinto cinque soggetti relativi ai misteri della luce. Voluti da papa Giovanni Paolo II nel 2002, con la lettera apostolica “Rosarium Virginis Mariae”, i misteri della luce hanno il compito di rimettere il messaggio di Gesù nel cuore della grande preghiera mariana. Da allora i fedeli possono così pregare davanti al quadro che, unico nel suo genere nel nostro territorio, propone insieme tutti i 20 misteri del rosario. Si deve alla restauratrice Amelia Negretti (Forlì 1953) il restauro dell’opera di Zampanelli, sempre nel 2013, che è servito a restituirgli l’originale vivacità espressiva.
Il fonte battesimale posto sulla sinistra dell’ingresso fu donato nel 1763 da mons. Francesco Piazza (Forlì 1707-1769), vescovo di Forlì dal 1760 al 1769, anno della sua morte.
L’altare di sinistra, ricostruito nel 1899, è dedicato alla Sacra Famiglia rappresentata da una tela, già segnalata nell’inventario del 1860, di autore ignoto, secondo una composizione che riprende soluzioni già adottate dalla scuola di Raffaello. L’altare maggiore, dedicato a San Martino di Tours, è stato rialzato di un metro nel 1895 e dipinto a finto marmo; qui era ubicato il quadro raffigurante il santo prima dei lavori di restauro del 1996-97.
Nel 1895 l’abside venne sopraelevata di due metri, mentre tre anni dopo nel corso dei lavori per ricavare due nicchie ove collocare le statue di Santa Eurosia (864-880 d.C.) e di Sant’Antonio Abate (251-356 d.C.) vennero scoperti e riportati alla luce lacerti di affreschi, eseguiti in tempi diversi e non dalla stessa mano, che occupano una fascia dell’abside. Sul Corriere Padano del 30 aprile 1933 venne pubblicato un articolo che li descrisse per la prima volta, nonostante la difficoltà di lettura, a partire dal quadro di destra, per chi guarda, dov’è rappresentato San Giovanni Battista (7 a. C. – 29/32 d.C.) ed una Madonna con il Bambino. L’apertura a suo tempo del vano della porta ora esistente ha eliminato buona parte della pittura. In alto si legge la scritta “fu facto fare da ser Otto da Roma per l’anima sua, l’anno 1446”. Anche il secondo quadro è stato mutilato dall’apertura di una piccola finestra nella parte superiore, ora murata. In basso si vedono i panneggi di Sant’Antonio Abate, un porcellino ed un altro santo dell’ordine domenicano. In un angolo si legge il nome del mecenate che lo fece eseguire, Piero Irotma. Il terzo quadro, verso il centro, è la nicchia del ciborio; ai suoi lati si vedono due angeli in adorazione. In alto la data 1444 testimonia la massima antichità delle pitture. Nel quarto quadro è rappresentato San Martino, patrono della chiesa, con in capo la mitria ed in mano il pastorale. Nel quinto sono visibili due angeli che reggono un drappo, nel sesto gran parte della pittura è stata eliminata dalla realizzazione di una porta. Sono visibili alcune teste di cavallo, guerrieri, angeli, ma il vero soggetto dell’opera è indecifrabile. I benefattori di questo dipinto furono due, del primo manca il nome ma è leggibile la frase “a tutte sue spese fece l’anno 1448” mentre il secondo fu un “Battistino” che contribuì a realizzarlo “per sé e per i suoi nel 1448”. Tutti i lacerti degli affreschi sopra descritti sono stati restaurati nel 1996.
Con l’abside e l’arco trionfale più bassi, con le pareti in pietra squadrata (l’intonaco fu ordinato in occasione della visita pastorale del 1567) ed una luce più soffusa, si può immaginare un interno della chiesa dall’aspetto in puro stile romanico.
Nel 1933, in occasione di alcuni lavori di restauro, il pittore meldolese Giuseppe Mambelli decorò le pareti e fu montato un controsoffitto in stoffa dipinta appeso alle capriate, rimosso nel corso degli ultimi lavori. Nella chiesa era esposta una Madonna del Fuoco con cornice dell’800, da tempo non più presente.
La torre campanaria fu costruita nel 1900 su progetto del perito agrimensore Alfonso Frassineti di Terra del Sole. Nel 1938 fu installata la nuova struttura di sostegno delle campane donate da don Ezio Gramellini, dai parrocchiani di Ladino e dal marchese Cosimo Paulucci e dedicate al Sacro Cuore, alla Madonna del Rosario ed a San Carlo.
I muri del piano terra della canonica definiscono i locali che corrispondono in gran parte con i vani dell’antico castello. Si ha notizia dell’esistenza, all’inizio del secolo scorso, di una pittura raffigurante San Domenico nella parete di una stanza, probabilmente l’attuale cucina.
La costruzione della casa del colono, addossata all’abside della chiesa, oggi civile abitazione, risale alla fine dell’Ottocento.
L’adiacente cimitero, recentemente ampliato, accoglie un centinaio di defunti e quattro tombe di famiglia. Nella chiesina, costruita nel 1890, sono conservate lapidi di defunti, la più antica risale al 1886. La cinta, a parte la nuova realizzata in occasione dell’estensione della superficie, e il cancello sono stati realizzati nel 1903.
In una delle tombe è sepolto il marchese Gian Raniero Paulucci de’ Calboli: il nobile forlivese fucilato dalle Brigate Nere all’alba del 14 agosto 1944 dietro il muro di cinta del cimitero di Castrocaro Terme, insieme al tecnico delle ferrovie Antonio Benzoni, allo studente Fiorenzo Grassi e ai militari Livio Ceccarelli e Antonio Buranti, condannati a morte dal cosiddetto Tribunale Straordinario di Castrocaro. Sulla lapide della tomba è scritto: “Gian Raniero Paulucci di Calboli Ginnasi / Cavaliere segreto di cappa e spada / lasciò un’impronta nelle lettere e nella poesia / e venne dal martirio a questa pace / fucilato dai fascisti in Castrocaro / il 14 agosto 1944”.
La condanna a morte del marchese Paulucci
Quando il marchese Paulucci di Calboli seppe che sarebbe stato fucilato chiese la presenza di un parroco per confessarsi. Don Luigi Superga, di Tredozio, allora giovane sacerdote, cappellano a Castrocaro, che personalmente ho conoscituo negli anni ’80 quando esercitava il suo ministero a Dovadola, fu avvisato di questo nel pomeriggio del 13 agosto 1944. Nella sua testimonianza, raccolta da Salvatore Gioiello e Lieto Zambelli nel libro “Usfadè”, ricorda che arrivò presso la canonica una camicia nera della “IX Settembre” ad avvertirlo che Paulucci aveva chiesto il sacramento della confessione per sé e per gli altri quattro condannati a morte. “Entrai in caserma”, raccontò don Superga, “assieme al mio arciprete, don Enrico Cicognani, e ci disponemmo in attesa. Uscì un giovane in divisa fascista, accusato di tradimento (Buranti ndr). Aveva il viso tumefatto dalle percosse subite. Suo padre combatteva a fianco dei partigiani in Jugoslavia e lui aveva capito l’errore commesso: “Muoio per la libertà” ci disse. Era il primo che avremmo dovuto confessare; l’aveva mandato il marchese Gian Raniero. Improvvisamente scattò un allarme: un gruppo di partigiani stava tentando un’irruzione. Si scatenò un movimento frenetico, grida ed ordini si sovrapponevano alimentando confusione e panico. In breve, tutti uscirono ed il colloquio appena avviato fu interrotto bruscamente. Dovemmo andarcene e tornare a casa”.
Nella stessa cappella dove giace il marchese Gian Raniero, ucciso perché accusato di essere “antifascista e sovvenzionatore dei partigiani”, riposano la moglie Pellegrina Rosselli Del Turco, a sua volta fucilata dai nazifascisti in via Seganti, nei pressi dell’aeroporto Luigi Ridolfi, il 5 settembre 1944 insieme a partigiani, antifascisti e diversi cittadini, tutti “colpevoli” di essere ebrei. Con loro è sepolta anche la madre di Pellegrina Rosselli Del Turco, vittima del tremendo bombardamento alleato del 25 agosto 1944 che colpì Piazza Saffi, il cuore della città e le zone circostanti.
La presenza di queste tre sepolture ci fa rivivere la storia del secondo conflitto mondiale e dell’opposizione al regime. Nel caso specifico, è da sottolineare il grande tributo di sangue pagato dalla famiglia del marchese Gian Raniero Paulucci de’ Calboli, quest’ultimo “arrestato” la mattina del 13 agosto 1944 proprio mentre si trovava nella sua villa di Ladino (questi episodi sono riportati nel libro “I giorni che sconvolsero Forlì – 8 settembre 1943 – 10 dicembre 1944” di Marco Viroli e Gabriele Zelli, Società Editrice Il Ponte Vecchio, Cesena 2014).
Sui momenti drammatici di quel periodo vanno menzionate altre due vicende: le uccisioni in loco, in due momenti diversi, del giovane Aleardo Marzocchi e del partigiano Sergio Fantini, di cui si parlerà in un prossimo articolo.
Gabriele Zelli