Dopo aver raccontato in un articolo precedente, come avveniva un tempo la raccolta manuale del grano, ora verrà ricordato, sempre con la insostituibile collaborazione degli esperti Radames Garoia e Nivalda Raffoni, la fase della realizzazione del “barco” (la bica). “Terminata la mietitura – esordiscono i due studiosi – bisognava preparare nell’aia un’area destinata alla costruzione de “e’ bêrc” (il barco), il pagliaio del grano, tenendo conto che di lì a poco si sarebbe dovuto ospitare la trebbiatrice, quindi era necessario un ampio spazio per rendere il più agevole possibile tale operazione. Una volta individuata la zona dell’aia, già da alcuni giorni, si era provveduto a “razé cun la sapa” (letteralmente, “razzare con la zappa”, una leggera sarchiatura superficiale di pochi centimetri per togliere il primo strato di gramigna). L’edificazione del barco avveniva quasi sempre in collaborazione con i vicini (due o tre famiglie) coi quali si stabiliva un piano di lavoro comune, compresa la restituzione della manodopera. Si mettevano a disposizione carri, vacche da tiro oppure trattori, se esistevano, ma soprattutto braccia da lavoro; era un momento di socializzazione, l’occasione per vedere e lavorare con altre famiglie e i ragazzi erano impazienti di mettere in mostra la loro forza ed abilità, magari facendo a gara con eventuali coetanei chi era più bravo a caricare i covoni sul carro. E se poi nelle famiglie erano presenti anche delle ragazzine… era un doppio divertimento“.
“Aggiogate le fedeli ed inseparabili vacche da traino – continuano nel racconto Radames Garoia e Nivalda Raffoni – con il carro si iniziava l’andata e ritorno nel percorso campi-aia, per trasportare i covoni per l’edificazione “de berch” (il barco, la bica, il pagliaio del grano). “E car” (il carro agricolo) era il principale mezzo di trasporto (per grandi carichi) dei contadini. A quattro ruote (larghe o strette a seconda dell’uso), il cui pianale, di per sé abbastanza stretto, in occasione del trasporto del grano e del fieno, veniva adattato con “agl’armadur” (travi di legno di diversa lunghezza) che venivano sistemate, perpendicolari tra loro, in modo da aumentare la superficie di carico. Quasi sempre si avevano a disposizione due carri e due paia di bestie da traino, in modo da non lasciare mai disoccupati i lavoratori; mentre si scaricava il primo carro, il secondo era già nel campo a caricare i covoni. Se si aveva a disposizione solo un paio di vacche, ogni volta dovevano essere staccate da un carro ed attaccate all’altro.
Si partiva a caricare dal fondo del campo, per avere il carico massimo il più vicino possibile all’aia, cioè cercando di percorrere, a pieno carico, il minor tratto di campo o di carraia. Lungo due file parallele di “barchetti”, un ragazzino o una ragazzina davanti alle vacche per guidarle, due persone (una ogni fila) che caricavano i covoni e due addetti “a spiané” (a sistemare sul carro), quando la disponibilità di manodopera lo consentiva. Quando sul carro si metteva una persona non molto esperta” la si guidava dal basso: a voce si davano indicazioni sul come mettere un covone, dicendole “pio ‘d drenta”, “pio ‘d fura”, (più in dentro, più in fuori). I covoni dovevano essere sistemati in maniera tale da affrontare con sicurezza il viaggio di ritorno e “i spianadur” (gli “spianatori”, coloro che sistemano i covoni), rimanevano sul carro; una volta arrivati nell’aia, sarebbero scesi con una scala a pioli“.
“In questo periodo dell’anno (fine giugno) sorgevano nelle nostre campagne veri e propri monumenti di grano – ricordano Radames Garoia e Nivalda Raffoni – di varie altezze e forme, ma tutti curati nei dettagli e nelle rifiniture, a dimostrazione di un forte orgoglio contadino; esso rispettava prevalentemente una pianta circolare, qualche volta ellittica o rettangolare. Chi aveva raccolto poco grano costruiva “una cavaleta” (un barco a forma trapezoidale), ma in genere il barco aveva una forma tronco-conica (molto simile ad un trullo pugliese).
La perfezione del barco era il vanto dell’”arzdor” che “ul tireva so” (lo tirava su) con precisione architettonica, calcolando (dal numero di covoni disponibili) il diametro, l’altezza, la pendenza della parte conica superiore, tutto disposto ad arte e alla fine poteva esserci una differenza (in più o in meno) al massimo di 10-12 covoni. Vi erano dei contadini “barcarul” (barcaroli, specialisti nella costruzione dei barchi), che una volta terminato il proprio, andavano a prestare la propria opera anche a casa dei vicini.
Secondo la regola del compasso, si piantava un paletto al centro dell’area destinata alla sua costruzione; gli si legava una lunga corda con all’estremità un legno appuntito, che tracciava sul terreno la circonferenza di un grande cerchio, delimitando in tal modo l’area destinata al barco. Si iniziava deponendo i covoni con le spighe rivolte al centro del cerchio, rigorosamente lungo la linea tracciata, come se si dovesse costruire un muro circolare e, dopo averne disposto due file, si riempiva il vasto spazio all’interno alla rinfusa, con altri covoni.
Fino a circa tre metri di altezza i covoni erano sistemati con la spiga all’interno (“e bdell”), poi covoni rivolti all’esterno e si saliva con cerchi concentrici sempre più piccoli a forma di cono (“e coium” o “e capell”). Questa era la parte più difficile perché doveva proteggere il barco dalle infiltrazioni d’acqua durante le piogge, doveva essere il tetto della costruzione, un vero e proprio ombrello.
“Al côvi” (i covoni) venivano posti non più orizzontalmente, ma sistemati con una inclinazione di 45 gradi, rivolti all’esterno, in modo che la spiga fosse quasi rovesciata in basso per far scivolare la pioggia eventuale. Un pugno di steli dei covoni rivolti con la spiga verso l’esterno, perché non scivolassero, veniva sfilato per circa 20 centimetri verso l’interno per essere pressato dai covoni del giro successivo; e cosi via fino a raggiungere quasi la cima. Quando il barco arrivava ad un’altezza irraggiungibile dal pianale del carro in cui erano i covoni da scaricare, con l’aiuto di lunghe scale si effettuava una specie di passamano del forcale con il covone in cima, per giungere alla vetta. L’apice era diversamente rifinito, a volte con una croce di canne, oppure con un mazzo di spighe con un rametto di ulivo“.
“Il barco era una costruzione che faceva risaltare l’orgoglio contadino – concludono Radames Garoia e Nivalda Raffoni – e, nelle rare occasioni di fotografie di famiglia di quei tempi, il barco era quasi sempre presente nel fondale, per essere immortalato nella sua perfezione: “a l’ho fat mé!” (l’ho fatto io!), sembrava volesse dire il contadino poi, mostrando la fotografia ai parenti e conoscenti, o magari esponendola in cucina nel vetro della credenza, “tra i ricurdin da mort” (tra i bigliettini ricordo dei defunti, parenti e vicini di casa)“.
Il giorno successivo la edificazione del barco molti contadini si recavano presso un‘agenzia di assicurazioni per stipulare una polizza contro un eventuale incendio del “barco”; in molti casi era previsto dai patti colonici. Era un modo per “difendere” il massacrante lavoro appena concluso e garantire la vita della propria famiglia.
Gabriele Zelli