Da Dovadola, scendendo verso Forlì, si giunge a Castrocaro che, in base a quanto Dante fa dire a Guido Del Duca (?-1249?) nella “Divina Commedia”, è proprietà di una famiglia che ha perduto ogni prestigio e che continua indebitamente a “figliare” (Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; / e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, / che di figliar tai conti più s’impiglia. / Purgatorio, XIV – 115-117). In effetti i conti di Castrocaro, precedentemente schierati con i ghibellini, verso la fine del Duecento, per rivalità con Forlì, avevano venduto il loro castello ai rappresentanti papali insediatisi in Romagna.
Il sito ufficiale della Società Dante Alighieri annota che Guido Del Duca fu un nobile ravennate della famiglia degli Onesti, signori di Bertinoro, e imparentato con i Traversari e i Mainardi, di parte ghibellina. Guido fu per lunghi anni giudice in varie città della Romagna: Imola, Faenza, Rimini, Ravenna e nella stessa Bertinoro. Viene menzionato per l’ultima volta nel 1249, che perciò si presume essere l’anno della sua morte. Della sua proverbiale invidia parlano gli antichi commentatori della “Divina Commedia”, desumendo la notizia dallo stesso Dante.
«Le famiglie Traversari, Mainardi ed Onesti, infatti, furono assai presto motivo di ispirazione per la novellistica, come esempi di liberalità, intesa come la virtù di soccorrere il bisogno del prossimo prima che ne venga fatta richiesta, evitando l’umiliazione del chiedere», si legge sul sito della Società Dante Alighieri. «Appare, così, difficile conciliare in Guido lo spirito cavalleresco e l’invidia. Il confine fra virtù e peccato può, tuttavia, essere sottilissimo, come Dante aveva già potuto osservare raccontando la storia di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini: il desiderio di primeggiare in liberalità altro non è che invidia della possibile superiorità altrui: “… però sappi ch’io fui Guido del Duca. / Fu il sangue mio d’invidia sì rïarso, / che se veduto avesse uom farsi lieto, / visto m’avresti di livore sparso” (Purgatorio XIV, vv. 81-84). Uno dei motivi ricorrenti di tutta la Commedia è la rievocazione, piena di rimpianto, del buon tempo passato, della società feudale e cavalleresca messa a confronto con la società comunale e mercantile in cui prevalgono spregiudicatezza di costumi e rivalità».
«Il poeta», si legge sempre nello stesso sito, «ricorda “le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ‘nvogliava amore e cortesia”, la vita, spesa cioè nella liberalità e nella elevazione intellettuale, centrata soprattutto nella ricerca «del ben richiesto al vero ed al trastullo», le virtù morali indispensabili alla costruzione della convivenza civile e le virtù intellettuali necessarie ai bei costumi che rallegrano l’esistenza. A questo scopo Dante fa nominare a Guido del Duca persone e famiglie, di parte guelfa o ghibellina, per riassumere senza indugiare in specifici ricordi, il senso di una civiltà, fondata sulle virtù cavalleresche del valore e della cortesia, che ruotava attorno alla persona dell’imperatore Federico II.
Il borgo medioevale di Castrocaro: un impianto urbanistico rimasto intatto
L’impianto urbanistico del borgo medievale di Castrocaro è rimasto pressoché intatto (foto di Dervis Castellucci): il castello in posizione elevata, poi il ricetto (chiamato murata o cittadella), racchiuso entro il primo cerchio di mura, quindi, ad una distanza di rispetto, il sottostante abitato, attraversato da ripide strade strette e tortuose. L’accesso al borgo avviene attraverso due caratteristiche porte: Porta San Nicolò e Porta dei Ciardi, entrambe sovrastate dalle omonime torri. Da Porta San Nicolò si entra in una piazzetta, un tipico slargo medievale dalle minime e suggestive proporzioni, su cui si erge la romanica Chiesa di San Nicolò, di cui si hanno notizie sin dal 1256.
Sulla via Sant’Antonio si affacciano il Palazzo Corbizi, residenza dell’antica e potente famiglia di origini fiorentine, e il Palazzo Grazioli, caratterizzati dai tipici portali in pietra serena di stile toscano.
All’inizio di via Postierla si trova un altro tipico slargo medievale, sul quale si affacciano edifici di notevole interesse: a destra il Palazzo Pretorio o dei Capitani di Giustizia, originariamente sede del tribunale di prima istanza della Romagna toscana e del capitano di giustizia. Il palazzo fu ampliato nel 1541 da Jacopo de’ Medici; sopra il portale si trova lo stemma mediceo affisso nel 1566. Sulla sinistra si erge il suggestivo complesso medievale del Bargello che conserva intatto il suo fascino medievale. Sul lato di via Porta dell’Olmo si possono notare due tipiche “altane” fiorentine e lo stemma in pietra del 1444 del capitano di Giustizia Gentile Ghini.
La Rubrica “Fatti e misfatti di Forlì e della Romagna” è a cura di Gabriele Zelli e Marco Viroli