Venticinque fra socie e soci del Foto Cine Club Forlì sono i protagonisti della bella, interessante e stimolante mostra fotografica contro la violenza sulle donne allestita fino al 6 gennaio alla Galleria Mazzini, corso Mazzini 21. Dopo il tradizionale taglio del nastro il presidente del sodalizio, Roberto Baldani, ha espresso soddisfazione per l’organizzazione dell’evento considerata la limitata attività pubblica della associazione nel corso degli ultimi tempi a causa della pandemia in atto. Ha sottolineato inoltre che l’impegno profuso dagli iscritti per rappresentare attraverso 50 fotografie (due per ogni partecipante) un tema che quotidianamente riempie le cronache dei mezzi di informazione è stato molto sentito, quindi né banale né scontato.
È poi intervenuto Gabriele Zelli che ha evidenziato come la battaglia contro i femminicidi deve essere combattuta a più livelli, in quanto da sole le norme repressive non sono sufficienti se non si opera per promuove la cultura delle pari opportunità fra i generi, sgretolando una visione della donna relegata e sottomessa. Per secoli, infatti, i mariti hanno avuto addirittura un potere correzionale nei confronti delle mogli che implicava la punizione fisica delle stesse. Questo potere fu riconosciuto, se non nel diritto comune, nelle norme locali e accettato nella consuetudine e nella prassi soprattutto negli strati inferiori della società, permeati di cultura patriarcale, compresa la nostra Romagna. Esisteva una reale subordinazione della moglie al marito che era investito della funzione di istruire, ammaestrare e “correggere” anche a suon di ceffoni e di legnate la consorte. Un antico proverbio popolare recita “Buon cavallo o cattivo cavallo vuole lo sperone, buona moglie o cattiva moglie vuole il bastone”.
Mogli riottose all’obbedienza e alla sudditanza, ha proseguito Gabriele Zelli, di scarse virtù domestiche, scialacquatrici, linguacciute o di “cattivi costumi”, giustificavano, nel senso comune, la violenza del marito. Il discrimine tra intento correttivo e violenza era dato dai modi e dai mezzi usati: ricorrere alla cinghia non era lo stesso che mettere mano a un coltello. Gli statuti cittadini medioevali ponevano pochi limiti: quelli di Trieste, per fare solo un esempio, concedevano al marito di bastonare la moglie a piacere, purché non arrivasse all’amputazione di un arto o all’omicidio. Altri statuti lasciavano libertà di percosse, senza consentire di arrivare “all’effusione di sangue”.
Lo stupro coniugale e il delitto d’onore godevano di un ampio consenso sociale, ha infine ricordato Zelli. Non che le legislazioni riconoscessero come un “diritto” quello di uccidere la moglie adultera, ma, in concreto, l’impunità di cui godevano gli uomini finì per farne un diritto naturale patriarcale che autorizzava abusi e scelleratezze, tra cui quella di usare il delitto d’onore per sbarazzarsi della consorte: una prassi molto diffusa, anche in tempi abbastanza recenti in alcune zone del nostro meridione. Così come in alcune nazioni, ancora oggi, la fedeltà imposta ad ambedue i coniugi era ed è vincolante per la donna, tanto che sono ben diverse le sanzioni previste dalla “normativa”, sia un tempo quando l’adultera venivano rasata, oppure flagellata o uccisa, mentre l’uomo veniva sanzionato con una multa o con una leggera pena corporale, sia ai giorni nostri dove alle donne è vietata ogni tipo di socialità.
È per tutti questi e per molti altri motivi che alla prevenzione e alla repressione deve essere affiancata un’azione di promozione culturale vera e reale per l’affermazione dell’uguaglianza di genere, soprattutto fra le giovani generazioni.
L’esposizione sarà visitabile fino al 6 gennaio secondo i seguenti orari: 28, 29, 30, 31 dicembre dalle 16,00 alle 18,30; 1, 2 gennaio dalle 10,00 alle 12,00 e dalle 16,00 alle 18,30; 3, 4, 5 gennaio dalle 16,00 alle 18,30; 6 gennaio dalle 10,00 alle 12,00 e dalle 16,00 alle 18,30. Ingresso libero. Green pass e mascherina obbligatori.