La moda dipinta, ritratta, scolpita, realizzata dai grandi artisti. L’abito che modella, nasconde, dissimula e promette il corpo. Ecco “L’arte della moda” ai Musei San Domenico dal 4 marzo al 2 luglio 2023. L’abito come segno di potere, di ricchezza, di riconoscimento, di protesta. Come cifra distintiva di uno stato sociale o identificativa di una generazione. La moda come opera e comportamento. L’arte come racconto e come sentimento del tempo. La sintesi tra opera d’arte e moda l’ha ben definita Oscar Wilde: «O si è un’opera d’arte o la si indossa». Come in uno specchio, l’esposizione forlivese del 2023 mette a confronto la grande arte e la grande moda. Dal Re Sole alla Pop Art. Dall’Ancien Régime al secondo Novecento.
Se il legame tra abito e ruolo sociale è proprio di tutte le civiltà organizzate, il principio di cambiamento costante della moda è l’effetto di un lungo processo storico e segna l’avvio della modernità. Mostrare i segni della ricchezza e del potere, far vedere ed essere visti: assume con l’Ancien Régime un significato programmatico e comunicativo. La moda si colloca al centro del potere e della sua comunicazione. Al centro della società e dei suoi segni simbolici. Essa oscilla tra innovazione e imitazione, orientamento al nuovo e immediata comunicabilità come qualcosa di socialmente approvato. Nel rinnovarsi deve comunicarsi, nel farlo si consuma.
Nel Settecento la moda diventa moderna e diffusa tra classi sociali diverse. Come oggetto di consumo sempre più diffuso, modifica lentamente l’organizzazione della distribuzione, sempre più caratterizzata, soprattutto nelle città, da luoghi fissi. Nascono i negozi. E da essi, a metà del secolo successivo, i grandi magazzini e tutto il sistema di rappresentazione e di comunicazione dell’abbigliamento. Cambiano gli stili e cambiano i materiali. Si aprono nuove produzioni. La ricerca dei materiali rivoluziona il mondo produttivo e quello commerciale fino alle attuali soluzioni tecnologiche.
Ma è proprio la diffusione della moda che crea socialmente e culturalmente quella sua caratteristica bipolare che la caratterizzerà di lì in poi. Si tratta di elementi qualificanti che nelle forme dello stile sottolineano continuamente il passaggio tra trasgressione e omologazione, rottura e consenso, lineare e sontuoso, policromo e monocromo, natura e artificio, organico e inorganico, superfice e profondità, differenza e identificazione, per riprendere alcune delle antinomie di Georg Simmel e di Walter Benjamin.
L’arte ne è lo specchio e l’ispirazione, l’espressione e la diffusione dei modelli. Spesso la creazione stessa. Dalla fine dell’Ottocento e per tutto il Novecento il rapporto si fa più intenso: artisti che disegnano abiti e gestiscono la comunicazione della moda, stilisti che collezionano opere d’arte e ne fanno oggetto di ispirazione o il simbolo della propria contemporaneità.
Il rapporto tra arte e moda va da quel momento incrementandosi in un gioco delle parti che porterà la moda stessa a diventare un’arte, uno sguardo sulle cose del mondo come la filosofia, la letteratura, il cinema, e a ispirarsi all’arte stessa, in rimandi che dal secondo Novecento fanno dell’intera storia dell’arte, oltre le corrispondenze temporali, la propria creativa, perenne contemporaneità.
Mai come nel Novecento le vicende della moda si sono identificate con i temi della politica, del cambiamento sociale, della cultura, assumendo, oltre il gusto e la funzione, il ruolo autonomo, espressivo di ideologie e sentimenti, movimenti e aspirazioni.
Non solo stile. Ma un più profondo processo generazionale che determina l’etica dei comportamenti. Un sistema strutturale che trasforma l’oggetto commerciale in parola, linguaggio, segno, simbolo. Il lusso dell’oggetto diviene lusso di parole, in un rapporto nuovo tra l’indumento-immagine e l’indumento-parola: nel Sistema della moda, Roland Barthes individua nel vestito, oltre le interpretazioni psicologiche, la sua funzione etica, cioè la capacità di produrre valori sociali che attestano il potere creativo della società su sé stessa.
Il mondo nuovo
Con Luigi XIV, lo sfarzo esibito attraverso il lusso dei vestiti esplicitò la propria funzione politica ed economica. La nobiltà costretta a Versailles fu spinta dal re all’esercizio del lusso (nessun abito poteva essere indossato due volte, se non con profonde modifiche), fino alle estreme conseguenze della rovina finanziaria e dell’insignificanza politica della corte, mentre lo stato, organizzando lo sfruttamento del lusso, favorì la crescita di finanziatori e fornitori: mercanti, artigiani, tessitori, sarti, fino alle marchandes de modes. «La moda è per la Francia ciò che le miniere d’oro del Perù sono per la Spagna»: aveva detto Jean Baptiste Colbert, ministro del Re Sole, celebrando l’importanza della moda francese già nel XVII secolo.
Alla metà del secolo XVIII, il modello più diffuso nell’abbigliamento femminile era noto come robe à la française: una sopravveste aperta che veniva indossata sopra un corpetto decorato e un vestito fissato al panier che ne sosteneva la gonna. L’abito era diviso al centro per formare un’apertura a forma di V che permetteva di mostrare sottogonne di colori contrastanti o identiche, creando così l’impressione di un’abbondanza di stoffe, mostrandone il tessuto pregio e i decori, le scarpe erano ricamate con tacco alla Luigi XV.
Più comodo e aderente il modello à l’anglaise, che a partire dagli anni settanta introduce nel guardaroba femminile alcuni elementi dell’abbigliamento maschile, in particolare la rielaborazione della redingote. La donna è protagonista di un romanzo sentimentale e della nuova sensibilità del sublime. Aristocratiche e letterate si fanno ritrarre da George Romney, Thomas Gainsborough, Sir Joshua Reynolds, Lawrence, in atteggiamenti assolutamente informali e con abiti che inneggiano a una nuova libertà del corpo.
Alla rivoluzione dei consumi si collegano sia la ricerca dei materiali, sia le rotte commerciali. Alla lana e al lino si sostituiscono il cotone e la seta. Lo sviluppo della domanda avvia il processo della creazione di abiti pronti, dissocia i luoghi di produzione da quelli di vendita e crea il marchio di qualità, infine si sviluppano il marketing e la pubblicità. La moda diventa industria.
La vera rottura con il sistema ereditato dal passato avvenne negli anni ottanta del XVIII secolo. Nel 1783 fu esposto al Salon un ritratto di Maria Antonietta realizzato da Elisabeth Vigée-Lebrun in cui la regina indossava un abito bianco di mussolina dalla foggia semplicissima e i colori schiariti. È l’origine di quella che fu chiamata la chemise à la Reine. Maria Antonietta si sottrae allo sfarzo e privilegia uno stile di vita più naturale: igienico, comodo, giovane. Sarà Rose Bertin a foggiarne l’immagine. La sua modernità non le salverà la testa.
In generale i codici dell’abbigliamento non sopravvissero come tali alla Rivoluzione francese. E se il corteo degli Stati Generali fu l’ultima rappresentazione dell’Ancien Régime, il 5 maggio 1789, poiché prevedeva, nonostante le proteste del Terzo Stato, come dovessero essere vestiti gli esponenti di ciascun Stato, il 29 ottobre 1793 (8 brumaio del II anno), la Convenzione decretò la libertà totale di abbigliamento, «secondo la volontà individuale». La Rivoluzione non stabilì regole, anche se a David fu dato l’incarico di disegnare il costume del rivoluzionario. Senza successo. Senza poter definire una propria uniforme, stabilendo una relazione forte tra il lusso e il superfluo, la Rivoluzione influenzò enormemente la nuova iconografia.
La grande rinuncia maschile all’elemento decorativo brillante e sfarzoso e al colore rielaborava il concetto di eleganza nella versione della rispettabilità e della produttività. L’uomo abbandonava la pretesa di essere bello e si accontenta di essere pratico.
Dal Direttorio all’Impero
Il Direttorio segnò un fondamentale momento di passaggio nella moda femminile. Le donne cominciarono ad indossare abiti diritti di mussolina bianca, senza sottostrutture, leggeri e trasparenti. In parte ricordavano la chemise à la Reine e ancor più le tuniche classiche. Ma tra le fonti di ispirazione svolse un ruolo fondamentale la pittura di storia. Il colore chiaro era una adesione al gusto neoclassico diffusosi con i ritrovamenti archeologici greco-romani. La terra restituiva statue che indossavano indumenti drappeggiati, dai quali trasparivano corpi perfetti. Il corpo così idealizzato, la semplice bellezza delle statue greche teorizzata da Winckelmann, diveniva un fatto culturale e sociale.
Il gusto Neoclassico determinò un profondo orientamento artistico, nonché lo stile e il gusto architettonico e decorativo. La linea dell’abito femminile era ispirata alla giovinezza danzante dell’Ebe canoviana, con la leggerezza delle vesti che scoprono braccia e spalle: anche d’inverno l’uso dei soprabiti sarà inviso, avviando la moda degli scialli, grazie anche al cachemire portato da Napoleone dopo la campagna d’Egitto e ancor più importato dalla Compagnia delle Indie inglese. Tuniche e pepli con un punto vita molto alto, immediatamente posto sotto un seno finalmente libero e visibile, rendeva il corpo fluido e libero. Dopo il 18 brumaio (VIII anno), Napoleone Primo Console utilizzò moda e mondanità per dare vita a una nuova classe dirigente, cercando di integrare la società dei nuovi ricchi con la nobiltà che aveva accolto il cambiamento, favorendo una generale operazione di restyling di alcune delle passate abitudini. Protagonista di questo processo che mirava a creare un nuovo protocollo mondano fu soprattutto Joséphine de Beauharnais. Ma figure come Madame de Staël non furono meno influenti. Il revival neoclassico continuava ad essere il modello di base, progressivamente arricchito.
L’affermazione della moda borghese
Poco dopo, la Restaurazione dei regimi monarchici imposta a Vienna comporterà per tutta l’età romantica una oscillazione del gusto.
L’Italia è ancora dipendente dalla moda francese, per cui si fanno arrivare i figurini da Parigi, decorati dal milanese Corriere delle dame. A questi abiti straordinari corrispondono gli ammalianti ritratti di Hayez, Giuseppe Molteni ed Eliseo Sala. La diffusione del romanticismo nella moda è veicolata anche dal toscano Giuseppe Bezzuoli che con il celebre Ritratto della famiglia Antinori domina lo scenario del ritratto a Firenze. A Milano, gli abiti presenti nei ritratti di Hayez e Molteni creano essi stessi moda: la moda dipinta non è alle dipendenze della moda stessa ma del gusto dell’artista.
Una impronta storicista consentirà a Frederick Worth, il vero primo esponente della haute couture, a partire dagli anni Cinquanta e complice l’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, di tornare a pescare dal passato, rilanciando il lusso: i nuovi potenti d’Europa «volevano adornarsi con gli splendori del passato» per trarne una qualche legittimazione. I dipinti dei musei e delle gallerie entrano nel sistema della moda, contribuendo a creare il mito dell’eleganza di cui fu simbolo maschile Lord Brummel. Worth guarda al passato Rococò e ai suoi contemporanei, condivide con Moreau l’ornamento. Ma guarda anche all’altra linea artistica che tiene la seconda metà del secolo fino al Simbolismo: la generazione degli impressionisti e per l’Italia l’esperimento della Macchia.
L’ossessione del livellamento aveva risvegliato il fascino del privilegio, l’arricchimento materiale aveva come disvelato un deficit simbolico che soprattutto la moda femminile e il ruolo della donna potevano contribuire a colmare. A partire dagli anni Trenta dell’Ottocento la transizione si era già compiuta. L’abbassamento del punto vita porta a fare assumere al corpo la forma di tre triangoli: la testa, il busto (più stretto col ritorno del corsetto), la gonna (vasta a disegnare un triangolo capovolto rispetto ai primi due). Abbondanza di tessuti, eccesso di decori, rigidità delle forme descrivevano la nuova figura femminile, cui era concesso il ruolo sociale dell’eleganza e della capacità di spesa.
Sviluppatosi fortemente in età napoleonica, il commercio degli articoli di moda conosce una vera e propria esplosione con la creazione dei grandi magazzini. Il fenomeno sarà inizialmente soprattutto inglese e francese, per poi approdare in tutta Europa. Essi seguono e partecipano del rinnovamento urbanistico e spesso sono collocati nei passages, si aprono sulla strada con vetrine, creando un legame espositivo tra esterno e interno; la scelta architettonica eclettica offrendo una diversa disposizione spaziale consentiva di intendere le nuove confezioni seriali, predisposte e mostrate, quale idea di una nuova libertà di scelta.
Fra i grandi magazzini dell’Ottocento ci sono nomi divenuti famosi, come Le Bon Marché (1838), La Samaritaine (1869), le Galeries Lafayette (1912), in Francia, mentre in Inghilterra: Harrods (1851) e Whiteleyes (1868). In Italia apre a Milano nel 1836 Aux villes d’Italie, ribattezzato da D’Annunzio nel 1918 La Rinascente.
Le confezioni di serie introducono un altro aspetto fondamentale: quello dei vestiti firmati. La cultura della griffe coniuga arte e business, design e consumo. I vestiti sono unici non più in sé stessi ma nel loro ruolo di comunicatori dello status sociale, del rango e dell’identità; si muovono assieme a chi li indossa nei diversi ambienti. Vestirsi corrisponde all’assunzione di una prospettiva personale riconoscibile sulla realtà, definisce una nuova soggettività, corrisponde ad una sorta di «io narrante», in una corrispondenza tra il soggetto sociale e l’oggetto indossato.
Il simbolismo
Sarà il neo-manierismo di Pingat a rinnovare gli schemi e a condurre la moda dopo una ripresa neo-cinquecentesca a guardare alla contemporaneità. Ma occorre attendere Jacques Doucet per approdare al Simbolismo e alla sua arte dell’anima. Doucet chiuderà ogni riferimento allo storicismo dichiarando la fine dell’opacità spessa delle vesti e della loro rigidità, e aprendo a una nuova leggerezza.
Indimenticabili, lungo la stagione della Belle Époque, rimarranno nella memoria collettiva le donne sublimi di Boldini. Il ferrarese, dopo un periodo passato a Firenze all’ombra della Macchia, diventa, insieme a De Nittis, protagonista della scena parigina, grazie alle sue immagini iconiche che nell’età della Belle Époque segnano la modernità. Attivo fino 1931, Boldini regna indiscusso sul gusto con i suoi ritratti di dame cilene e delle eroine del ciclo di Proust La recherche. Da Boldini a Corcos, da De Nittis a Degas, a Toulouse-Lautrec: sono questi gli artisti della moda e della dolce vita, prima della catastrofe della Grande Guerra.
Innumerevoli gli artisti e i movimenti. Dalle forme artificiali, eticizzate, alla natura naturans. Una svolta rivoluzionaria che riguarderà l’ultimo simbolismo e aprirà ad altri protagonisti: dalle Secessioni di Klimt, Hoffmann, Van de Velde, a D’Annunzio e a Biki. Donne diafane e fitomorfe, fluttuanti e vitalistiche, secondo le nuove inquietudini psicologiche e sociali di cui il mondo femminile è protagonista e simbolo.
Il grande interprete dei primi vent’anni del Novecento, accanto e in parallelo alle Avanguardie, sarà Paul Poiret. Con lui tutta la tavolozza dei colori accesi di Matisse e dei Fauves s’impone. E finisce per fornire all’Espressionismo le coordinate operative. Ridà forma al corpo con una liquidità più densa che sfiora le linee della silhouette a favore del movimento. La figura si fa movimento, il corpo si trasforma continuamente.
Dalle Avanguardie al Made in Italy
Nel folto gruppo delle avanguardie, i Futuristi si rivolsero con la serie dei loro manifesti, a partire dal 1909 ad ogni aspetto della vita. Moda compresa. E con Il vestito antineutrale (11 settembre del 1914), scandivano il rapporto moda e politica, optando per l’interventismo italiano nella guerra. I miti futuristi erano la metropoli, la macchina, la luce elettrica, gli aerei, il cinema; i rumori delle nuove tecniche erano la nuova estetica, l’arte del presente, la nuova bellezza. Saranno soprattutto Balla e Depero a dare impulso alla moda futurista. Balla in particolare realizzò abiti in cui forme geometriche e ritmi cromatici suggerivano effetti dinamici.
Il vero interprete dell’abbigliamento degli anni Venti fu Mariano Fortuny. Egli rinnovò il modello del chitone e lo tradusse in una tunica, il “Delphos”, secondo l’equazione corpo/donna/movimento/bellezza. Il primo decennio del Novecento vide nascere in Italia un’altra forma di ricerca artistica, che affermò sé stessa in radicale opposizione al modello culturale borghese. A Fortuny si aggiungeranno le indimenticabili creazioni di Maria Monaci Gallenga, Rosa Genoni che riprendono citazioni raffinate dall’arte del Trecento e del Quattrocento.
L’ultima parte della mostra “L’arte della moda” sarà concentrata sugli anni ruggenti del ‘900, gli anni 20/30, caratterizzati da una moda almeno in Italia autarchica alle dipendenze di Parigi, ma i ritratti di Oppi o gli abiti di Edda Ciano Mussolini rimangono icone indimenticabili di quel tragico periodo. Ma quel periodo darà alla luce collaborazioni internazionali davvero innovative come quella tra Elsa Schiaparelli, Salvador Dalì e il Surrealismo, e tra Thayaht e Madeleine Vionnet. Accostamenti importati tra arte e moda riguardano anche le nuove generazioni. Dopo Coco Chanel, saranno Christian Dior, Yves Saint Laurent e Balenciaga a muoversi tra l’Informale e l’Espressionismo-astrattista.
La mostra “L’arte della moda” vedrà la sua conclusione più logica nell’approfondimento della moda italiana che negli anni del secondo dopoguerra si affranca dai modelli del gusto francese. Si tratta di una moda dominata da Gucci, Ferragamo, Jole Veneziani, Germana Marucelli e dai grandi sarti stilisti presentati dal conte Giorgini in una celebre mostra nella sala bianca di Palazzo Pitti, evento che segna la nascita di un Made in Italy diffuso nel mondo con interpreti della grandezza di Gianni Versace, Valentino, Armani, Prada.
Lungo tutto il percorso della mostra, i ritratti degli artisti più celebri saranno in contrappunto agli abiti dell’epoca in alcuni casi ricostruiti sulla base di un’attenta documentazione, in altri prestati come i quadri dalle maggiori collezioni del mondo.