Non pensavo che il mio precedente scritto dedicato all’assalto alla diligenza pontificia della banda del Passatore (in quell’occasione assente) incontrasse interesse. Invece solo la citazione del nome Passatore mi ha dimostrato che ancora oggi è un personaggio che incontra attenzione e curiosità. È superfluo che ricordi la produzione letteraria che lo ricorda. Più di 20 romanzi di cui il più importante è quello di Francesco Serantini, diversi film, addirittura uno sceneggiato televisivo ed anche romanzetti da bancarella, da teatro dei burattini e delle marionette, da racconti e saggi, da canzoni (Secondo Casadei) e poemetti.
In questo secondo incontro con il personaggio voglio entrare nel vivo della sua attività delinquenziale e se nel primo abbiamo scelto un episodio incruento, perché solo una rapina da strada come tante altre, questo invece è sanguinoso con addirittura tre uomini uccisi. Voglio fare una precisazione la “Forza” nel 1849 sono Carabinieri, nel 1850 sono Veliti e nel 1851 è Gendarmeria. Cambiano i nomi, ma è sempre la stessa. Il tutto che si alimenta attraverso una vasta rete di spie, informatori, protettori, manutengoli, ricettatori, da una parte e dall’altra. Cominciamo a narrare questa triste vicenda, a cui seguiranno interessanti notizie sulle condizioni di salute di alcuni componenti la banda e in particolare proprio di lui, il Passatore.
Così, dal Verbale dei Veliti Pontifici – Compagnia di Forlì – Tenenza di Forlì –
Stilato : Oggi giorno 18 Maggio 1850
Venerdì 17 maggio 1850 è una giornata piovosa, senza interruzione. Siamo verso sera e il posto fisso armato dei Veliti stazionato in Villafranca (Forlì) si prepara ad eseguire la perlustrazione notturna. È comandato dal Sergente Giuseppe Mazzini che con nove uomini si dirige verso un viottolo nascosto che porta al passaggio del fiume Montone fra il limitrofo confine ravennate lontano circa due miglia dal posto e precisamente vicino alla Chiesa di S.Martino.
Improvvisamente si sente come un raduno di persone che parlano forte, e allora il sergente divide i suoi uomini su ambo i lati del viottolo e quando le voci diventano più forti e la distanza non sembra non più di trenta passi, intima : Chi vive!, immediatamente gli viene risposto con una scarica di più colpi di armi comburenti. I Militi fanno altrettanto, ma un colpo di trombone frattura il braccio destro dell’infelice sergente e un altro colpo uccide all’istante il fuciliere Domenico Contoli. I Militi non si perdono d’animo e di coraggio e si dispongono per far fronte agli assassini quando vedono sopraggiungere un altro gruppo di malfattori dalla parte opposta e allora comprendendo che non era più possibile una difesa, cercano scampo dirigendosi per i campi mentre il sergente mortalmente ferito cerca rifugio nella casa del parroco di S.Martino seguito dal fuciliere Gaspare Borgonzoni. Tutto inutile, i banditi dopo averli circondati uccidono il fuciliere, che è un giovane di 19 anni, e dopo averlo aggredito lo colpiscono con colpi di stilo al petto. Vedendo poi sul Sergente i distintivi del grado con feroce gioia esclamano: è il Brigadiere dei Veliti! e così barbaramente a colpi di coltello, tagliatogli il colletto, lo uccidono, ma vedutisi ingannati, furibondi perché non è la persona che cercavano o il Carabiniere o Brigadiere del posto, dopo diversi colpi di stilo all’agonizzante Contoli e in più un colpo di fucile nella gola, catturati 4 veliti li percuotono atrocemente perché dicessero dov’era il Carabiniere o Brigadiere che tanto cercavano, e dicevano che erano venuti appositamente per ucciderlo e mentre imprecavano e bestemmiavano affermavano che sarebbero venuti la sera seguente per catturarlo e ucciderlo e che facessero sapere al loro capitano che mettesse pure in perdita molti uomini e ben provveduti di munizioni che non temevano ed anzi avevano piacere onde provvedersi lor medesimi delle stesse munizioni.
Questi uomini parlano dialetto faentino, imolese, romagnolo e due il bolognese. Obbligano i superstiti a perquisire i loro compagni uccisi o prigionieri e a consegnargli il poco denaro che hanno e mentre taluni di loro vogliono ucciderli, altri invece dicono di andarsi a nascondere in mezzo al grano perché doveva giungere un terzo drappello dei loro compagni che li avrebbero senz’altro fucilati. Così facendo il gruppo di banditi se ne va dalla parte da dove era venuto passando a guado il fiume e portando con sé i berretti di sei soldati cioè dei tre uccisi e di tre fatti prigionieri. All’intorno si trovò sbandata una cavallina di circa 5 anni pelame morello con sella e sopra una pelle di pecora bianca assieme a degli indumenti tutti bagnati, senza dubbio tutte cose di uno degli aggressori che era caduto nel fiume.
Appena avuta conoscenza (quando?), è chiaro che il mezzo più veloce era un uomo a cavallo, quindi quante ore saranno passate prima che il Comando fosse a conoscenza del misfatto? Comunque sia, appena avuta notizia, il Comandante la Compagnia, i Fucilieri, recatisi sul luogo iniziano indagini e ricerche, le più accurate, purtroppo senza esito. La compagnia della Forza arriva fino a Russi, inoltre lascia libera la cavallina per scoprire quale direzione prendesse per seguirla. Tutto inutile. In rinforzo giunge anche un distaccamento di truppe austriache, ma tutte le diligenze effettuate riescono vuote d’effetto.
La masnada di assassini
Ma chi erano questi malviventi? Diciamo i soliti del Passatore: lui, i due Lisagna, Biribisso, Lazzarino, Mattiazza, Anguillone, Spiga, Calabrese, Fagotto, Visani Luigi, Montalti Luigi, Giuseppe Scaletta detto il Moro e Andreoli, quindi un totale di 14 uomini, forse anche di più, visti i tre gruppi che stavano per radunarsi. Questi però i nomi, anzi i soprannomi che risultano dal verbale della Compagnia di Forlì dei Veliti Pontifici. Mesi dopo precisamente il 30 novembre 1850 viene arrestato Gaetano Morgagni detto Fagot o il Rosso della grata, forlivese di 24 anni e le sue confessioni o delazioni faranno distruggere la banda, in compenso lui ottiene l’impunità!
Ai personaggi sopraccitati si devono aggiungere anche altri: Schivafumo del bolognese, Sboraccia di Castrocaro, Angiolino del Guardiano, Giuseppe Morigi faentino, Camminazzo di Cesena, il Matto detto Mattiolini di Toscanella. Così si arriva al numero di 20 che in sostanza è il gruppo (ma che senz’altro sarà però più numeroso, infatti nel verbale di Longiano i malviventi sono 25) che sta preparando l’assalto a Longiano che avverrà il 28 maggio 1850. Ripeterà gli assalti di Cotignola (27/01/50), Castel Guelfo (28/1/50) e Brisighella (7/02/50). Ma perché questi delinquenti rubano i berretti dei Carabinieri, in questo caso ben sei? Perché è loro abitudine vestirsi con parti di divise militari per trarre in inganno gli altri che pensano di aver a che fare con la Forza. Succederà così a Longiano (abuso di nome e vestiario della Forza) e nell’aggressione a casa dei fratelli Cicognani nei pressi di Fiumana (chi sembrava comandare portava un vestito come un maresciallo con le spalline d’argento alla carabiniera con in mano uno squadrone sfoderato lungo un braccio e mezzo molto lucente). Ecco perché rubano parte delle divise…per ingannare gli altri, che avranno però… amare sorprese…
Le armi cosiddette comburenti ossia da fuoco
Abbiamo parlato di armi, addirittura per la prima volta di un trombone, vogliamo dire qualcosa sulle stesse? Fucili a una canna di origine militare a una palla (e’ sciop), fucili a due canne (la sciopa) che venivano caricati a pallettoni, pistole a una o a due canne a palla. Dal periodo napoleonico e le relative armi dell’esercito francese, tutte ad avancarica e con accensione a pietra focaia e di grosso calibro sia per i fucili che per le pistole tutte armi con un calibro di 17,5 mm, si passa, pur rimanendo sempre all’avancarica, all’accensione della polvere con il luminello e la capsula. Il calibro non viene ridotto, se non molto più avanti nel tempo. Nel 1866 lo Chassepot a retrocarica (vi ricordate Mentana?) avrà un cal. di 11 mm. Solo le pistole hanno questa riduzione di calibro per cui possono essere a due canne e quindi sparare due colpi. Sempre più tardi, tanto per fare una data, il solito 1866, compaiono i revolver a sei colpi sempre però ad avancarica, ma non della canna, bensì del tamburo. Anche Achille Cantoni ne aveva uno che è conservato nel Museo del Risorgimento a Forlì.
Come si può vedere non c’è più il cane con il morsetto che stringeva la pietra focaia, c’è il cane che si abbatte sul luminello che in testa ha una capsula che incendia la polvere che è presente sul fondo della canna. Ma il caricamento come si effettuava? Le cariche erano già preparate in cartocci cilindrici di carta robusta contenenti la giusta quantità di polvere e la palla o i pallettoni. Con i denti si apriva la parte più piccola del cartoccio e si faceva uscire una minima quantità di polvere nella canna, poi si inseriva il tutto con la parte contenente la palla verso la bocca e si premeva con la bacchetta. Ogni uomo aveva una cartucciera con più o meno 40 cariche . La rapidità di carica e quindi di fuoco dipendeva dall’esercizio di preparazione e dall’allenamento. Non era eccessivamente lenta, anzi.
Per la doppietta a canne lunghe il sistema è il medesimo, solo che anziché una palla spara una scarica di pallettoni. Per il trombone il discorso è diverso. E’ un’arma che può essere usata solo a distanza ravvicinata e scarica una volata di proiettili di ogni genere: pallettoni, chiodi ed altre ferraglie di diverso tipo. Le canne di queste armi sono tutte lisce. Solo qualcuna è a canna rigata, ma è di alta tecnologia e quindi per il prezzo scarsamente avvicinabile.
Le armi bianche
Pugnali, coltelli di tutti i tipi, compaiono anche le squadrone ( lama lunga 70/80 cm., larga 3/4 cm.) sono le sciabole dei carabinieri frutto di qualche rapina o omicidio. L’arma bianca che però è maggiormente ricordata è lo stilo. Un pugnale tutto compreso lungo 32 cm. o anche più con lama larga dai 14 mm. a zero lunga dai 16 ai 20 cm. Quindi molto sottile e acuminato.
Ma chiudiamo questa parentesi, spero interessante, per sapere qualcosa di più di questa infausta serata del 17 maggio. Dopo aver fatto tutto quello che abbiamo descritto, lasciati i militi superstiti allo sbando, che senz’altro avranno cercato il modo di avere soccorsi e di avvertire il comando, la banda cosa fa? Senz’altro sono tutti a cavallo e sanno benissimo dove devono andare.
A S. Barnaba in Quartiregio. Oggi solo S.Barnaba, in territorio ravennate.
Passato, a guado o a guazzo come si diceva allora, il fiume Montone devono percorrere una distanza di circa 4 Km. Quaranta minuti di tempo andando al passo, se al trotto molto meno. Vanno a casa di Matteo Morigi proprio in quel di S.Barnaba. Ma non tutti, sono più di venti, per cui si dividono. Una parte va a casa di Matteo e l’altra a casa del fratello Luigi che abita non molto distante, a Reda. Arrivano a sera tutti armati e molti vestiti da carabinieri, altri con cappelli alla tirolese con pennacchi di penne di cappone. Entrati nella casa si notano le catene d’oro che hanno addosso e gli anelli preziosi nelle dita. Uccidono quattro galline che cucinano nel focolare al pian terreno e si fanno portare del vino, molto vino.
Alcuni se ne vanno al piano di sopra nelle camere da letto e dicono a Matteo Morigi, sapendo della sua amicizia con il medico di Villafranca, di andare da lui per farlo venire a visitare gli ammalati, dicendo che sarebbe stato ben pagato. Infatti gli danno una “doppia-doppia” d’oro da dare al dottore come caparra. Così Matteo parte subito per Villafranca e arriva a casa del dott. Giuseppe Alberi detto Faffino mentre sta cenando con la famiglia. Gli dice che a casa sua ci sono persone malate di iterizia con ulceri nelle parti genitali e scolazione, forte mal di gola e vomito e che sarà pagato molto bene. Infatti Matteo dà al dottore la doppia-doppia d’oro.
Così Faffino attacca al suo biroccino i due cavalli e insieme si dirigono verso la casa di Morigi. Arrivati, fuori, nell’aia, il dottore vede un gran numero di gente armata, e sente nitrire molti cavalli. Entrato in casa viene fatto salire al piano superiore dove sono le camere da letto e vede alcuni uomini coricati. Chiede dove siano i malati e uno di loro dice: Eccomi! Faffin si avvicina e vede un giovane di circa 25 anni. Avvicinatogli il lume al volto per esaminarlo si sofferma sugli occhi perché gli diceva di sentire molto dolore e spasimo e così facendo osserva che sotto l’occhio destro ci sono delle tracce o grani come punte di spilli di polvere solfurea. Allora comprende che il malato è il famigerato barcajolo o passatore. Addosso molte catene d’oro, piene le dita di anelli preziosi, in capo un cappello detto all’alibò, parla assai fiocamente in dialetto di bagnacavallo e di boncellino. Tastato il polso che annuncia febbre gli chiede se anche da sano la sua voce era sempre fioca, lui risponde un poco sempre, ma non così. Gli visita la gola, ossia il velo pendulo palatino e vede molte ulceri escoriali che lui gli dice di avere anche ai genitali con scolazione, senza però volerglieli mostrare. Gli dice anche di essersi procurato da uno speziale certa polvere che Alberi comprese essere del sublimato da dare sulle ulceri dei genitali. Il passatore però per sbaglio l’aveva ingoiata e aveva avuto un incendio e spasimo in gola. Infatti le labbra erano escoriate così come la lingua ed il palato. Poi lo stesso speziale gli aveva dato olio di ricino e cremor tartaro per rinfrescarsi. Parlando dice ad Alberi che da sette anni teneva quel malanno (Pelloni ha 26 anni quindi a 20 anni era già infettato di sifilide!) altro che iterizia come diceva Morigi! Terminata la visita al passatore, un altro disse: C’è anche il Gobbo da guarire! e gli si presenta un secondo giovane molto vajolato mancante dei due incisivi superiori che dice di avere una gonorrea bianca assai fastidiosa nel camminare. Si presenta anche un terzo accusando della tosse e che si vedeva guarito da poco dal vajolo. Un altro che parlava in bolognese dice: Anch’io ho la scolazione, ma prima di farmi medicare voglio che l’uccello mi caschi in pezzi! Nel frattempo il Passatore ordina ad un altro: Dammi dei baiocchi! e così quattro monete d’oro, una gregoriana da dieci scudi, due napoleoni doppi, e un’altra gregoriana da 5 scudi dalle loro mani passano in quelle del medico. Faffino dice che il doppio-doppio che gli era stato dato all’inizio era più che sufficiente, ma gli si disse di prenderle: Se gliele dà è segno che se le è buscate!
Verso mezzanotte in baroccino assieme al Morigi torna a casa e dice al garzone che all’indomani provvedesse per i medicinali presso lo speziale Vasi di Villafranca. Intanto consegna a Morigi le medicine che ha: una boccetta, una scatoletta e due cartocci da dare agli ammalati con le spiegazioni. La domenica mattina si presenta Luigi Morigi il fratello di Matteo e riferisce al dottore che il giovane che era stato medicato la volta precedente era a casa sua e voleva rivederlo. Così fu fatto. E il medico entrato in casa trovò il barcajuolo e quello della tosse. Il primo cioè il Passatore era migliorato, ma ancora aveva la vista offesa e richiese le pillole che gli erano state promesse, ma che il medico non aveva potuto mandargli perché lo speziale non ne aveva. Gli lasciò la ricetta e il barcajolo tornò a dargli altri denari. Per preservare gli occhi malati il Dott. Alberi gli consigliò degli occhiali che il Passatore non aveva. Allora il medico gli offrì i suoi (saranno stati da sole o da vista? Io penso da sole -ma esistevano già!?- perché da vista non sarebbero serviti) che lui accettò, ma che volle pagarli con un francescone.
E così tutti a casa… con tanti soldi. Ma le cose non finiscono qui. Le indagini della gendarmeria proseguono e lentamente ma inesorabilmente arrivano ai nomi di tutti gli implicati in questa vicenda. Anche il Dott. Alberi, Faffino, non si salva. Così mentre i fratelli Morigi vengono arrestati e imprigionati il 30 maggio 1850, anche Faffino il 6 giugno 1850 viene incriminato, arrestato e rinchiuso nel carcere dei Romiti di Forlì. L’accusa è di non avere avanzata la denuncia di aver prestato aiuto al passatore e ad altri della sua banda. La difesa di Alberi fu che il soccorso prestato era stato oggetto puramente per curare degli ammalati e non già allo scopo diretto di porgergli un aiuto per sottrarlo alla giustizia. Chiede il dott. Alberi di ottenere di difendersi a piede libero.
La sua difesa ottiene il risultato desiderato. Infatti il 7 settembre 1850 il Tribunale in Camera di Consiglio dichiara che il titolo per il quale si era proceduto contro di lui non era contemplato nella vigente Legislazione, per cui viene dimesso. Il Dott. Alberi chiede pertanto un ampio documento per rendere palese la sua innocenza vista la delicatezza della professione medica, inoltre chiede la restituzione delle monete che “ con candida spontaneità dichiarò di aver ricevute e che ora sono presso questo Onoratissimo Tribunale”.
In chiusura qualche considerazione sul dott. Alberi : quando Morigi arriva a Villafranca per farlo andare a casa sua, la notizia del grave fatto avvenuto solo qualche ora prima doveva già essere di sua conoscenza. Allora sapeva benissimo che chi lo cercava era la banda degli assassini! Perché, lui pubblico ufficiale in quanto medico condotto, non si reca al comando dei Veliti a sporgere denuncia? Perché sapeva benissimo che andare a visitare quei delinquenti avrebbe procurato una generosa ricompensa.
Lo testimoniava già la doppia-doppia d’oro che Morigi gli aveva dato a nome loro come caparra. Ma il medico sapeva anche benissimo che il suo gesto (la visita) avrebbe avuto delle conseguenze penali. Infatti perché di quell’infinità di monete ricevute ne fa un elenco preciso e dettagliato, come una distinta bancaria ( è allegata al verbale) e non ne spende neppure una? Però, la sua vicenda, buon per lui, si conclude positivamente. E, così, il nostro Faffino viene scarcerato e torna libero. Quella invece del Barcajolo o Passatore e degli altri ammalati dovrà attendere ancora qualche mese. Infatti sarà solo il 23 marzo 1851 che Pelloni sarà ucciso in uno scontro a fuoco con la Guardia e così guarirà dalla sua sifilide.
Agostino Bernucci