Per ricordare chi ha perso tutto, anche la vita

cesena alluvione 16 maggio

È arrivato inesorabile l’anniversario dell’alluvione del 2023. Il 16 maggio. E’ inutile rivangare la tragedia che direttamente o no ci ha colpito tutti. E che è ancora fra noi. E’ stato scritto da tutti e per tutti, è stato fotografato di tutto. Ricordiamo le tre vittime che hanno pagato così duramente. E i danni gravi, gravissimi che hanno travolto e sconvolto la vita di tante, tantissime famiglie. Guardando la carta di Forlì mi è balzata agli occhi dopo il ponte di Schiavonia sulla destra una zona contraddistinta da una strada che porta verso l’area golenale, che inopinatamente una variante del piano regolatore, anni fa, ha trasformato in residenziale. Siamo a ridosso dell’argine sinistro del Montone. Qui è stato costruito tanto. Ma tutte le golene sono proprietà del fiume che scorre al loro fianco e che in questa malaugurata occasione se ne è nuovamente impossessato. E’ la nuova parte del quartiere Romiti che si distingue da quello storico perché con la riforma Zattini, i quartieri sono stati ridotti da 42 a 22, questa è stata unita a quello più antico: i Romiti, quelli veri! La strada di cui voglio parlare è intitolata a Vittorio Locchi (Figline Valdarno 8/03/1889 – Capo Matapan 15/0/1917), e di lui voglio approfondire.

Un nome che apparentemente è sconosciuto, soprattutto qui a Forlì. Infatti Locchi è toscano e con Forlì non ha mai avuto rapporti. Ma allora perché? Nasce a Figline Val d’Arno e non era ancor nato che la sfortuna l’aveva già colpito. Infatti suo padre muore in una rissa tre mesi prima della sua nascita. Lui cresciuto, cerca nella vita un lavoro dignitoso che gli lasciasse però libera la mente di sognare. Studia ragioneria a Firenze e si diploma nel 1909. Dimostra una spiccata inclinazione letteraria. Nell’ambiente fiorentino Locchi matura altresì ideali nazionalistici e patriottici. Lavora come contabile a Firenze, ma ritorna a Figline, dove dà vita con alcuni amici ad una compagnia ispirata ad antiche società toscane medievali e quattrocentesche, la “Brigata del Giacchio”, chiamata così dall’ampio pastrano indossato da uno dei fondatori: il gruppo pensa anche al teatro ed allestisce una filodrammatica locale. Scrivono versi che saranno poi pubblicati nel 1914. Questa raccolta verrà giudicata positivamente da S. Benelli e da questo sottoposta a Ettore Cozzani di La Spezia, allievo di Pascoli, che, recensendola e offrendone un saggio nella rivista L’Eroica, piccola rivista impreziosita da numerose tavole xilografiche, di cui Cozzani è l’editore, si occupa con interesse della sua produzione e gli presenta tanti artisti, amici suoi, frequentanti l’ambiente de L’Eroica.

Sul finire del 1910, entra nell’Amministrazione Postale e viene trasferito a Venezia. Qui diventa Tenente della Posta Militare ottiene la qualifica di Capo dell’Ufficio di S. Marco, ed è nominato Ispettore. Durante i cinque anni veneziani cerca di farsi strada nel giornalismo collaborando come articolista letterario al giornale L’Adriatico. Si avvicina ancora di più ad Ettore Cozzani di La Spezia, col quale stabilisce uno stretto rapporto fatto di poesie e sentimenti. Allo scoppio della guerra si arruola volontario. Noto a Venezia per l’acceso interventismo manifestato con pubblici discorsi in piazza S. Marco, il 5 maggio 1915, è a Quarto come inviato speciale de L’Idea Nazionale per seguire il discorso di D’Annunzio in occasione dell’inaugurazione del monumento ai Mille. Il 25 maggio, all’indomani dell’ingresso dell’Italia in guerra, parte per il fronte dell’Isonzo come tenente della 12a Divisione di fanteria, incaricato di organizzare i servizi postali. Pur non combattendo, sceglie di svolgere il suo servizio in trincea presso le truppe mobilitate e viene proposto per una medaglia al valor militare, conferitagli poi alla memoria. Non trascura l’attività poetica. Scrive in quel periodo Il Testamento, componimento in strofette di ottonari tra il serio e l’umoristico, pubblicato postumo da Cozzani, che dice: – mi gonfiò il cuore di malinconia. Nell’agosto del 1916 torna in zona di operazioni militari, e prende parte alla conquista della città di Gorizia, presa l’8 agosto da Aurelio Baruzzi (medaglia d’oro) di Lugo. Questo fatto memorabile, perché Gorizia rappresentava per l’esercito italiano il primo ideale di conquista e di vittoria, lo celebrerà di lì a poco con il breve poemetto in lasse di versi sciolti La Sagra di Santa Gorizia (La Spezia 1917, postumo).

La sagra di Santa Gorizia:

E voliamo nel sole, anima mia!

Facciamoci coraggio

e, colla voce tremante

della passione, cantiamo

i fratelli di campo:

quelli che vissero

quelli che morirono

………

O mie belle brigate!

Brigate dei gialli del Calvario,

Brigata Pavia,

Undicesimo, Dodicesimo,

………….

Reggimenti di Romagna

da venti mesi in trincea…

Questo un brevissimo frammento del poemetto.

Questa è però l’opera che salverà il nome di Locchi dall’oblio. E’ il suo Canto del Cigno che affida ad Ettore Cozzani con una lettera d’addio nel gennaio del 1917, consegnata ad Ada Negri a cui l’aveva data in custodia proprio mentre si stava imbarcando sul tragico bastimento Minas. Lei fece avere il poema a Cozzani perché lo pubblicasse. E così lui fece con una dedica densa di profonda commozione. Richiamandosi alla lezione classico-oratoria di G. Carducci, Locchi descrive l’attesa dei soldati, la battaglia e la conquista della città: riesce ad esprimere, con una voluta semplicità in un soffio epico ed con un linguaggio quasi popolaresco, il patriottismo e l’ardore bellico. Inizialmente divulgata da pubbliche letture organizzate da Cozzani nelle piazze, nei teatri e al fronte, La Sagra ebbe un immediato successo per l’efficacia e l’immediatezza dei suoi toni, e una voluta semplicità in grado di incitare i combattenti e di tenere vivi i sentimenti patriottici. Divenne un cavallo di battaglia di attori e dicitori nell’immediato dopoguerra.

Il 15 febbraio 1917, Locchi si imbarca a Napoli sul piroscafo “Minas”, che faceva parte di un convoglio di trasporto truppe verso Salonicco. Disgraziatamente il Minas fu silurato da due sommergibili e affondò, a largo di capo Matapan, nel mar Egeo. Nel marzo 1917, ricevuta conferma della scomparsa, Cozzani diede alle stampe (postuma) nella collana “I gioielli de L’Eroica”, La sagra di Santa Gorizia. L’introduzione è commovente.

Abbiamo ricordato Aurelio Baruzzi. Nel suo libro Quel giorno a Gorizia racconta anche qualche particolare interessante. Avvenuta una discussione, con altri ufficiali, sulla Romagna, Baruzzi compra una bandiera e sulla banda bianca vi scrive Romagna. Sarà la bandiera che innalzerà nella stazione di Gorizia. A questo proposito: i Reggimenti di Romagna, come dice Locchi, hanno pagato un prezzo altissimo, perché sempre in prima linea. Quante generazioni cancellate! La Romagna doveva pagare un prezzo alto, perché erano sì tutti volontari, ma anche repubblicani e quindi non monarchici. Uscendo all’assalto fuori dalle trincee non gridavano come tutti gli altri: Savoia!, bensì Romagna! Le decorazioni sempre risicate. In chiusura voglio tornare all’argomento iniziale e cioè l’alluvione. Nel giugno 1939 è avvenuto un disastro simile anche se non ha colpito duramente Forlì come in questa occasione. Però il forlivese sì. È crollato il ponte a Coccolia e quello a Castiglione. Frane, frane, dovunque e gravi danni su tutti i paesi collinari.

Il Quartiere dei Romiti, quello storico. Ho parlato dell’area golenale diventata (!!!) residenziale, voglio anche dire, però, qualche parola del vero quartiere forlivese che esiste dalla notte dei tempi, non dell’altro ieri come il precedente. Prende il suo nome dall’antica presenza del Convento dei RR.PP. Gerolimini che successivamente diventerà Carcere Criminale. Conta oggi una popolazione di 3.900 abitanti, tutti duramente colpiti dall’alluvione. Qui ogni giorno è un simbolo colmo di fatica, angoscia e preoccupazione, come in tutte le altre zone alluvionate. Eppure, eppure c’è qualcosa che mi disturba. Il disastro, sì, ma non la fatica, non i danni, non gli abitanti ancora frastornati e senza parole. Ho visto lo scheletro della nuova chiesa che viene costruita!

Grande, molto grande! La vecchia di antica data, riattata nel 1913 con l’aspetto neoclassico che vediamo, alluvionata sì, ma non crollata, non era possibile restaurarla e renderla di nuovo agibile? No! perché oggi a Forlì impera la regola che è meglio demolire e ricostruire (vedi la Scuola P. Maroncelli). Mi chiedo anche, vedendo i disegni di questa nuova Cattedrale, a chi dovrà o potrà servire. Abbiamo detto sono 3.900 i residenti, ma quanti di loro sono veramente praticanti, quanti di loro la frequenteranno quotidianamente? Le Chiese di Forlì oggi, sono chiuse, comprese quelle del centro perché non ci sono più preti, e quindi aprono a turno (talvolta). Romiti è più fortunata perché il prete ce l’ha. Io da spettatore anonimo, perché non toccato dalla disgrazia (abito in centro) che l’anno scorso ci ha però indistintamente colpito tutti, mi sono chiesto e mi chiedo tutt’ora come l’amministrazione ecclesiastica abbia pensato di realizzare una struttura del genere. Le chiese storiche sono chiuse e noi ne facciamo una nuova! Io non riesco a capire. L’idea senz’altro deve essere nata molti anni fa quando la vecchia chiesa esisteva e non c’era timore di una improbabile alluvione. Allora perché voler costruire questo nuovo edificio religioso? Oggi appare molto triste vederne lo scheletro. Lascia molto amaro in bocca dopo quello che è successo.

A me pare che non abbia molto senso, ma ormai le cose sono fatte e non è più possibile tornare indietro. Allora invece di chiedere sovvenzioni ai Romitiani, come è già stato fatto, adesso sarebbe il momento di dar loro un aiuto. Leggo che arriveranno 500 mila euro (!!!) ma per il nuovo edificio, non per gli abitanti. Ho letto tanto, ho riflettuto, ho visto la foto della nomenclatura clericale compiaciuta e sorridente. Ma i Romiti dov’erano, ma il fango dov’era?, ugualmente penso che questa (l’alluvione) debba essere considerata un punto fermo. Un gigantesco punto fermo! I Romiti non sono più quelli di prima. Adesso non è il momento di chiedere, come è stato fatto in passato, bensì di dare. Io penso che l’amministrazione ecclesiastica che ha ricevuto in copia (in abbondanza), allora:

doni con volto amico

con quel tacer pudico

che accetto il don ti fa. (La Pentecoste, A.Manzoni)

Una brevissima nota storica.

S.Maria del Voto, questo il nome della prima, vera chiesa. Espropriata nel periodo napoleonico, nel 1797 vi erano stati acquartierati ben 200 soldati francesi. Comunque i Romiti sono stati senza chiesa per molto tempo. Infatti ancora nel 1856 l’Ing. Primario Pontificio avanzava al Legato Pontificio la richiesta di dare in enfiteusi la ex (dice proprio ex) Chiesa dei Romiti. E allora, tentiamo di aiutare ed evitiamo le cattedrali nel deserto o nel fango! Mi scuso per non essere un entusiasta di questa iniziativa.

Agostino Bernucci

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *