Le effigi di Caterina Sforza riportate sulle monete bronzee conservate nei musei di Londra e Firenze, unitamente a un’immagine coeva, disegnata dal religioso e letterato Giacomo Filippo Foresti, sono le sole testimonianze attendibili di come apparisse realmente il volto della Signora di Forlì e Imola. Tutti gli altri ritratti derivano da descrizioni e interpretazioni oppure furono realizzati dopo la sua morte. Caterina lasciò la vita terrena il 28 maggio 1509, all’età di quarantasei anni con una “pelle di velluto e tutti i capelli bianchi”. Il suo fisico era fiaccato da una vita vissuta intensamente, dalle numerose gravidanze, dalla malaria che l’affliggeva sin da giovane e dai lunghi mesi che i Borgia l’avevano costretta a trascorrere nelle umide e malsane galere di Castel Sant’Angelo.
Come confermano alcuni scrittori rinascimentali, la Sforza superò per fama e fascino ogni altra donna del suo tempo. Il fatto che non abbia lasciato ritratti ci spinge a ipotizzare che potesse non amare particolarmente la propria immagine.
Le cronache del tempo ci consentono però di desumere quelli che furono i tratti fisiognomici salienti della “leonessa”. Aveva capelli ondulati che pare tenesse solitamente raccolti dietro il capo. Non sappiamo se fosse bionda e pallida di carnagione o se aspirasse piuttosto a esserlo facendo ricorso a creme e a “rimedi” che lei stessa sperimentava e che in gran parte ci ha tramandato trascritti in un prezioso volume. Donna di alta statura e dal seno prorompente, aveva occhi grandi, un naso importante e leggermente adunco, tipico dei Romagnoli e per questo anche degli Sforza, le cui origini provengono da quel Muzio Attendolo, partito giovane da Cotignola per cercar fortuna sui campi di battaglia della Penisola.
Caterina, di carattere autoritario, terribile, vendicativo, era spietata con nemici e traditori, rapida nel ragionamento, sincera nella parola, madre premurosa e affettuosa, governante saggia e giusta, istruita ma non accademica, sempre desiderosa di apprendere e curiosa di scoprire i segreti della natura, dell’essere umano e del mondo.
Era considerata bella perché allora rispecchiava i canoni estetici dell’epoca, ma fu con il carisma, l’astuzia, la cultura, la lungimiranza, la determinazione, la passione per le arti, compresa l’”arte della guerra”, in una parola, fu con la sua “umanità” che emerse e realizzò in parte il progetto di un’unica Signoria in Romagna. Con le proprie azioni si collocò aldilà del bene e del male. Fu soprattutto una donna che anticipò i tempi e che, ancor oggi, correrebbe il rischio di non essere compresa fino in fondo nella sua modernità.
La “Leonessa di Romagna” permane radicata nella locale memoria collettiva, un vero e proprio patrimonio comune e condiviso, come dimostrano gli innumerevoli articoli e le pubblicazioni sulla sua vita, tra cui il mio libro Caterina Sforza. Leonessa di Romagna («Il Ponte Vecchio», Cesena 2008), nonché le numerosissime iniziative e manifestazioni che a lei vengono dedicate e che continuano a riscuotere successo e consensi.
La Rubrica Fatti e Misfatti di Forlì e della Romagna è a cura di Marco Viroli e Gabriele Zelli