Vi sarà capitato, probabilmente, di vedere una piccola chiesetta fuori da un centro urbano o addirittura sperduta nella campagna o in cima a una collina, e vi sarete chiesti come possa essere finita in un posto così isolato. Molto probabilmente si tratterà di una pieve, una di quelle piccole chiese realizzate nell’alto medioevo, a partire dal V secolo, dopo la caduta dell’impero romano e fino al XII secolo.
La loro storia è molto interessante ed è un fenomeno circoscritto ad un’area geografica ben precisa: il nord dell’Italia e parte del centro fino alle Marche l’Umbria e la Toscana.
Il loro nome deriva dal latino plebs, “popolo” e stava ad indicare non solo la piccola chiesa fornita di battistero ma tutto il territorio circostante ed era il primo nucleo di quella organizzazione ecclesiastica seguita alla caduta dell’impero romano ed al disfacimento della sua organizzazione centralizzata.
Il “pievano” era il sacerdote che reggeva questo territorio, normalmente piccolo, ma in certi casi anche più vasto, anticipazione di quelle che saranno in seguito le parrocchie ma con funzioni anche civili ed amministrative. La pieve infatti curava l’anagrafe, custodiva i testamenti e gli atti di compravendita dei terreni, riscuoteva le imposte ed in particolare le decime che, secondo la tradizione ebraico – cristiana, erano dovute per il sostentamento della Chiesa e del clero. In molti casi si interessava anche di quella che oggi chiameremmo la tutela ambientale che consisteva principalmente nella bonifica dei terreni e dei corsi d’acqua. Particolare importanza ebbero nell’esarcato di Ravenna al tempo dei bizantini, quando il vescovo di Ravenna aveva molti poteri e funzioni, e costituivano l’articolazione della diocesi nel territorio.
L’importanza delle pievi fu notevole in quella particolare fase storica nella quale le grandi città romane, occupate e saccheggiate dalle orde barbariche, si erano spopolate e la popolazione si era dispersa nelle campagne, raggruppata in piccoli nuclei rurali sotto la protezione morale della Chiesa e dei santi martiri ai quali questi piccoli edifici erano spesso dedicati. In alcuni casi l’organizzazione delle pievi si ricollega alla centuriazione romana, quella ripartizione del territorio in lotti regolari di forma quadrata assegnati ai legionari quale buonuscita al termine del loro servizio militare. In questo caso la pieve veniva collocata ogni cinque lotti dove era già presente una strada più ampia. Da questo derivano alcuni nomi di pievi: Pieve di S. Pietro in Quinto a Pievequinta, Pieve di S. Cassiano in Decimo a Campiano e Pieve di S. Bartolomeo ad Decimum a S. Zaccaria.
Nel territorio gestito dalle pievi venivano poi costruite delle piccole cappelle per la celebrazione di diverse funzioni religiose ma non dei riti più importanti, primo fra tutti il battesimo, che era prerogativa esclusiva delle pievi oltre che, naturalmente, delle cattedrali e dei battisteri costruiti nelle città in epoca paleocristiana. Fra il IX ed il X secolo queste piccole chiese vennero dotate di un campanile per richiamare i fedeli, dispersi in un territorio ampio, tramite il suono delle campane. Con tale elemento, che non esisteva nelle chiese paleocristiane e bizantine, comincia a delinearsi, in forma semplificata, quella struttura che ritroveremo poi nelle chiese romaniche costruite nei borghi in epoca più tarda e, secondo le ipotesi formulate da alcuni studiosi, le pievi romagnole sarebbero state addirittura il punto di partenza di quella forma architettonica che ritroveremo poi in tutta l’Europa e che evolverà in seguito nelle grandi cattedrali gotiche.
Partendo infatti dalla più semplice forma basilicale paleocristiana a tre navate, che si concludevano con una o tre absidi, la pieve si sviluppò anche in verticale quando si decise di realizzare sotto al presbiterio un piccolo locale seminterrato, coperto da una o più volte a crociera, appoggiate su solide colonne, a cui fu dato il nome di cripta e nella quale spesso veniva ospitata la sepoltura del Martire a cui la Chiesa era dedicata. L’altare quindi non era più sullo stesso piano della navata ma sopraelevato e collegato alle navate da un ampio scalone che abbracciava quasi l’intero spazio della navata centrale o da due scale che partivano dalle navate laterali.
Quest’impianto che, simbolicamente, pone la figura del martire come fondamento della comunità ecclesiale, dà anche una maggiore evidenza e solennità al presbiterio, l’area nella quale si trova l’altare e nella quale si svolgono le funzioni religiose.
Due magnifici esempi di questa tipologia di chiesa sono la pieve di San Cassiano a Predappio e la pieve di San Donato a Polenta, famosa per la poesia dedicatale da Giosuè Carducci, il quale ipotizza che lo stesso Dante, ospite dei signori di Polenta, e la bella Francesca possano aver pregato in quella pieve.
La struttura architettonica e decorativa di queste chiese è molto semplice, i materiali utilizzati sono quelli disponibili sul posto, quindi mattoni, prevalentemente, per la Romagna povera di cave di pietra, e questi materiali sono lasciati a vista, senza rivestimenti in marmo o in mosaico, come era accaduto invece per le splendide e ricche chiese ravennati.
Anche l’abside è normalmente spoglia ed in questa ampia e profonda nicchia troneggia, normalmente, un grande crocifisso ligneo, scolpito o dipinto, e, solo raramente, una pala dipinta.
Le colonne utilizzate erano generalmente di recupero, prelevate da antichi templi pagani, e non importava se non erano uguali e se la loro altezza doveva essere regolata utilizzando materiale diverso; la simmetria, l’ordine geometrico ed il rigore formale non rientravano nelle priorità di questi costruttori, forse un po’ primitivi ma spesso dotati di una sensibilità estetica innata che li portava a creare opere che ancora ci commuovono.
Spesso poi, se mancavano le colonne, per dividere le navate si ricorreva a solidi pilastri cilindrici, realizzati con mattoni sagomati, ingentiliti, a volte, con l’inserimento di fasce in pietra di diverso colore.
L’esterno è altrettanto semplice, come semplice era anche nelle chiese ravennati paleocristiane e bizantine. La decorazione era infatti ottenuta con mattoni a vista, con i quali venivano realizzate lunghe teorie di archetti pensili, alla sommità delle pareti laterali e dell’abside, sotto il cornicione e lungo gli spioventi della facciata, quasi a sottolinearne la struttura e creando un semplice ma gradevole effetto chiaroscurale. In certi casi, però, la linea ininterrotta di archi veniva sostituita da gruppi di tre arcate più ampie, che simboleggiano la Trinità e che si raccordano a semplici lesene, leggermente sporgenti dal muro, che giungevano fino a terra, incorniciando le strette finestre delle navate laterali e dell’abside. Quando la costruzione era più semplice, e forse la manodopera meno esperta, gli archetti pensili erano sostituiti da più scarne cornici dentellate, realizzate in vario modo, secondo il gusto dei costruttori.
Nella facciata, sopra al portale, normalmente privo di motivi decorativi ma generalmente coronato da un lunetta cieca a tutto sesto, vediamo spesso un’ampia bifora, con una colonnina al centro, che illumina la navata centrale e che, nelle chiese romaniche, sarà sostituita da un elegante rosone. Tutti gli altri motivi decorativi, invece, ed in particolare gli archetti pensili, oltre alle volte a crociera che abbiamo visto nelle cripte, li ritroveremo nelle più grandi e monumentali architetture romaniche e questi sono alcuni degli elementi che supportano l’ipotesi di uno stretto legame fra queste pievi e l’architettura romanica.
A conclusione di questa rapido viaggio virtuale lungo le strade della Romagna mi piace sottolineare come diversi toponimi derivino dalla presenza e dall’importanza di alcune antiche pievi, come ad esempio Pieve Acquedotto, Pievequinta e Pievesestina mentre il conteggio (quinta e sesta) degli ultimi due toponimi viene fatto risalire, dalla tradizione popolare, al voto fatto da Galla Placidia di far costruire diverse pievi, ma nessun dato storico avvalora questa tradizione.
Nella foto l’interno della Pieve di Polenta, celebrata da G. Carducci.