Le piante di noci di via Mastaguerra

Noci in via Mastaguerra

Sicuramente molti forlivesi si saranno accorti che nel corso degli ultimi anni si è accentuata la promozione per favorire il consumo delle noci. Probabilmente avverrà anche in altri territori ma da noi è un fenomeno molto evidente. Una decina di anni fa ha iniziato la New Factor di Rimini ad organizzare nella frazione di San Martino in Strada di Forlì una giornata dedicata a questo frutto presso l’azienda agricola, che prende il nome della località, i cui terreni sono stati trasformati in un immenso noceto. Poi altri imprenditori agricoli della zona di San Tomè, Malmissole, Branzolino, San Martino in Villafranca, Villafranca e Ospedaletto, hanno iniziato questa coltivazione, anche in sostituzione di altri alberi da frutta, e a commercializzarne il prodotto. In questo periodo poi chi percorre viale Bologna noterà un gazebo allestito in pianta stabile a Villanova all’angolo con la via Bassetta, dove l’Azienda Agricola Biologica Campana Claudio vende le “noci di Villanova”; prodotto proposto anche in altri punti della città in forma ambulante. Chi passa dal centro della frazione Ospedaletto viene invitato ad acquistare “noci biologiche italiane” in via Mastaguerra angolo via Baldiniana da un’altra azienda agricola, quella di Fabbri Denis, così pure chi transita da Malmissole in via don Gino Ricci può approfittare per farne scorta da Vittorio Garavini. Da ultimo, sempre per fare un esempio, l’Associazione “La Rete Magica” ha promosso una campagna di raccolta fondi, a sostegno delle attività rivolte a persone con Alzheimer, Parkinson ed ai loro familiari, che consente per ogni 10 euro donati di ricevere in regalo un sacchetto di noci da 400 grammi (consultare il sito www.laretemagica.it).

Una noce magica

Così è stata denominata l’iniziativa per la quale è stato preso come simbolo la noce perché come si legge nel testo redatto per promuovere la sottoscrizione, “ha una forma inequivocabilmente associabile al cervello umano. Tra Le varie tipologie di frutta secca, è quella che contiene il massimo tenore di acido alfa-linoleico, un acido grasso omega-3 che mantiene elastica la parete dei vasi sanguigni e di quelli cardiaci. Contiene inoltre arginina, le vitamine E, 81, 82 e 83 e zinco, magnesio potassio. Tutte queste sostanze apportano al nostro cervello il nutrimento necessario che ci consente di pensare e agire in modo chiaro. Il consumo giornaliero di 4-5 noci, contenenti l’equivalente della dose giornaliera di acidi grassi Omega-3, può contribuire a prevenire ed eventualmente rallentare, il progredire di patologie neurodegenerative. La noce è uno dei cibi che proteggono dalla depressione e il loro consumo può favorire il buonumore e contenere lo stress”.

Regia, la Noce di Castelfalcino

Oltre alla New Factor che nel territorio forlivese opera a San Martino in Strada c’è un’altra realtà che si è affermata in questo settore. Nel 2013 l’Azienda Agricola Conti Guarini Matteucci ed altri imprenditori della zona di San Tomè, San Martino in Villafranca, Villafranca e zone limitrofe, hanno avviato un progetto di coltivazione biologica del noce. Le aziende agricole aderenti controllano e garantiscono tutte le operazioni colturali fino alla vendita del prodotto al consumatore finale (vendita che avviene anche in via Minarda 2, San Tomè). Gli ettari impiantati sono attualmente cinquanta e le realtà coinvolte sono certificate secondo i regolamenti di riferimento per l’agricoltura biologica. Questo significa, come affermano gli interessati, che le coltivazioni, oltre ad essere più sostenibili per l’ambiente, permettono di ottenere un prodotto con qualità organolettiche e nutrizionali superiori.
Il marchio della noce prodotta con le tecniche biologiche sinergiche e biodinamiche dal gruppo di San Tomè è “Regia, la noce di Castelfalcino”, una chandler famosa in tutto il mondo per la bassa tannicità e grande dolcezza.
Nella coltivazione non vengono utilizzate due molecole di sintesi come Glifosate e Mancozeb, che, seppur consentite, sono considerate da ISDE (Associazione medici per l’ambiente) come dannose per la salute umana. Il dibattito è in atto, ma certamente la scelta di escludere molecole di sintesi chimica di qualsiasi tipo, incontra l’approvazione di un consumatore consapevole e attento a ciò che mangia. Inoltre le stesse aziende stanno sperimentando l’utilizzo di micorrize fungine e microorganismi effettivi con attività biostimolante seguendo i dettami dell’agricoltura biologica sinergica e utilizzano, all’interno dei loro essiccatori, uno scambiatore di calore per evitare di contaminare i prodotti con fumi nocivi.

La filiera della noce

Che la filiera della noce abbia assunto un peso economico rilevante nella nostra Provincia è ora palese, ma già nel 2015 Antonio Abruzzese, in un articolo pubblicato sul sito dell’Assessorato all’Agricoltura della Regione Emilia-Romagna, scriveva che le noci della pregiata varietà Chandler sono molto apprezzate per il loro sapore delicato e gradevolmente mandorlato, per l’altissima resa del gheriglio (circa il 50% del peso totale della noce), per il colore chiaro e gradevole alla vista. Nel medesimo testo illustrava i contenuti del progetto “Noci di Romagna” teso a realizzare una filiera in questo settore: “La leadership del frutto californiano non è per ora in discussione: quasi l’80% delle importazioni arriva infatti dallo Stato Usa. Se non sui numeri, il progetto “Noci di Romagna” può però mettere sul piatto della bilancia una filiera controllata e di qualità. (…) Rispetto a un quadro ancora troppo caratterizzato dalla frammentazione di piccoli produttori in competizione, la noce di Romagna aspira a diventare una realtà sempre più solida in termini di volumi e in grado di guadagnarsi una presenza stabile all’interno della grande distribuzione organizzata”. L’obiettivo dichiarato era di arrivare entro il 2020 a coltivare 300 ettari di terreno a noceti.

Pure nelle provincie vicine si è investito in questo settore, come ad Imola dove dal 2007 opera la sezione agricola della Cooperativa trasporti che ha iniziato con trentatré ettari, oppure la Cooperativa Terremerse di Bagnacavallo (RA) che qualche anno fa ha deciso di puntare anche sul noce da frutto con un progetto che è specificatamente pensato per il nord Italia.
Portare in produzione un impianto è piuttosto costoso (indicativamente 25mila €/ha, in parte abbattibili grazie ai contributi europei), e soprattutto occorrono circa cinque anni prima di iniziare a raccogliere il prodotto. La prima difficoltà è, quindi, sostenere finanziariamente l’iniziativa. Terremerse ha studiato con alcuni istituti di credito soluzioni ad hoc che consentono di limitare l’impatto nel periodo pre-produzione. Una volta in produzione, il noce può generare plusvalenze interessanti.

La frutta secca in genere, e la noce in particolare, è infatti un prodotto globale per produzione e per consumi, e questo rappresenta un elemento dalla doppia interpretazione: alta competitività produttiva ma elevati consumi reali e potenziali. Ed è qui che si gioca la partita. Rispetto ai consumi pro-capite annui di gherigli di noci gli Stati Uniti sono al primo posto con 1.240 grammi, seguiti da Israele con 1.200 grammi e Francia con 1.020 grammi. In Italia il consumo è di 620 grammi, a pari merito con la Germania. Nazioni come Cina e India sono al 17° e 18° posto con soli 56 e 40 grammi pro-capite, ma la loro numerosa popolazione (legata anche all’incremento del reddito medio) e le loro radicate tradizioni verso questi frutti portano a pensare che esistano ampie possibilità di crescita del settore. Secondo gli analisti, quindi, le prospettive per il mercato nocicolo, e di tutta la frutta secca, sono molto interessanti.

Il noce e la noce

Nell’Enciclopedia dei Ragazzi della Treccani è riportato un testo di Alessandra Magistrelli che condensa molto bene le tante informazioni che si dovrebbero sapere sulla noce, intesa come frutto, e sulla pianta del noce che è originaria dell’Asia centro-occidentale, presente sin dalla preistoria in quasi tutta Europa e nella nostra penisola. “Dal portamento maestoso”, scrive la studiosa, “può superare i 20 m d’altezza; ha un’ampia chioma formata da foglie lobate di cui quella terminale è sempre più grande delle altre. È un albero solitario: alla sua base non crescono germogli né erbe; ciò avviene perché le foglie contengono lo juglone, una sostanza tossica che, rilasciata nel terreno dalle foglie cadute, rende il suolo inabitabile per le altre piante. Inoltre è avido di sali minerali e di altri nutrienti che assorbe dal terreno impoverendolo; per questo suo ‘egoismo’ entra raramente a far parte dei boschi spontanei”.

“Il noce è una pianta che l’uomo ha sempre apprezzato”, prosegue Alessandra Magistrelli, “perché tutte le sue parti sono molto utili. Cominciamo dai frutti: le noci, ricche di grassi, proteine, sali di rame e di zinco, sono una vera miniera alimentare. Il frutto del noce si chiama in botanica drupa, è ovato-globoso, con una membrana esterna verde e carnosa punteggiata di ghiandole (mallo), una membrana interna legnosa (guscio) facilmente divisibile in due, che protegge il seme (gheriglio) a 4 lobi, molto ripiegato, ricco di oli e commestibile.
Il tronco fornisce un legno di color bruno scuro, semiduro, di facile lavorazione, che viene considerato tra i legni più pregiati per fare mobili, listelli per pavimenti, calci di fucile, stecche da biliardo. Un mobile di noce è imponente quanto l’albero da cui deriva e può durare secoli; le grosse radici piene di venature (radica di noce) sono sempre state apprezzate in ebanisteria per fare mobili artistici. Dal gheriglio si ricava un olio molto usato in passato per le lampade ma anche per fare vernici da pittore. Dalle noci ancora molli e verdi si distilla un buon liquore con blande proprietà astringenti, il nocino, e con il legno del guscio si fanno palle da golf particolarmente elastiche. Infine, i pigmenti bruni del tronco e del mallo (tannini) sono usati per conciare le pelli, per colorare di scuro altri tipi di legno e, una volta, i capelli delle signore”.
In sostanza alla pianta e al frutto del noce si è sempre data molta importanza, oltretutto
nell’antichità si sosteneva fossero sacri a Giove. Alla pianta si è attribuito un aspetto ambivalente, sia diurno che notturno, era considerata portatrice di un potere curativo, che poteva tuttavia diventare nocivo se non adeguatamente utilizzato. Mentre ai suoi frutti erano assegnate qualità misteriose come ridestare gli impulsi sessuali, avendo il loro guscio delle affinità con le gonadi maschili. mentre la forma del gheriglio ricorda quella del cervello umano e dunque da usare, secondo la dottrina delle segnature, per guarire i mali di testa.

Il noce di Benevento

Secondo una leggenda, al tempo dei Longobardi, sotto una pianta di noce di Benevento si riunivano a cantare e a ballare sfrenatamente diavoli e streghe provenienti da ogni luogo.
Probabilmente la storia trae origine dal fatto che i Longobardi, non ancora cristianizzati,
mantenevano usanze pagane, tra cui quella di riunirsi intorno a un albero di noce per compiervi i loro riti considerati dalla Chiesa stregoneschi. Sarebbe stato il vescovo di Benevento, Barbato, ad ordinare di abbattere il noce per costruire al suo posto una chiesa. La leggenda vuole che il 24 giugno, la notte di San Giovanni, le streghe di tutto il mondo continuino a ritrovarsi nel luogo dove sorgeva un tempo il mitico noce. D’altra parte la credenza che streghe e demoni prediligessero il noce per i loro sabba era diffusa in tutta Italia.

Nella capitale si narra che la chiesa di Santa Maria del Popolo fu costruita per ordine di Pasquale II nel luogo in cui precedentemente si ritrovano migliaia di diavoli a danzare durante la notte sotto a un noce. Quasi sicuramente invece fu edificata come ringraziamento per la conquista di Gerusalemme, alla conclusione della prima Crociata. Riedificata nel Quattrocento all’epoca di papa Sisto IV, fu modificata nel Seicento ed è legata ai nomi di Bramante, Sansovino, Pinturicchio, Mino Da Fiesole, Raffaello, Bernini e Caravaggio.
Un tempo in campagna si sosteneva che non era conveniente riposare e tanto meno dormire all’ombra di un noce perché era facile risvegliarsi con una forte emicrania se non addirittura con la febbre. Così come si diceva che se le radici dell’albero penetrano nelle stalle faranno deperire il bestiame. D’altra parte le radici, come le sue foglie, contengono una sostanza tossica, detta iuglandina, capace di provocare la morte di molte piante che crescono nelle vicinanze, facendo sì che le risorse del terreno rimangono ad uso esclusivo del noce.

Il nocino

“Si chiamano proprio noci di San Giovanni”, scrive Annarita Rossi nel Calendario del Cibo Italiano, “quelle che le donne raccolgono (in occasione del 24 giugno) ancora verdi e cariche di succhi vitali per preparare il Nocino, un liquore ottenuto dall’infusione in alcool dei malli delle noci ancora acerbe. Le origini di questo infuso, che era utilizzato per scopi divinatori e medicinali, rimangono incerte. Secondo alcuni documenti romani i Britanni, la notte del solstizio d’estate, erano soliti celebrare riti e bere uno scuro liquore di noce da un calice collettivo. Successive fonti riportano che tra i Francesi era in uso un liqueur de brou de noix. Proprio dalle regione francesi il liquore di noci ha fatto il suo ingresso in Italia, diffondendosi nella zona dell’Emilia e, in particolare, nel Modenese.
Utilizzate come ingredienti per moltissime preparazioni in cucina le noci, forti anche di recenti studi secondo i quali il loro consumo rinforzerebbe la memoria e le capacità cognitive, hanno avuto una costante crescita nei menù casalinghi. Dalla tradizionale salsa di noci ligure, dai maccheroni alle noci umbri tipici del periodo natalizio, dagli spaghetti di noci sorrentini e dal liquore di noci modenese si è passati al consumo delle noci nello yogurt, nelle granole per le colazioni o come semplici snack; si utilizzano per fare il pane, moltissime torte e con la granella si possono ottenere panature particolari, sia per le carni sia per il pesce”.

Le piante di noci di via Mastaguerra

Considerato l’importante ruolo che la coltivazione di noci ha assunto nel territorio forlivese non potevo non segnalare, su suggerimento di Alessandra Artusi e Claudio Guidi, la presenza di piante “particolari” di questa specie per la loro collocazione, nonché vetustà, come le due che si trovano sul ciglio sinistro della via Mastaguerra nel tratto in cui la strada corre verso la frazione di San Giorgio, che probabilmente hanno 70/80 anni. Si potrebbero, ovviamente, portare altri esempi, come i noceti di via Montaspro, al Ronco, di via Correcchio, a Coriano, di viale Bologna, a Villanova, presenti da molto prima che questa coltivazione assumesse le dimensioni attuali, oppure dei noci antichi disseminati attorno a diverse case di campagna. Si potrebbe anche disquisire sul nome della frazione San Lorenzo in Noceto, dove noceto sta sicuramente per una coltivazione che caratterizzava la zona secoli fa.

I due alberi di cui intendo parlare (vedi foto di Giulio Sagradini) si trovano quasi all’altezza del cartello stradale che indica la fine del centro abitato di Forlì ed hanno a fianco un frutteto con 110 piante di cachi e un vigneto composto da 18 filari di viti, mentre dalla parte opposta un vasto appezzamento di terreno, che confina con la parallela via Zampeschi, è coltivato a grano. Siamo in una zona dov’è possibile fare anche una salutare camminata partendo dal parcheggio che si trova nel centro abitato di Ospedaletto, in via Somalia, di fronte al circolo Taverna Verde. Da questo punto si può raggiungere via Mastaguerra, che ha un traffico esclusivamente locale, e quando la si imbocca si possono notare un noce altrettanto antico e alberature di varie specie che fanno da corollario alle numerose abitazioni collocate su entrambi i lati del primo tratto.

Il tratto asfaltato della strada termina all’altezza di un noceto di impianto abbastanza recente, ma già produttivo, composto da 14 file di noci con ognuna una trentina di piante. Appartiene all’Azienda Agricola Biologica Fabbri Denis, già citata, la quale ha sede sulla limitrofa via Baldiniana, dove le noci vengono anche vendute. Su quest’ultima strada con il fondo in terra battuta, che sbuca sulla via Cavedalone, chi passa è accompagnato da un meleto, da vigneti di vecchio impianto, da diversi peri, nonché da querce e da tigli in lontananza. Sulla via Cavedalone, che ha un traffico più sostenuto e che si percorre verso Forlì per raggiungere nuovamente via Somalia, ci sono vigneti e pescheti intercalati da terreni coltivati a grano e foraggio. Si nota anche la presenza di due noci, uno vecchio l’altro giovane, di alcuni ciliegi, che avrebbero bisogno di cure, e diverse coppie di tigli imponenti che caratterizzano gli ingressi di due abitazioni, una posta nell’angolo con la via Eritrea e l’altra al numero 6. Al numero 8, in una deliziosa casa rimessa a nuovo diversi anni fa, trova sede il Gruppo di Preghiera Montepaolo, che conosco da molti anni per l’attività di carattere sociale che promuove nell’ambito della Curia forlivese. Mentre le alberature di via Eritrea sono caratterizzate da altri tigli, querce, roverelle, pini marittimi, abeti, cedri del Libano, lecci, magnolie e un filare di ciliegi purtroppo non molto curato.

Chi era Simone Mastaguerra?

Gran parte delle strade del quartiere Ospedaletto sono intitolate a condottieri forlivesi. Di Simone Mastaguerra, vissuto nel XIII secolo, si possono trovare notizia nelle “Cronache” di Leone Cobelli (1425 – 1500) e gli storici lo considerano una figura che può essere variamente considerata. È stato sicuramente un personaggio molto discusso, presentato a volte come tiranno a volte come campione della libertà. Se si dà credito alle memorie dell’astronomo e astrologo Guido Bonatti, che afferma di essere stato l’unico che abbia osato opporsi al Mastaguerra, si può ritenere probabile che il Mastaguerra sia riuscito a interporsi fra guelfi e ghibellini, prevalendo ora sull’uno e ora sull’altro partito, fino a impadronirsi della città su cui impose la propria signoria. Ma, come narra Cobelli, nel 1257 il tiranno fu ucciso e fu proclamata una repubblica libera.

Sant’Antonio predica dal noce

Ai tempi di Simone Mastaguerra doveva essere ancora vivo il ricordo di quello che era avvenuto nel 1222 quando tenne la prima predica colui che sarebbe diventato Sant’Antonio da Padova. Una storia da raccontare perché ha anche connessioni con una pianta di noce.
Nella tarda primavera del 1231 frate Antonio, al secolo Fernando Martins de Bulhòes (1195 – 1231) ormai spossato dall’intensa predicazione in Padova cercò un luogo di quiete e di pace. Su invito dell’amico conte Tiso (signore del luogo) giunse a Camposampiero, provincia di Padova. La cronaca medioevale l’Assidua così descrive la situazione: “Congedate le moltitudini, cercava un luogo appartato; e si portò al luogo di Camposampiero, anelando a trovarvi una tranquilla solitudine” e ancora: “Tutto felice per l’arrivo di lui, un nobile di nome Tiso offrì devotamente al Servo di Dio l’ossequio premuroso della sua cortesia…”. Sempre dall’Assidua sappiamo di come Antonio si fece costruire su di un poderoso noce una piccola cella fatta di canne usata dal Santo come piccolo eremo di preghiera e contemplazione.

Nel medesimo luogo sarà poi edificato nel 1432 l’attuale Santuario del Noce che ha sul fronte un suggestivo viale alberato di noci e di tigli. Il luogo di culto è stato ampliato in tre momenti successivi ed è stato arricchito, nella seconda metà del XV secolo, da un ciclo di affreschi di Girolamo Tessari (1480 – 1561), detto Del Santo, che raffigurano i più importanti miracoli operati da sant’Antonio. L’abside è dominata da una pala dipinta nel 1536 da Bonifacio De Pitati (1487 – 1553) raffigurante il Santo che predica dal noce.
Dieci anni prima della morte, nel 1221, Antonio, umile frate francescano, dopo aver partecipato ad Assisi al Capitolo delle Stuoie aveva raggiunto il piccolo romitorio di Montepaolo di Dovadola, che allora sorgeva sul lato della collina che guarda il torrente Cosina, verso Modigliana e Faenza.

Anche in questo caso è preziosa la cronaca dei fatti contenuta nell’Assidua che riporta: “Concluso il Capitolo nel modo consueto, quando i ministri provinciali ebbero inviato i fratelli loro affidati alla propria destinazione, solo Antonio restò abbandonato nelle mani del ministro generale, non essendo stato chiesto da nessun provinciale in quanto, essendo sconosciuto, pareva un novellino buono a nulla. Finalmente, chiamato in disparte frate Graziano, che allora governava i frati della Romagna, Antonio prese a supplicarlo che, chiedendolo al ministro generale, lo conducesse con sé in Romagna e là l’impartisse i primi rudimenti della formazione spirituale. Nessun accenno fece ai suoi studi, nessun vanto per il ministero ecclesiastico esercitato, ma nascondendo la sua cultura e intelligenza per amor di Cristo, dichiarava di non voler conoscere, amare e abbracciare altri che Gesù crocifisso”.
Frate Graziano, apprezzando l’umiltà e la profonda spiritualità di Antonio, decise di prenderlo con sé e lo assegnò all’eremo di Montepaolo, di Dovadola, dove già vivevano sei frati. Qui arrivò nel giugno 1221 con gli altri confratelli e vi rimase un anno dedicandosi ad una vita semplice, a lavori umili, alla preghiera e alla penitenza.

Nella seconda metà del 1222 la comunità francescana scese a valle per assistere a delle ordinazioni sacerdotali nella basilica di San Mercuriale. L’Assidua racconta che “venuta l’ora della conferenza spirituale il Vescovo ebbe bisogno di un buon predicatore che rivolgesse un discorso di esortazione e di augurio ai nuovi sacerdoti. Tutti i presenti però si schermirono dicendo che non era loro possibile né lecito improvvisare. Il superiore si spazientì e rivoltosi ad Antonio gli impose di mettere da parte ogni timidezza o modestia e di annunciare ai convenuti quanto gli venisse suggerito dallo Spirito. Questi dovette obbedire suo malgrado e la sua lingua, mossa dallo Spirito Santo, prese a ragionare di molti argomenti con ponderatezza, in maniera chiara e concisa”.
Della predica di Antonio giunse notizia ai superiori ad Assisi, che lo richiamarono alla predicazione. Antonio cominciò a viaggiare ed a predicare, ormai conosciuto con il nome di Antonio da Forlì, città che peraltro si è distinta per la venerazione verso il Santo.

Cócal – cócla – nosa – nuşa – anùşa: proverbi e modi di dire in dialetto romagnolo

Le epoche della maturazione del frutto sono scandite dalle ricorrenze di alcuni santi che la tradizione popolare ha coniugato in questo modo: “Per Santa Maddalena (22 luglio) la noce è già piena; per San Lorenzo (10 agosto) puoi guardarci dentro e per Santa Croce (14 settembre) una pertica per noce”, essendo arrivato il momento della raccolta. Sono esplicativi perciò alcuni modi di dire in dialetto romagnolo: “Par Sânta Crôs, / e’ sôl e va bēn par al nôs (Per Santa Croce – 3 maggio -, il sole fa bene alle noci)”; “S’e’ piôv per Sânta Crôsa, / u s’imbusa la nôsa (Se piove per Santa Croce, si baca la noce)”. Così pure un’antica filastrocca: “Quând che Sa Lurénz l’è arivê, / int ‘na stânga va a ciapê’; / do tre cócl a sbàtar va, / che e’ garój a ‘l j ha pin za (Quando è arrivato San Lorenzo, / va a prendere una pertica; /va a bacchiare alcune noci, / perché hanno già il gheriglio pieno)”.
A proposito di tradizione popolare, nel saggio di Maurizio Matteini Palmerini di Torriana di Rimini dal titolo “Botanica popolare romagnola. Erbe, fiori, frutti e piante nelle credenze, nei modi di dire e nei proverbi della tradizione popolare”, pubblicato sul numero 47 di “Quaderno di Studi e Notizie di Storia Naturale della Romagna”, l’autore scrive: “La frutta che presentava difetti di crescita non veniva mai mangiata; si riteneva, che dietro questo evento si celasse l’opera del demonio o delle streghe, e, di conseguenza, quella frutta non avrebbe portato altro che malasorte. Stranamente però i contadini conservavano gelosamente la noce dei tre spicchi o delle tre coste, detta la ‘cocla da i tre cantun’ (la noce dei tre cantoni o pacche), perché erano convinti che questa propiziasse fortuna; la consegnavano alla reggitrice della casa credendo in questo modo di proteggere l’intera famiglia dai malefici delle streghe”. Anche il detto: “Se e’ dè ‘d Sa’ Lurénz e’ garój dla cócla t’ magnarei, / la divuziôn t’aquistarei (Se il giorno di San Lorenzo – 10 agosto – mangerai un gheriglio di noce, sarà come un atto di devozione)”, lascia presupporre un effetto benefico del frutto comunque esso sia.

“Le noci permettevano anche di prevedere l’andamento dei futuri raccolti”, aggiunge Matteini Palmerini, “se i frutti del noce erano raggruppati e formavano il cosiddetto ‘castlèt’ (castelletto) è indizio di scarso raccolto… ma non tutti sono d’accordo; se invece le noci sui rami erano raggruppate a quattro a quattro, i raccolti, secondo la tradizione, sarebbero stati abbondantissimi”.
A tale proposito nel saggio in questione vengono riportati a conferma di quanto detto i seguenti proverbi nel dialetto riminese:
Quând al cocàl al fa e’ castlèt / u i è de pân in tot i casset (Quando le noci fanno il castelletto / c’è del pane in tutti i cassetti);
Quând al cocàl a gli è a quatar, a quatar /u i è de pân in tot al matar, / e quând a gli è a tre a tre / s ‘t’è de pân tèntal par te (Quando le noci sono a quattro, / a quattro c’è del pane in tutte le madie, / e quando sono a tre a tre / se hai del pane tienilo per te;
Matteini Palmerini cita anche alcuni modi di dire romagnoli nel dialetto riminese, come:
Vivar d’góss d’cócla (vivere di gusci di noce), in senso figurativo significa vivere miseramente; si intende però anche vivere di sogni;
Tinti in ament che la finì agl’anùşi ma Bacuc (Bacóc) ch’u n’aveva sèt sulèr e un sularòl e un magnèva una e’ dé (tienti in mente che ha finito le noci Bacòc che ne aveva sette solai e un solarietto e ne mangiava una al giorno), più che un modo di dire è un avvertimento… allo spendaccione.

Altri detti popolari sottolineano le qualità e i difetti sia dell’albero sia del frutto: “Chi pianta il noce non mangia le noci”, si diceva una volta quando il lasso di tempo fra la piantumazione e la raccolta era molto lungo, mentre oggi nei noceti di nuovo impianto si è accorciato tanto che se si pratica l’innesto la pianta, come detto, entra in produzione dopo 5/6 anni.
“Chi compra noci compra gusci”, per sottolineare che è l’unica certezza in quanto per vedere se il gheriglio è buono bisogna romperle, ma in questa operazione non si può contare su “Dio”, che, “ci dà le noci, ma non ce le rompe”. Però “Chi ha la noce trova la pietra”, nel senso che l’occasione aguzza l’ingegno. Anche perché “Prima noce e prima castagna fortunato chi le mangia”, mentre “Giova la prima noce, la seconda nuoce, la terza è mala sorte, la quarta è quasi morte”, per sottolineare che “il troppo stroppia”, invece se ci si ciba in modo giusto “Non viene la tosse il giorno in cui si mangiano le noci”.
Fra i tanti detti, riporto quello che testimonia come da soli non si affrontano i problemi più complessi tanto che “Una noce in un sacco non fa rumore”, mentre “Due noci in un sacco e due donne in casa fanno un bel fracasso”, che non è da intendere solo come una considerazione maschilista, come sicuramente avviene comunemente, ma da giudicare nel senso che in casa la presenza di due donne porta molteplici benefici.
Infine segnalo un indovinello sul frutto di noce che mi ha inviato l’amico poeta Marino Monti: “A so’ nêda tra la vardura; / vént e acqua i’ n’u m’ fa paura; / s’u m’ vóla vi’ i pèn d’adòss, / a vânz la chêrna strèta tra ‘l j òss (Sono nata tra il verde; vento e acqua non mi fanno paura; / se mi volano via i panni di dosso, / mi resta la carne stretta fra le osse)”.

Il miracolo delle noci in Romagna
Lo racconta Fra Galdino ne “I promessi sposi”

Il celebre romanzo storico “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni (1785 – 1873), pubblicato per la prima volta nel 1827 e ripubblicato nella versione definitiva fra il 1840 e il 1842, è da considerarsi il più famoso e il piu letto tra quelli scritti in italiano. Nel libro Manzoni, uno dei più importanti romanzieri italiani di tutti i tempi che ebbe il merito di porre le basi per il romanzo moderno e di aver così sostenuto l’unità linguistica del nostro paese, oltre a trattare con profondità i temi della situazione che vive la popolazione povera non tralascia di inserire parti ricche di morale e di insegnamento. Come nel capitolo III quando Lucia e sua madre Agnese ricevettero la visita di fra Galdino, un cercatore cappuccino che ogni anno andava elemosinando noci per il convento di Pescarenico in cui viene sottolineata – sia pure per metafora – l’importanza del frutto nell’economia domestica di allora. Dopo essersi lamentato della scarsa annata, il frate cominciò ad esaltare i benefici dell’elemosina iniziando a raccontare un miracolo accaduto molti anni prima proprio nella nostra Romagna. Credo valga la pena rileggere questa parte del racconto che riporto qui di seguito.

“Ma, nel mentre che bilanciavano i partiti, si sentì un picchietto all’uscio, e, nello stesso momento, un sommesso ma distinto – Deo gratias -. Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e subito, fatto un piccolo inchino famigliare, venne avanti un laico cercatore cappuccino, con la sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone l’imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto.
– Oh fra Galdino! – dissero le due donne.
– Il Signore sia con voi, – disse il frate. – Vengo alla cerca delle noci.
– Va’ a prender le noci per i padri, – disse Agnese. Lucia s’alzò, e s’avviò all’altra stanza, ma, prima d’entrarvi, si trattenne dietro le spalle di fra Galdino, che rimaneva diritto nella medesima positura; e, mettendo il dito alla bocca, diede alla madre un’occhiata che chiedeva il segreto, con tenerezza, con supplicazione, e anche con una certa autorità.
Il cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse: – e questo matrimonio? Si doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese una certa confusione, come se ci fosse una novità. Cos’è stato?

– Il signor curato è ammalato, e bisogna differire, – rispose in fretta la donna. Se Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. – E come va la cerca? – soggiunse poi, per mutar discorso.
– Poco bene, buona donna, poco bene. Le son tutte qui -. E, così dicendo, si levò la bisaccia d’addosso, e la fece saltar tra le due mani. – Son tutte qui; e, per mettere insieme questa bella abbondanza, ho dovuto picchiare a dieci porte.
– Ma! le annate vanno scarse, fra Galdino; e, quando s’ha a misurar il pane, non si può allargar la mano nel resto.
– E per far tornare il buon tempo, che rimedio c’è, la mia donna? L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt’anni sono, in quel nostro convento di Romagna?
– No, in verità; raccontatemelo un poco.
– Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. “Che fate voi a quella povera pianta?” domandò il padre Macario. “Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna”. “Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie”. Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada, “padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento”. Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d’un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.
Qui ricomparve Lucia, col grembiule così carico di noci, che lo reggeva a fatica, tenendone le due cocche in alto, con le braccia tese e allungate. Mentre fra Galdino, levatasi di nuovo la bisaccia, la metteva giù, e ne scioglieva la bocca, per introdurvi l’abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un’occhiata, che voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in augùri, in promesse, in ringraziamenti, e, rimessa la bisaccia al posto, s’avviava”.

Il noce e la noce nel teatro, nella letteratura, nella poesia, nella canzone

L’albero e il frutto di noce vengono citati in numerose opere letterarie, in diversi drammi e commedie, in canzoni, in poesie. Impossibile fare un elenco completo. Ne cito solo alcune, a mio parere ricche di significato.
Le opere di William Shakespeare (1564 – 1616), considerato uno tra i più grandi autori di tutti i tempi, sono costantemente rappresentate nei teatri di tutto il mondo e non si contano le versioni cinematografiche ricavate dai suoi drammi. Nel 2016, nel mese di febbraio, la compagnia teatrale “Shakespeare Globe” ha messo in scena l’Amleto addirittura nel campo profughi di Calais. Ad assistere allo spettacolo c’erano oltre quattro mlla migranti. Il “libretto” e le informazioni essenziali sull’Amleto sono stati distribuiti ai presenti in diverse lingue, tra cui il farsi e il pashtun. Quindi tutti i presenti avranno potuto leggere la frase che ci interessa: “Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi Re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni”.

Cesare Pavese (1908-1950) nel racconto “Insonnia”, contenuto nella raccolta “Ferie d’agosto”, che vede come protagonista uno dei tanti giovani che nel secondo dopoguerra lasciarono la campagna perchè non si rassegnavano a condurre la vita di fatica e sacrificio dei loro padri e dei loro nonni, così fa dire al personaggio principale: “Quando rientravo avanti l’alba sull’aia (rincasavo da feste, da discorsi, da avventure) sapevo che mio padre era là, sotto la macchia nera del noce, e stava immobile, da chi sa quanto tempo, guardando in mezzo agli alberi, dardeggiando gli occhi, sempre sul punto di uscire sotto le stelle. Io sbucavo dal prato e attraversavo l’aia (avrei potuto passare dal portico e non esser veduto), ma era meglio se capiva subito che non volevo nascondermi e quando il buio sarebbe diradato sapesse già ch’ero tornato da un pezzo. Il noce riempiva mezzo il cielo, ma un gran tratto dell’aia restava scoperto e biancheggiava: io passavo su quel bianco, e la notte era tanto serena che mi vedevo sotto i piedi la mia ombra. Attraversavo quel bianco senza guardare dalla parte del noce, perché se avessi guardato avrei dovuto fermarmi e mio padre mi avrebbe chiamato dicendo qualcosa e uscendo fuori. Mio padre non dormiva di notte perché era vecchio e gli pareva di perdere il tempo. Diceva che il tempo non passato sui beni è tutto sprecato. (…)”.

Nazim Hikmet (1902-1963) è stato il più importante poeta turco del Novecento e viene ricordato in particolare per la raccolta “Poesie d’amore”, un capolavoro che testimonia l’impegno sociale e il profondo sentimento poetico dell’autore. Attratto dal comunismo, arrivò nell’URSS 1921, quattro anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre e vi rimase fino al 1928. Tornato in patria, fu imprigionato per la sua attività politica (1938-50); soggiornò quindi ancora in URSS e girò anche il mondo quale rappresentante della cultura comunista internazionale. Ha scritto una poesia dal titolo “Il noce”:
La mia testa è una nuvola schiumosa, / il mare è nel mio petto. /Io sono un noce nel parco
Ghiulkhan, / cresciuto, vecchio, ramoso – guarda! / ma né la polizia né tu lo sapete.
Io sono un noce nel parco Ghiulkhan. / E le foglie, come pesciolini, vibrano dall’alba alla sera, / frusciano come un fazzoletto di seta; prendi, / strappale, o mia cara, e asciuga le tue lacrime. / Le mie foglie sono le mie mani, centomila mani verdi / centomila mani io tendo, e ti tocco, Istanbul. / Le mie foglie sono i miei occhi, e io guardo intorno, / con centomila occhi ti guardo, Istanbul. / Le mie foglie battono, come centomila cuori.
Io sono un noce nel parco Ghiulkhan, / ma né la polizia né tu lo sapete.
Alcuni autori di favole hanno legato il frutto di noce alle loro storie.
Jacob Ludwig Grimm (1785–1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786–1859), meglio noti come i fratelli Grimm, due linguisti e filologi tedeschi, ricordati come gli “iniziatori” della germanistica
mentre al di fuori del loro paese sono conosciuti per aver raccolto e rielaborato le fiabe della tradizione popolare tedesca come le celebri “Hänsel e Gretel”, “Cenerentola”, “Il principe ranocchio”, “Cappuccetto Rosso” e “Biancaneve”, nella favola “Il forno” raccontano di una principessa che riceve tre noci dalla regina dei rospi. In ogni noce é nascosto un abito meraviglioso che l’aiuterà a conquistare l’amore di un bellissimo principe.
In “Mignolina”, una fiaba dello scrittore danese Hans Christian Andersen (1805-1875), una delle prime scritte e pubblicata per la prima volta nel 1835, si narra la storia di una bambina piccolina che ha come culla proprio un guscio di noce.

La noce nell’arte: simbolo dell’uomo e della divinità

La noce è raffigurata in diverse opere d’arte, in particolare nelle nature morte. A chi osserva il quadro “Il Battesimo di Gesù” di Piero della Francesca (1416/1417 – 1492), custodito presso la National Gallery di Londra, non può sfuggire un albero dipinto in primo piano. Si tratta di un noce con un tronco quasi bianco in similitudine con il candore della carne di Cristo, ritratto mentre viene battezzato. Nel quadro, Piero della Francesca ha dipinto inoltre a fianco e sul retro della pianta tre angeli; quello più nascosto raffigura Cristo che morì crocefisso sul legno (di noce) della croce. Un dipinto ricco di simbologie, ma la principale resta quella legata al fatto che la noce, proprio nelle sue parti, è considerata simbolo dell’essere umano: il mallo è la carne, il guscio le ossa e il candido gheriglio interno la sua anima. Cristo assumendo le sembianze umane purificate mediante la passione, le ha reintegrate nella bellezza originaria. Infatti, nel dipinto in questione Piero della Francesca ritrae un uomo sullo sfondo, che ha ricevuto (o si appresta a ricevere) il battesimo, con lo stessa carnagione bianchissima del Cristo e del fusto dell’albero di noce.

Il pittore milanese Giuseppe Arcimboldo (1526-1593) diventò noto per le “Teste Composte”, ritratti irriverenti dove sono dipinti oggetti o elementi dello stesso genere (prodotti dell’orto, frutta, cacciagione, pesci, libri e altro) uniti, ovviamente in senso metaforico, al soggetto rappresentato, in modo da esaltare il ritratto stesso. Altrettanta notorietà conquistò con la realizzazione di dipinti reversibili, cioè osservabili anche capovolti. In uno di questi ultimi, dal titolo “L’ortolano”, o “Ortaggi in una ciotola” inserisce una noce, che se considerata come simbolo é ambivalente. Il quadro, conservato al Museo Civico “Ala Ponzone” di Cremona, raffigura degli ortaggi in un vaso tra i quali si vede il mallo di una noce spezzata, segno della fertilità della terra. Guardato capovolto nel dipinto si vede invece il volto di un ortolano che ha per occhio proprio la noce.
Giuseppe Arcimboldo, che fu attento alle simbologie, volle indicare come l’operosità di una vita dipenda dal modo con cui l’uomo guarda la realtà. La noce nella sua ambivalenza di segno, frutto del bene o del male, esprime tale modalità.

Gabriele Zelli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *