L’attuale politica italiana è largamente ignorantocratica e legifera, amministra, governa, interpretando, rispecchiando una società ampiamente ignorante, di conseguenza facilona perché pressapochista e superficiale, come impone la finzione del saper tutto, ignorando, invece, moltissimo. L’ignoranza dell’attuale classe politica italiana non significa in senso stretto mancanza d’istruzione, abbondano, infatti, sugli scranni parlamentari e degli enti locali, schiere di laureati, magari 110 cum laude, piuttosto significa una marcata assenza di competenze ed esperienze, insomma di una efficace rispondenza del proprio sapere alla concretezza operativa del fare al servizio dei cittadini.
Oggi ci si diploma, ci si laurea con pochissime prospettive di esprimere competenze e maturare esperienze fattive e la politica stessa, arrendevole, si è convinta, forse arresa, anche per la leadership personalistica e di gruppi di potere all’interno dei partiti o movimenti, che tanti, pur se inesperti, possano scendere in politica, tanto alle competenze e alle esperienze sopperiranno i vertici delle forze politiche d’appartenenza.
Conseguenza di tale situazione è una sproporzionata scacchiera della nostra politica sulla quale i pedoni sono aumentati ben oltre gli 8 pezzi, consentiti rispettivamente al bianco e al nero, e immutati nel numero, invece, per parte sono rimasti i pezzi più strategici del re e della regina, delle torri, infine degli alfieri e dei cavalli. Così, la politica italiana è sempre più nelle mosse dei pezzi che contano al vertice e utilizza i pedoni della periferia solo come raccordo con il consenso elettorale dei vari collegi: da qui, lo stridente contrasto in tutti i partiti tra una ristretta, ma potente elite ed una vasta platea di peones, anonimi signor nessuno.
Tuttavia, la cosa che maggiormente stupisce è la consapevole accettazione, quasi si trattasse di normalità, che la discesa in politica a qualunque livello, magari forti di un consenso elettorale di preferenza, perlopiù su solide basi clientelari, valga sempre la pena, derivandone vantaggi economici, sociali e tanta facile autorevolezza: le competenze, le esperienze verranno col tempo, come tristemente ha confermato la miserevole vicenda del Movimento 5 Stelle.
Negli ultimi trent’anni ai grandi navigatori della nostra politica si è sostituita una fitta schiera di piccoli diportisti al timone di insicure tinozze, ma con la smodata presunzione di credersi grandi ammiragli verso lontane sponde di futuro e prosperità, quali un reddito di cittadinanza, confusamente e maldestramente applicato, oppure verso nuovi liti, abitati da inconsueti generi sessuali.
Solo ogni tanto il vertice dirigistico dei partiti concede spazio ai suoi pedoni di periferia, nell’interesse di non perdere di vista obiettivi, fonte di possibile consenso elettorale, nulla di più! Anche in politica resta, ormai, consolidata l’opinione che la competenza dei suoi rappresentanti eletti sia un disvalore, al massimo accettabile come un optional, in conclusione un impedimento al presunto diritto di ogni incompetente di dire la sua, pure a sproposito, su qualunque argomento.
L’odierna politica italiana potrà mutare solo quando respingerà l’incompetenza come marco identitario della sua attuale pochezza; quando smetterà di criticare la competenza per sostenere, come argutamente scrive Gianni Canova nel suo mordace saggio Ignorantocrazia (Ed. Bompiani, 2019) “l’equivalenza di tutti a prescindere dalle conoscenze, dallo studio, dalla performatività, finanche dal talento”; quando non vi sarà più alcun vice-primo ministro, come Matteo Salvini, così incauto il 17 maggio 2019 da dichiarare azzardatamente e ridicolamente “Noi non ci occupiamo dello spread, ma dei cittadini italiani.” Sic et simpliciter! Dinanzi a tanto scempio della politica dobbiamo solo sperare?
Franco D’Emilio