Alla fine, sul filo dei suoi amari, tragici ricordi l’uomo si è commosso, quasi liberasse tutta l’emozione, suscitata dal ritorno della memoria a quei tempi difficili, tanto incerti per sé e la sua famiglia. I pensieri sono tornati alle sue vicende di giovane, poco più di un ragazzo, ritenuto colpevole della sua italianità, della sua marcata identità linguistica, culturale e religiosa di matrice italiana.
“Da un albero di marasche vicino al cimitero ho visto uccidere a sangue freddo due persone, prima costrette a scavarsi la fossa tra le tombe dello stesso camposanto e vanamente imploranti la pietà dei partigiani slavi assassini… Ad una visita a mio padre, incarcerato senza motivo, ma italiano, sentii raccontare di altri prigionieri italiani, mani legate dietro la schiena ed un peso al collo, spesso portati con barche in mare aperto e là fatti affogare… Per uno schiaffo, dato durante un litigio ad un coetaneo, figlio di un partigiano comunista, fui prelevato dalla milizia, portato in caserma e pestato duramente, infine rilasciato e, a casa, accolto dall’amorevole conforto di mia madre in lacrime che mi curò con lo strutto di maiale i segni delle percosse su tutta la schiena… Un mio cugino, colpevole di aver protestato contro i maltrattamenti, inflitti da combattenti partigiani slavi alle donne italiane, fu massacrato a colpi di asciugamani bagnati, perché non risultassero ferite… La sera, davanti al camino parlavamo solo di morte, pure delle sempre più ricorrenti voci su italiani, come noi perseguitati e scaraventati, ancora vivi, nelle foibe del Carso. Ogni sera, andando a letto, mi chiedevo se fossi arrivato al mattino successivo.”
Sono solo alcuni istanti del viaggio della memoria di Bruno Stipcevich, profugo dalmata di lingua italiana, nato a Zara nel 1939, ma da oltre 60 anni residente a Meldola: la sua è la storia di un italiano, dal 1945 al 1958 perseguitato con la famiglia dai partigiani di Josip Broz, detto Tito, uomini appunto chiamati “titini” proprio per derivazione dallo pseudonimo del liberatore della Jugoslavia dal nazifascismo, un protagonista della storia, cresciuto alla scuola del terrore e della dittatura comunista di Mosca.
Dunque, il nostro Bruno nasce a Zara da una famiglia della comunità italiana, quando la città è ancora e solamente un’enclave italiana in terra dalmata, come stabilito alla fine della Prima Guerra Mondiale; infatti, soltanto dal 1941 diventa capoluogo del Governatorato Italiano della Dalmazia, istituito dopo l’invasione della Jugoslavia da parte delle potenze dell’Asse.
È figlio di gente semplice, umile senza averi, solo tanta voglia di lavorare per un pane onesto, pur se amaro; né fascista né comunista la sua famiglia perché troppo presa dalla durezza della vita quotidiana, al massimo il rifugio nel pensiero o nella preghiera della propria fede di buoni cristiani. Bruno ha visto la violenza nazista, poi quella dei bombardamenti accaniti degli Alleati, infine quella comunista dei titini e, tra gli uni e gli altri, ha lottato per sopravvivere, soffrendo a tal punto la fame da “scavare sotto la neve in cerca di qualche rapa bianca oppure cercare lumache o, ancora, fare qualche trappola per uccelli.”
Il giovane Bruno Stipcevich, orgoglioso italiano dalmata, ha conosciuto la vendetta dei partigiani di Tito che, insensatamente, perseguitavano ogni appartenente alla comunità italiana, equiparandolo “tout court” al fascista o, perlomeno, al collaborazionista fascista: unica possibilità farsi comunista, lasciarsi indottrinare, magari accogliendo l’appello agli italiani dalmati del segretario comunista Palmiro Togliatti, ministro di grazia e giustizia nel governo Parri, “Accogliete l’armata jugoslava come l’armata di liberazione.”
Già la liberazione per la quale, ricorda Bruno, “ci spogliarono di ogni bene… la bici me la portarono via dicendo che serviva al comunismo liberatore.” e ancora aggiunge “Per capire cosa sia il comunismo bisogna averlo vissuto, come me, da dentro con tutte le sue aberrazioni e la sua crudeltà. Facile per Togliatti fare il comunista, prima fuggiasco al sicuro a Mosca, poi nella libertà e nella democrazia della rinata Italia!”
Finalmente, dopo 10 anni di sofferenza sotto la dittatura titina Bruno fu espulso con la famiglia dalla Jugoslavia, cancellato così di ogni diritto, persino all’anagrafe di Zara; quindi, profugo e con una sola valigia, pure rotta, di cartone, raggiunse l’Italia, inizialmente al Centro Smistamento Profughi di Udine, poco dopo a quello di Laterina in provincia di Arezzo, ospitato in baracche malsane, fatiscenti, di notte fittamente popolate da scarafaggi; centro dinanzi al quale non mancava il grido di disprezzo “Fascisti” di qualche aretino di passaggio che così esternava la stessa ostilità contro i profughi, manifestatasi a Firenze, Bologna e Milano. Liberi, certo, dalla dittatura comunista, ma sempre italiani concentrati in un campo, al freddo e poca brodaglia per cibo: almeno tutta la famiglia era, però, unita e salva dalla terribile pulizia etnica, culturale e politica, attuata dai “compagni” jugoslavi contro la comunità italiana della Dalmazia.
Quindi, grazie all’intervento di una parente, residente a Meldola, l’arrivo in questa cittadina dove Bruno, già adocchiato dalle ragazze locali come il “ragazzo slavo, s’incammina nell’impegno di una vita laboriosa, sempre esemplare: 23 anni operaio alla Mangelli di Forlì, altri 11 all’Ospedale di Meldola, solo un breve periodo di disoccupazione, disposto, comunque, a lavare auto ad appena 1.000 lire l’una.
Comunque, nonostante le tutele e gli aiuti previsti per legge a favore dei profughi, il nostro Bruno Stipcevich di Meldola non ha mai potuto godere di alcun beneficio, nessuna sua richiesta legittima è mai stata accolta né per il lavoro né per un alloggio popolare né per un sostegno ai figli; bussò, invano, anche alla porta del prefetto, del vescovo di Forlì, del sindaco di Meldola, pure di qualche parlamentare “progressista”, addirittura, molto ingenuamente, si rivolse ai sindacati, ma nessuno aprì oppure la risposta negativa fu una sottintesa allusione al suo trascorso sospetto di italiano dalmata colluso col fascismo. Però, che strano: appena arrivato e ancora senza cittadinanza italiana, la nostra Repubblica pretese dal nostro amico subito l’assolvimento del servizio militare in aeronautica a Viterbo!
Bruno non si è arreso e a mani basse, ma sempre a testa alta, sostenuto dall’amata moglie, ora scomparsa dopo un lungo e fortunato matrimonio, ha sgobbato duro, costruendo un piccolo benessere familiare, destinato ai suoi tre figli dei quali mi parla con fierezza e che, certamente, lo ripagano dimostrandosi degni di tanto padre.
Bruno si gode la sua meritata pensione, solo la notte lo rincorono a volte gli incubi del terribile passato di italiano perseguitato a Zara.
La sua Zara, città splendida, piena di storia, cultura italiana, centro di grande pluralità linguistica ed etnica tra italiani, albanesi e croati, una meraviglia architettonica, stuprata dai partigiani comunisti che, soprattutto, ne distrussero monumenti che rimandassero alla storia e alla presenza italiana, a partire da quella della gloriosa Repubblica di Venezia.
A Meldola, Bruno Stipcevich resta un irriducibile “zaratino”, così si chiamano gli abitanti di Zara, dove, per la prima volta, con grande commozione è ritornato solo nel 2017, un viaggio il cui ricordo incrina la voce al pensiero come tutto fosse cambiato, diversi amici scomparsi e sopravvivesse solo una piccola comunità italiana, scampata al peggio.
Per questo nella ricorrenza del Giorno del Ricordo, solennità civile alla memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata, ancora di più Bruno si rifugia con un sorriso nei versi del cantautore Simone Cristicchi: “Che male fa, se ancora cerchiamo il nostro cuore dall’altra parte del mare ove si presume esista ancora Fiume, Zara, città meravigliose…..Come si fa a morire di malinconia per una terra che non è più nostra, ma è stata la culla della nostra giovinezza?”
Un abbraccio a Bruno Stipcevich, indomito italiano, profugo dalla perla dalmata di Zara!
Franco D’Emilio