Domenica 18 settembre si svolge la 23° edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, manifestazione che permette di conoscere e approfondire storia, cultura e tradizioni dell’ebraismo, con visite guidate a sinagoghe, musei e quartieri ebraici, concerti, incontri d’autore, spettacoli teatrali, degustazioni kasher. Sono un centinaio le località italiane coinvolte nell’iniziativa e anche se Forlì non è tra queste è comunque l’occasione per ricordare le memorie ebraiche presenti nella storia forlivese.
Al riguardo è aperta già da novembre 2021 presso il polo museale comunale di Palazzo Romagnoli l’esposizione permanente Forlì Ebraica. Gli ebrei a Forlì: identità della città. È un percorso espositivo che recupera la storia della presenza ebraica forlivese, riscontrabile tra alterne vicende sin dalla seconda metà del XIII secolo. In questo che può essere considerato un primo nucleo di museo ebraico cittadino si documenta la vita degli ebrei forlivesi dal Medio Evo fino ai tragici anni delle persecuzioni razziali nazifasciste. La componente identitaria ebraica di Forlì ha quindi radici molto antiche ed è fatta di tante storie sulle quali varrà la pena di soffermarsi nel dettaglio.
Gli ebrei forlivesi, dal Duecento fino alla fine del Cinquecento, furono capaci banchieri, stimati medici, commercianti, artigiani e anche gestori di servizi pubblici. Per lunghi tratti della storia della città vissero mescolati con il resto della popolazione cristiana anche se in una zona di Forlì, l’area dell’ attuale corso Diaz nei pressi della chiesa parrocchiale di Ravaldino gli ebrei vivevano più numerosi. La loro continuativa presenza per circa trecento anni prima di essere cancellata dalle leggi restrittive applicate nel corso del Cinquecento nello Stato pontificio fu caratterizzata da una relativa libertà e integrazione nel tessuto cittadino alternata a limitazioni, discriminazioni e, in alcuni casi, soprusi. Il Cinquecento è il secolo dell’inasprimento generale delle condizioni di vita degli ebrei e Forlì non fece eccezione con l’obbligo del segno giallo distintivo della diversa condizione rispetto al resto della popolazione imposto nel 1534.
Alla fine del 1555 arrivò la costrizione del risiedere esclusivamente in una porzione della città nell’area del quartiere di Ravaldino che costituì la nascita del ghetto a Forlì. Con la fine del secolo le ultime disposizioni papali imposero agli ebrei l’obbligo di residenza solo in alcune città dei territori pontifici, Roma e Ancona e poi Ferrara, Cento e Lugo. Così si interruppe una presenza stabile degli ebrei a Forlì che, salvo qualche caso episodico, sarebbe ripresa solo nel corso del XIX secolo. È singolare che proprio quando a fine Cinquecento gli ebrei forlivesi se ne andavano dalla città venisse nominato vescovo un ebreo romano convertito Alessandro Franceschi (Roma 1543 ivi 1601), domenicano romano. Ebreo convertito e per questo soprannominato l’hebraino, dal 1594 vescovo di Forlì, si dimise tre anni dopo la nomina per tornarsene a Roma.
Il fenomeno delle conversioni al cristianesimo si verificò spesso e se, ovviamente, non si possono escludere adesioni sincere di ebrei, di frequente l’adesione al cristianesimo fu originata dalla costrizione o dettata dalla convenienza e cioè per sfuggire ad una situazione di emarginazione civile, sociale ed economica progressivamente crescente a partire dagli inizi del Cinquecento. Non era raro poi che i convertiti, intimamente e nascostamente, continuassero a professare la religione ebraica. D’altronde la stessa dinamica nella adesione ad una nuova religione si verificava anche tra i cristiani sotto il dominio islamico, definiti con disprezzo dagli ex correligionari “rinnegati”.
Anche a Forlì le antiche cronache e i documenti di archivio ci danno notizie di conversioni di ebrei al cristianesimo. A parte atti pubblici del XVI secolo che sembrano documentare disposizioni delle autorità volte ad incentivare economicamente le conversioni abbiamo un caso del secolo precedente riferito dal cronista Giovanni di m.° Pedrino. Accadde che un ebreo di Forlì, Salomone, il primo novembre del 1443 fu battezzato prendendo il nome da cristiano di Bartolomeo. Successivamente il convertito fece battezzare anche i suoi due figli “che zià erano in età discreda” mentre la moglie si mantenne fedele alla religione ebraica.
Possiamo immaginare che tale vicenda in Forlì abbia avuto una certa eco, ma, uscendo dall’ambito locale, ben altra risonanza, addirittura a livello internazionale, ebbe un’altra conversione.
Fu quella di Alphonse Ratisbonne, membro di una delle famiglie più in vista del mondo degli affari della Francia della prima metà dell’Ottocento. Di origine ebraica ma lontano dalla pratica religiosa, Alphonse era nato a Strasburgo nel 1814 e raccontò la sua conversione come la risposta ad un grande vuoto esistenziale che sentiva dentro di sé. Il tutto avvenne entro un percorso non forzato di avvicinamento al Cristianesimo favorito da incontri con connazionali residenti a Roma. La conversione di Ratisbonne avvenne nella Città Eterna ove si trovava di passaggio in modo prodigioso a seguito della apparizione della Madonna che gli si materializzò il 20 gennaio 1842 nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte dove era casualmente entrato. Successivamente entrò nella Congregazione Notre Dame de Sion fondata dal fratello Theodore convertitosi anni prima e sacerdote dal 1830. Con lui Alphonse si ritirò in Terra Santa, ad Ain Karin, il luogo tradizionale della Visitazione di Maria ad Elisabetta, dedicandosi alla preghiera, all’ apostolato e all’assistenza degli orfani e dei giovani, ebrei, cristiani o musulmani, in condizione di povertà. Qui Alphonse Ratisbonne morì nel 1884.
Paolo Poponessi