Partito Democratico: fine di un partito piacione

Dal PCI al PD

La crisi del Partito Democratico è quasi drammatica sia per lo scarso spessore della sua proposta politica sia per il declino lento, inesorabile, “goccia a goccia” del suo consenso elettorale. Il PD si trova ad un bivio, costretto a scegliere: o individua una strada nuova e lineare, agevole e percorribile oppure resta sulla via attuale, alquanto accidentata, nella convinzione che solo alcune correzioni di condotta e di percorso possano bastare ad evitare il peggio. Certo, l’impresa non è facile, e poi, si sa, vale anche in politica, chi lascia la via vecchia, pur se insicura, fangosa e franosa, sa quel che lascia, ma non sa affatto cosa, invece, possa trovare sulla strada nuova.

È la crisi, forse l’agonia di un partito, nato a tavolino nel 2007 senza un ampio, diffuso calore partecipativo dei soggetti coinvolti, quindi, per così dire, dalla “fusione a freddo” di residuati o trasformismi della Prima Repubblica, decisi ad unirsi per un solo fine: sopravvivere! Sì, sopravvivere ad ogni costo e di fretta, trascurando che pienamente si compisse un’armonizzazione, dunque una reale integrazione tra le diverse anime politiche coinvolte: l’area postcomunista e quella socialista-riformista, l’area postdemocristiana e quella dei vari movimenti della diaspora cattolico-progressista, infine l’area del liberalismo democratico, compresa la presenza della tradizione radicale.

Fu, allora, una scelta anche sollecitata da una strategia politica nel segno del bipolarismo e del suo strumento ovvero il sistema maggioritario. Dal 2007 ad oggi, da Walter Veltroni ad Enrico Letta e con due mandati soltanto per Matteo Renzi, sono stati 10 i segretari nazionali del Partito Democratico, insomma, di media, un segretario dopo ogni anno e mezzo di incarico. Sicuramente, questo dato ci fa intendere l’inconsistenza, la conseguente fragilità e precarietà politica odierna del PD, certi, tuttavia, che non potesse andare diversamente, considerate le misere e generiche premesse fondative, espresse da Veltroni nel suo discorso al Lingotto di Torino il 27 giugno 2007: ambiente, patto generazionale, formazione, sicurezza. Inevitabile che questi 4 temi chiave, tanto vaghi e fatui perché non caratterizzanti solo il centrosinistra, ma trasversali da destra a sinistra, si siano rivelati utili solo perché il Partito Democratico risultasse malleabile, adattabile, soprattutto configurabile su tutte le mutevoli realtà sociali, economiche e politiche del paese.

Insomma, un partito di plastica morbida, quasi un pongo nelle mani del fantasioso Veltroni: manifesto militante comunista con l’audace faccia tosta nel 2002 di dichiarare di non essere mai stato tale; poi, prolifico autore di romanzi e saggi, così apprezzati da finire, perlopiù, nella resa agli editori, dunque al macero, o, nel migliore dei casi, sulle bancarelle dei reimanders a prezzo stracciato; infine, intellettuale di tanto spessore per la conoscenza dei fumetti e della cinematografia, relativa alla cosiddetta “commedia all’italiana”. Davvero un guru inaffidabile! In quali mani la memoria di Togliatti, De Gasperi, Nenni, Berlinguer! In quali mani il sogno repubblicano di La Malfa per l’equità di una possibile politica dei redditi!
In fondo, da Veltroni in poi, nonostante qualche aggiustamento di rotta, il PD è stato solo un partito “piacione”, deciso a rivelarsi accattivante, piacendo un po’ a tutti, insomma politicamente seduttivo a sinistra, al centro e, perché no, anche ai settori della destra più moderata.

La verità è che il Partito Democratico può, sì e solo in parte, definirsi storicamente postcomunista, ma nella sua totalità, invece, per la pratica politica si è rivelato sempre e soltanto un soggetto postdemocristiano, tardivamente emulo di quell’interclassismo che all’insegna dell’accomodante “ce n’è per tutti” aveva fatto la fortuna della DC, Balena Bianca nella definizione di Giampaolo Pansa. Tutta questa scimmiottatura, in parte e temporaneamente, ha dato pure dei frutti, elettorali e politici, ma alla fine ha dovuto cedere il passo a nuove istanze che reclamavano di più, incalzate da nuovi assetti economici, da nuove configurazioni del lavoro e della società, da una nuova dignità di appartenenza identitaria alla nazione e, quindi, di fede nella sovranità, per troppo tempo sacrificate sull’altare della disparità comunitaria europea.

Una nuova realtà ha, così, travolto il partito di plastica del PD, bloccato, ormai, solo simulacro di cartapesta, sia dalla pressione del mutevole qualunquismo del Movimento 5 Stelle, concorrenziale a destra come a sinistra, sia dal protagonismo personale della sua stessa classe dirigente, sempre più affetta da logorrea salottiera e sempre più lontana dalla realtà degli iscritti, ma in particolar modo di tutta la società. Rassegnato a galleggiare nella consapevolezza di poter affondare, il Partito Democratico ha stretto alleanze con tutti pur di salvare il suo potere centrale e periferico, giungendo, persino, ad opporsi ostinatamente ad ogni ricorso al voto popolare.

Adesso 4 o 5 saranno i candidati alla nuova segreteria nazionale del PD, dei quali ben 3 espressi dall’Emilia Romagna: quest’ultima regione rossa sempre più anemica e vandea nostalgica di compagni, fottutisi nel gioco a fare i democristiani fuori tempo. Poveri compagni del PD, illusi che valesse il progetto avventuroso del partito inesistente, “l’isola che non c’è” dell’inavveduto Peter Pan Walter Veltroni.

Franco D’Emilio

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