Basta poco: una stinta cartella verdolina, stretta da uno spago, tanto gonfia di documenti tra il 1944 e il principio del 1947; infine, alcuni appunti dalla scrittura minuta e precisa su un’agenda del ‘44, segretamente custodita per decenni, quasi fosse utile, se necessario, per riaprire la memoria segreta di un tempo che fu.
Altrettanto poco è bastato per contattarmi: un comune, solido amico, davvero raro in epoca di fittizie amicizie via social. Così nell’afoso scorso luglio mi sono ritrovato nello studio luminoso, tutto di candidi mobili e foderato di libri, del mio nuovo, inaspettato amico, un sessantottenne di origini toscane.
“Mio padre ci ha lasciati sei mesi fa, 99 anni tondi, l’età c’era e pesava. Viveva nell’appartamento accanto, badante full-time. Io e mia sorella unici eredi, comprese queste carte in una cassetta di sicurezza. Neppure un’occhiata ci ho dato, ho immaginato di cosa si trattasse, ho sempre saputo del trascorso fascista del babbo. Poi Valerio, nostro comune amico, sì ne ho parlato con lui, mi ha detto di lei, persona giusta al caso mio. Guardi tutto con calma”.
Caspita, non tutti i giorni si ricorre alla mia esperienza di topo d’archivio! Dunque, ho affilato il mio occhio archivistico e per quasi due giorni ho spulciato quei documenti, quell’agenda: un viaggio a ritroso tra fascismo, antifascismo e guerra; una vicenda in gran parte sul palcoscenico della città toscana di Pistoia, quella che D’Annunzio aveva definito “Città dei Crucci” tra le “città del silenzio”; infine, un protagonista, il pistoiese Licio Gelli, tragico e insidioso mattatore, da figlio scavezzacollo di un mugnaio a equilibrista tra camicie nere e partigiani, da piccolo e oscuro affarista a futuro grande faccendiere massone, addirittura nelle vesti di maestro venerabile della loggia Propaganda 2, detta P2.
Da quelle carte, in fondo, nulla di nuovo, però la conferma di quanto già “investigato” dal grande giornalista Gianfranco Piazzesi (Firenze, 1923-Roma, 2001) sino alla pubblicazione nel suo “La caverna dei sette ladri”, Edizioni Baldini & Castoldi, 1996. Insomma, mi sono imbattuto in altri indizi che, in aggiunta a quelli trovati da Piazzesi, possono anche in campo archivistico confermare la regola di Agatha Christie per cui “un indizio è un indizio, due sono una coincidenza, ma tre o più fanno già una prova”.
Prova di cosa? Andiamo per gradi. Intanto, nell’agenda dell’irriducibile camicia nera defunta, allora giovane ventiduenne repubblichino assai vicino a Gelli, aveva incuriosito e stuzzicato la mia memoria l’appunto “L. viaggio a Roma”, posto sotto l’incompleta datazione sottolineata “dicembre 1944”. Al ritorno a casa a Forlì, proprio dalla consultazione del libro di Piazzesi e della trascorsa inchiesta del ‘96 “L’oro di Gelli. Anatomia di un mistero rosso-nero” di Mario Ajello e Pasquale Chessa, pubblicata sul settimanale Panorama, capivo perché quell’appunto tanto avesse solleticato la mia memoria. Quel “L. viaggio a Roma”, infatti, riguardava Licio Gelli che a fine dicembre del ’44, come accertato e documentato, compiva un viaggio a Roma, accompagnato da tre partigiani comunisti, tutti pistoiesi: Bruno Tesi, responsabile di quella stessa spedizione romana, poi, quali scorta armata, Nello Lucchesi e Alcide Carradori.
Il viaggio, autorizzato da Italo Carobbi, comandante delle formazioni partigiane comuniste, attive nel pistoiese, utilizzò un mezzo messo a disposizione da Elio Civinini, anch’egli ex partigiano comunista, ma dopo la liberazione di Pistoia, l’8 settembre 1944, nominato direttore dell’annona per i rifornimenti alimentari cittadini, quindi nella piena disponibilità di diversi automezzi, tanto da impegnarne uno per un viaggio a Roma, già liberata il precedente 4 giugno. Perché questo viaggio? Licio Gelli, come risulta testimoniato, doveva incontrare a Roma Palmiro Togliatti, segretario del PCI, nella sede nazionale comunista, allora al numero 243 di via Nazionale. Ma perché mai i comunisti pistoiesi si prendevano tanta premura di un fascista, come Licio Gelli, responsabile a Pistoia di gravi delitti?
È vero che Gelli, come risulta da attestati del comandante partigiano comunista Italo Carobbi e da successive dichiarazioni del prof. Giuseppe Gentili, esponente del PCI e sindaco di Pistoia dal giugno ’51 al novembre ’59, avrebbe collaborato con la resistenza contro l’occupazione tedesca, però è altrettanto vero quanto, a tutela della sua persona da possibili vendette per i suoi trascorsi fascisti, Gelli abbia esercitato un duplice ricatto sul vertice partigiano comunista pistoiese. Infatti, il futuro maestro venerabile fu abile sia come doppiogiochista tra nazifascismo e resistenza per accreditarsi presso i futuri vincitori sia come triplogiochista tra nazifascisti e le due componenti della Resistenza stessa: quella comunista e quella, guidata da Silvano Fedi, delle Squadre Franche Libertarie, fra l’altro anche rappresentativa del Partito d’Azione e fortemente concorrente, oltre che più nelle simpatie della popolazione pistoiese.
Gelli non ha mai smentito le voci di una sua soffiata ai tedeschi per l’agguato mortale del 29 luglio ’44 in località Croce di Vinacciano a Silvano Fedi, con il quale pure falsamente collaborava, alimentando, così, il sospetto di aver reso indirettamente ai partigiani comunisti il servizio di togliere loro di torno un temibile concorrente nella guerra di liberazione. Contemporaneamente, Gelli si protesse anche con il segreto di un tesoro nascosto, del quale il vertice comunista ovvero Togliatti sapeva e voleva essere partecipe: 20 tonnellate d’oro delle complessive 60 della Banca Nazionale del Regno di Iugoslavia, finite in mano italiana nell’aprile ’41 presso la città montenegrina di Cattaro e delle quali solo circa 40 tonnellate si sapevano disponibili per la restituzione alla Jugoslavia di Tito.
Gelli, all’epoca ventiduenne e da poco arruolato nel SIM (Servizio Informazioni Militari) per interessamento di Lugi Alzona, ex federale di Pistoia, aveva collaborato al trasporto del tesoro jugoslavo sino a Trieste su un binario morto della stazione, da dove sempre per conto del SIM aveva collaborato alla dislocazione dell’oro in diversi siti. Dall’incontro a Roma con Togliatti, grazie al suo collaborazionismo con la resistenza, Licio Gelli vide assicurarsi l’impunità per i suoi trascorsi fascisti, restando, così, l’unico del SIM, prima direttamente coinvolto nella gestione del tesoro e, poi, libero di tornarne in possesso per una buona parte.
In proposito, si giunse ad un accordo: il PCI ebbe la sua quota e Gelli la propria, sicuramente pure per conto altrui, unitamente all’autorizzazione di poter lasciar Pistoia, sottraendosi ad ogni pericolo di vendetta, e raggiungere, quindi, l’isola sarda della Maddalena, ponendosi sotto la tutela degli americani.
Guarda caso, pochi giorni dopo il viaggio del futuro venerabile a Roma da Togliatti, il 12 gennaio ’45 il comandante partigiano comunista pistoiese Italo Carobbi rilasciò all’ex fascista Gelli il lasciapassare, qui allegato, per l’imbarco a Napoli verso la Sardegna.
Così, parte dell’oro jugoslavo rimase in mani davvero capaci di maneggiare e far fruttare il danaro, corrompendo uomini e potere nel segno della massoneria e, poi, della P2; altra parte finì nella realizzazione della gigantesca organizzazione e burocrazia del Partito Comunista Italiano.
Franco D’Emilio