Ismaele l’ebreo partigiano di Santa Sofia

Mauthausen

Il 15 aprile 1944, a Firenze, dinanzi all’ingresso della sua residenza a Villa di Montalto al Salviatino sulla prima collina di Fiesole, poco sopra Campo di Marte, veniva ucciso Giovanni Gentile, celebre filosofo, rappresentante della cultura nel Ventennio, già nel 1925 cofondatore con Giovanni Treccani dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e, prima ancora, ministro della pubblica istruzione e, come tale, artefice nel 1923 della riforma della scuola.
L’uccisione avvenne ad opera di un’unità di ispirazione comunista, aderente ai GAP, Gruppi di Azione Partigiana, esecutore materiale Bruno Fanciullacci, uno dei sette partigiani, con diverso incarico partecipanti all’agguato.

Immediatamente, Raffaele Manganiello, prefetto e capo della provincia di Firenze dal 1° ottobre ’43 al 23 luglio ’44, dispose a tempo indeterminato sia il pattugliamento di controllo della città e delle sue immediate periferie sia numerosi posti di blocco sulle vie d’uscita dall’hinterland fiorentino. Appunto, nei controlli cittadini del 18 aprile ’44, ad opera dei fascisti repubblichini, così agli atti della Prefettura di Firenze, 1865-1952, in deposito all’Archivio di Stato di Firenze, incappò tristemente Ismaele Sabatini, cittadino residente a S. Sofia, provincia di Forlì, ove era nato il 7 ottobre 1904 in via Nicolò Gentili.

I documenti in suo possesso, certamente preceduti da qualche segnalazione forlivese, non lasciarono scampo al giovane, subito identificato come ebreo e partigiano, poi consegnato ai nazisti, pochi giorni dopo, assieme ad altri catturati a diverso titolo, o perché ebrei o partigiani o disertori oppure politici antifascisti, per la deportazione e l’internamento, prima, nel campo di concentramento principale di Mauthausen, poi nel suo sottocampo di Gusen, dove morì il 16 dicembre 1944. Si concluse così tragicamente la vita di Ismaele, discendente della famiglia ebrea dei Sabatini, a metà degli anni sessanta dell’800, dopo l’unità d’Italia, trasferitasi nel Comune di S. Sofia dalla comunità toscana di Pieve di Arezzo, installando “un opificio per la cardatura della lana”, cosicchè “la loro condotta non accolse mai lamento alcuno sia a questa autorità che a quella Giudiziaria e così da meritarsi fama di assiduità al lavoro”, come attestato in una nota del 1871 da Luigi Giovannetti, sindaco dello stesso paese romagnolo.

Dal XV secolo, infatti, nei territori aretini della Valtiberina e della Valdichiana si conosceva una presenza ebraica dedita alla lavorazione e tessitura della lana.
Penultimo di 12 fratelli, tanto era stato prolifico il matrimonio del padre Abramo con Rosa Rapini, anch’essa aretina, il nostro Ismaele crebbe educato al lavoro e con una sufficiente istruzione, prima operaio nel piccolo opificio familiare, poi artigiano in proprio nel settore dell’edilizia. Di spirito antifascista, aveva aderito, ormai quasi quarantenne, alla Resistenza nelle file dell’VIII Brigata Romagnola Garibaldi, ma dopo il rastrellamento nazifascista, che tra il 5 e il 12 aprile ’44 aveva scompaginato quella stessa formazione partigiana, aveva deciso di abbandonare per un po’, in attesa di tempi migliori, S. Sofia e la Valle del Bidente, recandosi a Firenze dalla sorella Zelinda, ancora convalescente dopo un intervento chirurgico, fra l’altro con un ricovero sotto falso nome, data l’origine ebraica.

Ecco perché Ismaele si trovava a Firenze nel giorno dell’attentato mortale a Giovanni Gentile, venendo, così, arrestato tre giorni dopo. Negli ultimi giorni dell’aprile ’44 alla mamma del nostro protagonista fu recapitata per posta e in busta chiusa la licenza di caccia, intestata ad Ismaele, che il figlio, durante una sosta a Bologna del treno verso Mauthausen, aveva fatto cadere tra le assi del carrobestiame dopo avervi scritto sopra a matita “a mia madre Rapini Rosa”. La pietà di un ferroviere, raccogliendo quella licenza tra i binari, aveva provveduto alla triste incombenza.

Franco D’Emilio

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