In via Rasella regolamento di conti dei partigiani comunisti

Targa Fosse Ardeatine

Smettiamo, una volta per tutte, di girare attorno ad una verità scomoda, scandalosa, sempre più testimoniata e pure attestata da fonti archivistiche, circa l’attentato del 23 marzo 1944 a Roma in via Rasella, ad opera di un Gruppo di Azione Patriottica del Partito Comunista Italiano contro un reparto delle forze d’occupazione naziste.
Giudico incaute, perché storicamente insensate, le parole del Presidente del Senato, Ignazio La Russa, che la strage di via Rasella sia stata “pagina non nobile della Resistenza, gli uccisi erano una banda musicale di semi-pensionati”: la dignità di un atto terroristico, ammesso che esista, non può certamente dedursi dall’età, giovane o tarda, delle vittime.
Ribatto che la carneficina di via Rasella costituisce sì un episodio ignobile della Resistenza, ma per una duplice evidenza, ormai ineludibile: prima, quella di essere stato compiuto senza una ragione impellente e nella consapevolezza della conseguente, inevitabile rappresaglia; poi, quella di aver costituito un vero e proprio regolamento di conti all’interno del movimento partigiano, soprattutto, della sua frazione comunista. Dunque, condivido la prima asserzione di La Russa circa la “pagina non nobile della Resistenza”, ma da lui dissento circa la motivazione di tale indegnità.

Primi scorci di verità su via Rasella cominciano ad aprirsi tra il 1972 e il 1975 in alcune commissioni tematiche del Comitato Centrale e della Direzione Nazionale del PCI, spesso precedute o seguite da memoriali sui moventi che, appunto, portarono all’attentato: inizia, quindi, a rompersi un muro omertoso e complice, accendendosi una discussione sempre più viva sulle ragioni di quella tragedia, addirittura con il lancio di accuse, anche insulti, insomma la classica bagarre con volo di stracci.
Non dobbiamo dimenticare che, ancora all’inizio del ’44, il Pci risultava in minoranza nell’ambito della Resistenza romana e costantemente incalzato da altre organizzazioni politiche: Bandiera Rossa, principale formazione partigiana d’ispirazione rivoluzionaria comunista; il Fronte Militare Clandestino, struttura militare, operante in collegamento con le forze armate del Regno del Sud; infine, erede di Giustizia e Libertà, il Partito d’Azione, movimento di forte impronta liberalsocialista e repubblicana.

Queste tre significative presenze della Resistenza ostacolavano l’aspirazione egemonica e la strategia del Partito Comunista. Infatti, se le tre organizzazioni puntavano da subito all’ordinamento repubblicano nell’Italia liberata, il PCI voleva, invece, una politica di compromesso con la monarchia sabauda e con Badoglio, come subito s’intese da Togliatti al momento del suo rientro da Mosca il 27 marzo ’44 e, ancora di più dalla sua esplicita “Svolta di Salerno” dei successivi 30-31 marzo, in contemporanea con un articolo di sostegno, pubblicato, guarda caso, il 30 marzo, dall’Izsvestija, quotidiano del governo sovietico. Togliatti, supino al mandato dell’URSS, apriva alla svolta machiavellica, subdola del governo di unità nazionale, nel quale sarebbe entrato come ministro di grazia e giustizia.

Sempre più, fonti archivistiche, memorie, diari personali, persino componimenti letterari palesano la necessità di chiarezza su alcuni punti.
Innanzitutto, l’attentato fu organizzato fuori da ogni ragione di urgenza e immediata finalità militare, cosicché l’azione di via Rasella, ideata e organizzata dal comunista Giorgio Amendola, non ebbe mai l’approvazione o il riconoscimento da parte del dc Giuseppe Spataro, del socialista Sandro Pertini, del liberale Manlio Brosio e dell’azionista Riccardo Bauer, tutti rappresentanti in seno al CLN, Comitato di Liberazione Nazionale.
Il PCI romano organizzò l’attentato di via Rasella, determinando la tragica appendice delle Fosse Ardeatine, in contrarietà al parere o, addirittura al divieto, come nel caso di Bandiera Rossa e del Fronte Militare Clandestino, avverso azioni armate contro i tedeschi a Roma, proprio per evitare l’alto rischio di rappresaglie.

Ancora, il terrore di via Rasella e delle Fosse Ardeatine avvallò la realizzazione del governo di unità nazionale, voluto dai sovietici e da Togliatti; intimidì ogni oppositore del disegno egemonico del PCI sulla sinistra. Inoltre, Amendola volle a tutti i costi l’azione partigiana comunista in via Rasella per due motivi: mostrare la determinazione del PCI, forza indispensabile della Resistenza; dare a Togliatti, prossimo al ritorno in Italia, prova della sua personale, rinnovata collaborazione dopo talune reciproche critiche tra il 1941 e il ’43 sul tema del rapporto fra rivoluzione e riformismo.

Non possiamo, inoltre, tralasciare una particolarità del tragico elenco delle Fosse Ardeatine: su 335 vittime ben 68 sono di Bandiera Rossa, un cospicuo numero del Partito d’Azione e del Fronte Militare Clandestino; 55 sono militari, fra i quali 4 generali. Pochissime, al contrario, le vittime comuniste; tutti salvi i veri responsabili dell’attentato, come Rosario Bentivegna. Addirittura, scampato al prelievo per le Fosse, Antonello Trombadori, sempre comunista, allora detenuto a Regina Coeli.
Chiudo con i versi di Corrado Govoni, dedicati al figlio Aladino, uno di “Bandiera Rossa”, fucilato alle Fosse Ardeatine: “… il vile che gettò la bomba nera / di via Rasella e fuggì come una lepre / sapeva troppo bene quale strage / tra i detenuti di Regina Coeli e via Tasso / il tedesco ordinerebbe…/ Chi fu l’anima nera della bomba?…/ Fu Bonomi o Togliatti?…/… o fu Badoglio?…/ Tacciono i vili.”.

Franco D’Emilio

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